argomento: COVID-19 - Legislazione e prassi
L’emergenza da Covid-19 impone delle scelte anche (e soprattutto) sotto il profilo fiscale, tese a garantire, da un lato, misure di sostegno per famiglie ed imprese, e, dall’altro, le entrate tributarie. Tali misure potrebbero concretizzarsi nella introduzione di forme di prelievo patrimoniale straordinarie (i.e. prelievo forzoso su depositi bancari e conti correnti, patrimoniale sui grandi patrimoni) - su cui si nutrono riserve, non tanto sulla legittimità, quanto sui conseguenti effetti economici - oppure nella previsione di specifiche forme di sostegno generalizzate o tipizzate per una o più categorie e/o attività economiche (aliquote differenziate per settori produttivi, diminuzione del prelievo per i settori maggiormente colpiti, eliminazione dei versamenti in acconto, rateizzabilità delle somme da versare in autoliquidazione, introduzione dell’istituto del riporto all’indietro delle perdite, sospensione degli ISA, abolizione della disciplina delle c.d. “società di comodo”).
» visualizza: il documento ()PAROLE CHIAVE: coronavirus - misure straordinarie - forme di sostegno - agevolazioni - politica economica
di Giuseppe Marini
1. L’emergenza epidemiologica da Covid-19 sta mettendo a dura prova la tenuta del nostro Paese, con il rischio di gravi ripercussioni nel sistema economico, che ancora prima dell’insorgenza della crisi sanitaria, si presentava di per sé assai fragile.
In questa situazione, la leva fiscale potrebbe certamente essere un volano per superare le attuali difficoltà; si pone, tuttavia, il problema di individuare quale sia la strada più corretta e quella più efficace da percorrere per la politica fiscale, chiamata a contemperare, da un parte, gli interessi dei cittadini che invocano misure di sostegno per le famiglie e per le imprese, e, dall’altra parte, l’interesse dell’Amministrazione finanziaria a preservare il gettito delle entrate tributarie.
2. Le misure fiscali da adottare in questo tempo di crisi potrebbero, in via teorica, seguire due percorsi, tra di loro alternativi o anche complementari; potrebbero, in altri termini, conseguire a norme impositive, con la introduzione di forme di prelievo ad hoc straordinarie e peculiari, ovvero trovare fondamento in norme agevolative, attraverso la previsione di specifiche forme di sostegno generalizzate o tipizzate per una o più categorie e/o attività economiche.
Ad oggi, il Governo si è mosso unicamente verso tale seconda direzione.
I vari decreti che si sono succeduti in queste ultime settimane, infatti, hanno introdotto misure fiscali di contrasto agli effetti economici derivanti dalla crisi da Covid-19, che vanno dalla sospensione di adempimenti e versamenti, all’introduzione di agevolazioni e crediti di imposta.
Molto è stato fatto, ma molto si può ancora fare (v. sul punto, G. Melis, Interventi tributari e crisi pandemica, in Luiss Open); a questo proposito si esprimono le seguenti considerazioni.
3. Le misure fiscali, per così dire impositive, che si potrebbero ipotizzare sono due:
- l’introduzione di un prelievo forzoso sui depositi bancari e conti correnti aperti in Italia o accesi all’estero, alla stregua di quanto accadde nel 1992 con il Governo Amato (D.L. n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 359 del 1992);
- l’introduzione di una patrimoniale straordinaria sui grandi patrimoni.
Prima facie è possibile affermare che la prima di dette misure si caratterizzerebbe - per usare le parole della Corte Costituzionale nella nota sentenza n. 143 del 1995 emessa all’esito del giudizio di legittimità dell’art. 7 del D.L. n. 333 del 1992 - per la possibilità di «individuare un meccanismo di immediato accertamento e di agevole riscossione dell’imposta medesima».
Detto in altri termini, tale misura inciderebbe su una base imponibile facilmente accertabile, ovvero il saldo di conti correnti e di deposito, la cui modalità di riscossione sarebbe altrettanto agevole per l’Amministrazione finanziaria per il tramite degli Istituti di credito detentori dei medesimi conti.
L’introduzione del prelievo forzoso, alla stregua di quanto accadde nel 1992 con il Governo Amato, verrebbe probabilmente affidata allo strumento del decreto-legge, nonostante l’art. 4, L. n. 212 del 2000 preveda espressamente che «non si può disporre con decreto-legge l’istituzione di nuovi tributi né prevedere l’applicazione di tributi esistenti ad altre categorie di soggetti».
