argomento: Attuazione del tributo - Giurisprudenza
L’ordinanza rimette di nuovo alla Corte costituzionale il problema della legittimità delle presunzioni alla base delle indagini bancarie. La Commissione ravvisa una disparità di trattamento tra imprese e professionisti e lamenta l’effettiva possibilità di giustificare le somme contestate dall’Agenzia delle Entrate.
» visualizza: il documento ()PAROLE CHIAVE: indagini finanziarie - imprese - liberi professionisti - costi
di Federico Rasi
La questione origina dall’impugnazione innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Arezzo di un avviso di accertamento con cui l’Agenzia delle Entrate, dopo essersi avvalsa dei poteri di cui all’art. 32, D.P.R. n. 600 del 1973, rilevava la presenza di versamenti e prelevamenti non giustificati sui conti correnti riconducibili al medesimo contribuente. A tale pretesa, il contribuente opponeva il fatto che non si fosse tenuto conto, se non in parte, delle giustificazioni offerte e, con riferimento ai movimenti rimasti privi di giustificazione, chiedeva al giudice di valutarne il significato in merito ai tempi, all’ammontare e al contesto complessivo, in particolare evidenziando come egli avesse «diritto a vivere e sostenere anche spese personali».
Con la prima sentenza, la Corte costituzionale si era espressa sul problema se fosse ragionevole porre a carico della ricostruzione del reddito di un contribuente i prelevamenti al pari dei versamenti, rappresentando i primi un’entrata e i secondi un’uscita. La loro equiparazione poteva comportare l’eguale trattamento di situazioni diseguali, perché in tal modo si sarebbe finito con il sottoporre a tassazione un reddito inesistente (quello corrispondente ai prelevamenti), in contrasto col principio di capacità contributiva. Per la sentenza n. 225 del 2005 tale questione era infondata, «non essendo manifestamente arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati dai conti correnti bancari effettuati da un imprenditore siano stati destinati all’esercizio dell’attività d’impresa e siano, quindi, in definitiva, detratti i relativi costi, considerati in termini di reddito imponibile». Con la successiva sentenza n. 228 del 2014, invece, la Consulta ha ritenuto infondata la già menzionata equiparazione limitatamente ai compensi dei professionisti, ai quali la disciplina era stata estesa in forza della L. n. 311 del 2004 (art. 1, comma 402, lettera a). Ora la Corte, rimeditando la sua posizione, osserva che la presunzione secondo cui «in assenza di giustificazione deve ritenersi che la somma prelevata sia stata utilizzata per l’acquisizione, non contabilizzata o non fatturata, di fattori produttivi e che tali fattori abbiano prodotto beni o servizi venduti a loro volta senza essere contabilizzati o fatturati» è ragionevole per l’imprenditore, ma non per il lavoratore autonomo. Ritenere che costi in nero possano essere alla base di compensi libero-professionali in nero è giudicata una considerazione non coerente con l’ordinario andamento di una simile attività che si caratterizza per la preminenza dell’apporto del lavoro proprio e per la marginalità dell’apparato organizzativo.
Riprendendo il punto, la Commissione di Arezzo sottolinea come il campo di applicazione di tale decisione sia particolarmente limitato, essendo la Corte, all’epoca, vincolata ai ristretti termini in cui l’ordinanza di rimessione aveva delimitato la questione. La Consulta, in quell’occasione, poteva solo esaminare l’estensione ai lavoratori autonomi del regime di accertamento previsto per le imprese, ma non poteva estendere a queste ultime la declaratoria di incostituzionalità. La Commissione ritiene, invece, debba essere fatto, in quanto, come per gli imprenditori individuali ammessi alla contabilità semplificata, «si può ritenere marginale l’apparato organizzativo, e per i quali sussiste quella medesima «fisiologica promiscuità delle entrate e delle spese professionali e personali»; cosicché risulterebbe incostituzionale, per irragionevolezza della presunzione, applicare alla fattispecie la disciplina normativa de qua, una volta ammessane in ipotesi la legittimità costituzionale in via generale».
Nel caso in cui al contribuente siano contestati tanto versamenti, quanto prelevamenti, «si potrebbe inferire che il contribuente abbia coi primi acquisito ricavi, e coi secondi sostenuto o costi aziendali, ma in modo contabilmente irregolare, oppure spese personali; onde il reddito da sottoporre a tassazione, nella prima ipotesi, dovrebbe essere pari alla differenza tra i due importi … e nella seconda ai soli versamenti». Ciò impedisce di fatto di poter tassare un reddito netto, sicché i ricavi accertati sono interamente equiparati a reddito e assoggettati a tassazione. Non solo i prelevamenti (ovverosia i possibili pagamenti in nero) non possono essere dedotti dai ricavi, ma essi addirittura, verrebbero sommati «(non algebricamente, ossia una posta con segno «più», e una con segno «meno», ma entrambe con lo stesso segno «più»)» alle entrate (in nero e non), facendole aumentare oltre ogni ragionevole aderenza alla realtà.