Occorre, tuttavia, ricordare che, come più volte precisato dalla Corte di Cassazione, «le disposizioni della L. n. 212 del 2000 costituenti principi generali dell’ordinamento (art. 1, comma 1) vengono in questione quale “orientamento ermeneutico ed applicativo vincolante nell’interpretazione del diritto, cosicché qualsiasi dubbio interpretativo o applicativo deve essere risolto dall’interprete nel senso più conforme a questi principi” (cfr. Corte cass. 5 sez. 10.12.2002 n. 17576; Corte cass. 5 sez. 14.4.2004 n. 7080 - id. 5 sez. 6.10.2006 n. 21513; id. 5 sez. 21.2.2008 n. 4388), ma sono insuscettibili - in quanto aventi la stessa forza e valore delle altre leggi ordinarie - a costituire un parametro di verifica della legittimità costituzionale o della validità delle altre norme di legge tributaria, rimanendo esclusa la possibilità di una disapplicazione della norma di pari rango per “contrasto” con le disposizioni della L. n. 212 del 2000 (cfr. Corte cost. n. 180/2007; Corte cass. 5 sez. 6.4.2009 n. 8254, con specifico riferimento alla L. n. 212 del 2000, art. 3)» (in tal senso, Cass., sent. 9307 del 17 aprile 2013).
In altri termini, essendo i decreti-legge norme aventi la stessa forza e lo stesso valore delle leggi ordinarie (e, quindi, anche dello Statuto dei diritti del contribuente), nulla impedisce che la previsione del citato art. 4, L. n. 212 del 2000 sia derogata da quella di un decreto-legge che istituisce un nuovo tributo (sempre che, ovviamente, sussistano le condizioni di necessità ed urgenza cui l’art. 77 Cost. subordina la legittimità dell’adozione di un decreto-legge; sul punto v. cfr. E. Della Valle, Alcune coordinate dell’emergenza nell’ordinamento tributario, in Il Fisco, 2020).
Quanto al contenuto di tale misura fiscale, non sembra che si possa dubitare del fatto che esso supererebbe con ogni probabilità il vaglio di legittimità costituzionale, tenuto conto di quanto affermato dalla Consulta nella già ricordata sentenza n. 143 del 1995 sulle misure adottate dal Governo Amato.
In tale circostanza, la Corte ebbe a rilevare che si trattava di «un’imposta straordinaria connotata da modalità eccezionali ed inserita in un contesto di misure finanziarie di carattere generale, nell’ambito del quale il prelievo sui depositi, nel colpire un peculiare indice di capacità contributiva, incide sui depositi stessi con un’aliquota invero di contenuta entità, tale da non potersi ragionevolmente considerare ablativa del patrimonio del soggetto. In relazione a siffatte caratteristiche non può, pertanto, dirsi che il legislatore abbia travalicato i limiti del discrezionale apprezzamento al medesimo spettante in materia, mentre, ad ulteriore sostegno di un giudizio di non incostituzionalità della norma denunciata, sta la circostanza che trattasi di un’imposizione una tantum e, quindi, tale da non alterare, secondo un canone valutativo altra volta fatto proprio dalla Corte, il sistema tributario considerato in tutte le sue componenti».
Considerazioni che, mi sembra, potrebbero valere anche per l’attuale situazione.
Tuttavia, ora come allora (il riferimento è a G. Falsitta, Lo scippo del Governo Amato salvato dalla Consulta, in Riv. Dir. trib., 1995, II, 476 ss..), non mancano perplessità e riserve, non tanto sulla legittimità, quanto sui conseguenti effetti economici di un simile provvedimento (sul punto v. anche A. Viotto, Considerazioni critiche sulle imposte speciali di matrice patrimoniale, in Giurisprudenza delle imposte, 2017, 1).
In primo luogo il “nuovo” prelievo forzoso sui depositi bancari verrebbe ad essere percepito come un’ennesima misura espropriativa da parte dello Stato, destinata ad incidere su una ricchezza che deriva da redditi comunque già assoggettati a tassazione.
Essa, poi, finirebbe per privare le famiglie e le imprese di risorse finanziarie che oggi sono invece indispensabili (sul punto, v. A. Contrino - F. Farri, Emergenza coronavirus e finanziamento della spesa pubblica: è possibile trarre indicazioni per la futura politica fiscale italiana?, in Supplemento on line della Riv. dir. trib. del 28 marzo 2020).
E l’assurdo si tramuterebbe in paradosso laddove oggetto di tale ipotizzato prelievo forzoso fosse quella liquidità destinata a transitare proprio su conti correnti e di deposito che altri decreti del Governo (in particolare, il c.d. “Cura Italia n. 18 del 2020 e il c.d. “Decreto Liquidità” n. 23 del 2020) stanno cercando di garantire a famiglie, liberi professionisti ed imprese, favorendo l’accesso a forme di finanziamento garantite dallo Stato.