Viene, dunque, paventato un nuovo contrasto dell’art. 32, D.P.R. n. 600 del 1973 con gli artt. 23 e 53 Cost. in quanto «a) in assenza di giustificazione, l’uscita dal conto (ossia il prelevamento) può astrattamente attribuirsi altrettanto ragionevolmente a costi d’impresa quanto a spese personali, specie di fronte a piccoli imprenditori individuali, ….; b) l’acquisizione di fattori produttivi, in ogni caso, avrà in ipotesi prodotto entrate che o sono state contabilizzate, e quindi dichiarate, oppure, in caso contrario, sono già state considerate nell’accertamento in forza dei versamenti ingiustificati: sommarvi i prelevamenti significa duplicare la posta».
Non era questo l’assetto delineato dalla Consulta. Questa, sin dalla sentenza del 2005, aveva sì ritenuto legittima la ricostruzione del reddito a partire dai prelevamenti, ma aveva altresì precisato che tale reddito dovesse essere determinato «detratti i relativi costi». Per la Consulta la presunzione era, dunque, legittima solo nella misura in cui consentiva di ricostruire un reddito netto; invece, nella giurisprudenza della Cassazione, che pure conferma la necessità di considerare il reddito presunto a partire dai prelevamenti nella sua dimensione netta, manca una chiara indicazione di come si determini tale reddito netto. Anzi, più chiaramente, manca il riconoscimento dell’equazione per cui la prova dei prelevamenti ingiustificati è essa stessa la prova del sostenimento di costi in nero (i prelevamenti sono i costi deducibili), sicché oggetto della ricostruzione deve essere solo il profitto dell’imprenditore dato dal margine dallo stesso ordinariamente applicato. Su tale punto non si registra ancora chiarezza. È questo l’aspetto che la Consulta potrebbe chiarire in modo definitivo nella presente occasione.
Più problematica è l’ulteriore richiesta della Commissione rimettente: quella di stemperare il rigore probatorio richiesto dalla Cassazione, laddove il contribuente intenda giustificarsi sulla base del sostenimento di spese personali. La novella normativa prevista dal D.L. n. 193 del 2016, per cui si può tenere conto solo dei prelevamenti «per importi superiori a euro 1.000 giornalieri e, comunque, a euro 5.000 mensili» ha in gran parte risolto la questione. Già, in questo modo, si tiene implicitamente in considerazione l’esistenza di spese non documentabili. La Commissione rimettente non fornisce alcuna indicazione per superare l’operatività di tale norma.
Essa pare fondata poiché effettivamente la sentenza del 2005 evidenzia l’inammissibilità della presunzione di cui all’art. 32, D.P.R. n. 600 del 1973 nei casi di attività lavorative caratterizzate dalla prevalenza del lavoro rispetto agli altri fattori della produzione. L’assunto della Corte costituzionale è quello per cui in simili attività non vi possono essere costi in nero immediatamente capaci di generare ricavi (altrettanto) in nero.
La prevalenza dell’elemento lavoro è di certo evidente nelle attività di lavoro autonomo, ma non solo: vi sono anche attività organizzate in forma di impresa che si risolvono nella prestazione di servizi in cui il fattore lavoro è prevalente sul fattore capitale. Simili attività si trovano effettivamente in una situazione analoga a quella dei professionisti e meriterebbero la stessa soluzione. Esistono, ad esempio, attività di consulenza che possono essere svolte in egual modo tanto in forma di lavoro autonomo, quanto in forma di impresa. Trattandosi di attività del tutto identiche, limitare la non applicabilità della presunzione ai soli fini della ricostruzione dei compensi dell’attività di lavoro autonomo e non estenderla anche ai ricavi di simili attività di impresa appare una violazione del principio di uguaglianza.
La presunzione per cui i prelevamenti possono essere messi alla base della costruzione di ricavi dovrebbe poter funzionare solo a condizione che l’Agenzia delle entrate dimostri un uso plausibile di tali somme nel processo produttivo del soggetto verificato.
In conclusione, la Commissione aretina ben ha fatto a promuovere una nuova questione di legittimità costituzionale della previsione di cui all’art. 32 D.P.R. n 600 del 1973, purtroppo, forse, non nelle forme più corrette.