E’ evidente, infatti, che tale disponibilità di denaro non costituisce affatto un “patrimonio”, bensì un debito che famiglie, liberi professionisti ed imprese dovranno prima o poi restituire, di talché una norma che pretenda di assoggettarla a tassazione si scontrerebbe inevitabilmente con il principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost..
Come giustificare, allora, una scelta di un Governo che, da un lato, consente ad un cittadino di accedere con maggiore facilità ad un finanziamento da parte, ad esempio, di un Istituto di credito (denaro che, si ribadisce, dovrà essere restituito) e, dall’altro, nel momento stesso in cui dette somme “arrivano” sul conto corrente, le assoggetta ad un prelievo forzoso seppure una tantum?
Torna alla mente la citazione cinematografica della “mandrakata”…
Tra l’altro, è bene ricordare, che ad oggi, è già previsto un prelievo forzoso, sotto forma di imposta di bollo, sugli investimenti in titoli, oltre all’imposta fissa sul conto corrente.
L’attuale imposizione è estesa anche agli investimenti all’estero che, come noto, scontano l’Ivafe (Imposta sul Valore delle Attività Finanziarie detenute all’Estero; sul punto v. A. Viotto, Considerazioni critiche, nella prospettiva costituzionale ed in quella comunitaria, sulla tassazione degli immobili e delle attività finanziarie detenuti all’estero, in Riv. Trim. Dir. Trib., 2016, 3, 701 e ss.).
Si finirebbe dunque per introdurre una misura che va a sovrapporsi o a duplicare quanto già esistente.
Per quanto riguarda invece l’imposta patrimoniale straordinaria sui grandi patrimoni, sebbene una sua introduzione finirebbe per essere maggiormente giustificata agli occhi dell’opinione pubblica, vi è da dire essa sarebbe comunque assai difficile da “gestire” sia sotto il profilo della determinazione della base imponibile, che per quel che riguarda l’attività di verifica e di accertamento da parte degli Uffici.
Ed invero, il gettito dell’imposta patrimoniale dovrebbe “passare” attraverso la ricostruzione e la valorizzazione dell’intero patrimonio del contribuente (conti correnti, immobili, beni mobili, partecipazioni societarie, etc.), e non solo di quello esistente nel territorio dello Stato, ma anche di quello risultante all’estero, il che non è operazione obiettivamente facile.
Ne deriverebbe una gestione assai gravosa del tributo, con dispendio di costi ed energie, anche da parte dell’Amministrazione finanziaria, con tutte le conseguenze che ne derivano in termini di certezza dei rapporti tributari e con il rischio di vedere vanificata l’aspettativa di previsione del gettito.
Senza contare che essa finirebbe per costituire una illegittima duplicazione delle altre imposte patrimoniali già esistenti nel nostro ordinamento (sul punto sia consentito rinviare a G. Marini, Ricchezza immobiliare ed imposizione patrimoniale, in Corr. Trib., 2013, 2971 ss.; Id., Contributo allo studio dell’imposta comunale sugli immobili, Milano, 2000; E. Marello, Sui limiti costituzionali dell’imposizione patrimoniale, in Girispr. It., I, 1997, 467 ss.).
Né tanto meno appare, in questa situazione, plausibile ipotizzare una forma di prestito forzoso con obbligo di restituzione da parte dello Stato (analogamente a quanto accadde in passato, con la introduzione del c.d. “Contributo straordinario per l’Europa”).
Sarebbe, certamente, una soluzione meno traumatica rispetto alle precedenti, ma alle criticità ed alle difficoltà sopra evidenziate, si aggiungerebbero quelle legate alla necessità da parte dell’Amministrazione finanziaria di individuare, prima, e garantire, poi, con circospezione e affidabilità, i tempi e le modalità del rimborso.
4. Appare allora più ragionevole ipotizzare la previsione di aliquote differenziate per settori produttivi e per tipologie di soggetti passivi, con, ad esempio, un incremento di aliquote per quelle (per la verità poche) filiere che non solo hanno continuato a produrre, ma hanno probabilmente incrementato i ricavi (si pensi, ad esempio, ai grandi distributori alimentari o ai fornitori di materiale igienizzante; sul punto cfr. cfr. E. Della Valle, Alcune coordinate dell’emergenza nell’ordinamento tributario, cit.).
La previsione di aliquote differenziate, quando sorretta da ragionevoli motivi di politica economica, è stata riconosciuta costituzionalmente legittima (cfr. Corte Cost., sent. 11 gennaio 2005, n. 21) e dunque compatibile con i principi che sorreggono l’ordinamento tributario.
Sempre nell’ottica di una possibile e giustificata rimodulazione delle aliquote, sarebbe, di converso, allora, auspicabile, la diminuzione del prelievo quantomeno per i settori colpiti maggiormente dall’epidemia (turismo in primis).
In questa situazione di emergenza, la politica fiscale non può naturalmente prescindere dall’adozione di misure tributarie agevolative e di sostegno.
Oltre alle misure già adottate dal Governo, potrebbero valutarsi altre soluzioni, che qui sinteticamente si espongono.
Una proposta che riguarderebbe, in generale, tutti i contribuenti, potrebbe essere quella di ridurre, se non addirittura eliminare il versamento in acconto.
Ciò al fine di evitare che i contribuenti si privino, inopinatamente, della liquidità a disposizione.
Occorrerebbe, quanto meno, prevedere la possibilità di versare gli acconti delle imposte con il metodo previsionale senza effetti sanzionatori, anche nel caso in cui la previsione si riveli poi errata.
Si potrebbero poi incentivare i pagamenti rateali, consentendo al contribuente di rateizzare il debito da versare in autoliquidazione, oltre quelli che sono i limiti attualmente previsti dalla normativa in vigore (sul punto, v. A. Carinci, Rivedere la rateazione per superare la crisi, in Il Fisco, 2020).
Altra idea potrebbe essere quella di ridurre l’Ires per le aziende che in passato hanno delocalizzato e che ora decidono di riportare in Italia la produzione.
Si potrebbe, poi, introdurre l’istituto del riporto all’indietro delle perdite, il cosiddetto “carry back”, così da rendere possibile la compensazione dell’utile 2019 con le perdite 2020.
Si tratterebbe cioè di estendere la possibilità del riporto della perdita non solo per i redditi futuri, come avviene nella vigente disciplina, ma anche (e soprattutto, visto il prevedibile calo di fatturato per le imprese nel 2020 rispetto al 2019) per i redditi passati (anche sulla base dell’esperienza di altri ordinamenti, come Francia, Germania, Olanda e Gran Bretagna).
Sarebbe anche opportuno rivedere la disciplina sulla deducibilità degli interessi passivi dal reddito d’impresa in correlazione alle misure di sostegno previste per l’ottenimento di prestiti o linee di credito da banche o altri intermediari finanziari, già adottate dal Governo.
C’è anche bisogno di una sospensione o quanto meno di un adeguamento degli ISA (Indici Sintetici di Affidabilità, che hanno sostituito gli studi di settore) alla nuova, eccezionale, situazione di crisi economica determinata dal Coronavirus, dato che i parametri attuali, calibrati su una situazione economica ormai non più esistente, risulterebbero oggi falsati.
L’applicazione degli ISA, in caso di una bassa “votazione”, determina peraltro anche effetti negativi, tra i quali il blocco dei rimborsi, con, quindi, ulteriore crisi di liquidità.
Analogamente, occorrerebbe trovare il coraggio di abolire la disciplina delle c.d. “società di comodo” e di quelle in perdita sistematica che penalizza oltre misura le imprese e che, qualora dovesse invece perdurare, finirebbe per essere anacronistica rispetto alla crisi sistemica con la quale i contribuenti dovranno necessariamente fare i conti.
Occorrerebbe quanto meno, attraverso una rivisitazione della normativa, finalizzata ad eliminare ogni dubbio interpretativo di sorta, sospenderne gli effetti almeno per i periodi d’imposta 2020 e 2021, programmando la proroga della esclusione qualora la crisi economica dovesse perdurare oltre tale biennio.
Sotto il profilo dell’imposizione locale, sarebbe auspicabile limitare la facoltà riconosciuta ai Comuni, nell’ambito della disciplina sulla nuova Imu, di aumentare, le aliquote a propria discrezione e senza valida motivazione ed ampliare, nel contempo, le ipotesi di esenzioni dal tributo per situazioni connaturate ai tempi della crisi (si pensi agli opifici, alberghi e teatri, rimasti, a fortiori, improduttivi ed inutilizzati).
Infine, in ambito processuale, si potrebbe rivedere il sistema della riscossione in pendenza di giudizio, legittimando, in via di principio, la sospensione della riscossione almeno fino alla sentenza di primo grado, secondo uno schema che possa bilanciare meglio gli interessi del fisco e quelli dei contribuenti ed impedire che questi siano costretti a privarsi di liquidità finanziarie, ancora prima della conclusione del giudizio.
4. In conclusione, il momento che sta attraversando l’Italia è un momento difficile, forse il più difficile dal dopoguerra, ma la crisi economica da pandemia - con la quale tutti saremo costretti a fare i conti - potrebbe anche essere l’occasione giusta per rivedere il sistema fiscale e perseguire soluzioni che, prima della crisi, sembravano in realtà non accessibili ed impraticabili.