argomento: Principi generali e fonti - Legislazione e prassi
PAROLE CHIAVE: BEPS - ocse - - harmful tax competition
di Antonio Viotto
Il nuovo volume “Overview del progetto OCSE in materia di Base Erosion and Profit Shifting (BEPS)” (Ed. Pacini, 2019)contiene un lavoro di elaborazione e di analisi delle 15 Actions di cui si compone il Piano di azione predisposto dall’OCSE per il contrasto dei fenomeni di base erosion and profit shifting (BEPS).
L’opera intende fornire un quadro d’insieme dell’intervento dell’OCSE, per offrire al lettore una base informativa utile per svolgere eventuali approfondimenti e per comprendere più a fondo la ratio e la portata delle modifiche normative che – a livello convenzionale, comunitario e interno – proprio nel piano di azione dell’OCSE trovano la loro origine e la loro matrice.
L’Action Plan BEPS costituisce l’esito dello studio realizzato dall’OCSE, condotto con l’obiettivo, da un lato, di mappare i comportamenti più pericolosi dal punto di vista fiscale che comportano elusione o erosione delle basi imponibili e, dall’altro, di individuare soluzioni di contrasto di tali comportamenti per gli Stati, col fine di scongiurare politiche di harmful tax competition.
L’esigenza di un tale intervento nasce, primariamente, dall’ormai ampia, e non più tollerabile, diffusione delle pratiche di pianificazione fiscale aggressiva poste in essere a livello internazionale dalle imprese ed inoltre, a causa della sofferenza, a seguito della crisi economica verificatasi verso la fine della prima decade degli anni 2000, patita principalmente dai Paesi sviluppati, tradizionalmente caratterizzati da livelli di tassazione più alti e, quindi, maggiormente esposti a fenomeni di erosione degli imponibili.
E’ verosimile (oltre che auspicabile) che, accanto alle esigenze finanziarie, l’intervento OCSE sia stato ispirato anche da obiettivi di maggiore giustizia ed equità diretti a ricondurre la tassazione dei grandi gruppi multinazionali a livelli adeguati, in linea con quelli sopportati dagli altri contribuenti che pure operano negli stessi mercati.
Il piano, così come concepito dall’OCSE, si regge su tre pilastri (pillars), i quali contengono quindici Azioni che mirano al contrasto di diverse pratiche attraverso le quali spesso si realizzano fenomeni di erosione delle basi imponibili e di spostamento dei profitti verso giurisdizioni fiscali più favorevoli.
Il primo pilastro contiene le Azioni che mirano a realizzare la coerenza dei regimi fiscali, attraverso l’eliminazione delle asimmetrie, nella qualificazione e nel trattamento di taluni componenti reddituali, che consentono l’ottenimento di salti d’imposta (Actions 2 e 4), ovvero attraverso l’applicazione del c.d. economic nexus approach, nel momento del riconoscimento di agevolazioni e incentivi fiscali, e lo scambio di informazioni sui ruling transfrontalieri (Action 5), o ancora attraverso il contrasto all’utilizzo delle c.d. Controlled Foreign Companies (Action 3).
All’interno del secondo pilastro, le Azioni 6, 7, 8, 9 e 10 sono dirette a riallineare la tassazione alla realtà economica, secondo il criterio della prevalenza della sostanza sulla forma, al fine di ricondurre la tassazione nel Paese di produzione della ricchezza, con riferimento all’area dei c.d. ibridi (Action 6), al concetto di stabile organizzazione (Action 7) e alla tematica del transfer pricing (Actions 8, 9 e 10).
Il terzo pilastro riguarda, infine, le Azioni tese a garantire maggiore trasparenza e certezza del diritto. Esso contiene le regole di disclosure sugli schemi di pianificazione fiscale aggressivi (Action 12), le misure quali il Country by Country Report (di cui si occupa l’Action 13) e le regole in tema di risoluzione delle controversie (Action 14).
Ebbene, il successo di tale importante lavoro di studio e di elaborazione effettuato dall’OCSE è strettamente correlato alla volontà dei singoli Paesi di recepire tali modelli di norme, implementando nei rispettivi ordinamenti giuridici quanto elaborato nelle singole Actions.
A livello internazionale, si è catalizzato un forte e generalizzato consenso intorno al Progetto BEPS, sia pure con qualche reticenza, anche di Stati importanti, su alcune misure.
Fra gli interventi significativi vi è sicuramente quello dell’Italia, che si è attivata per adeguare la normativa interna ad alcuni degli standard previsti dal piano, e quello dell’Unione Europea, che ha deciso di intervenire con due Direttive (le c.d. ATAD 1 e 2) attraverso le quali ha recepito – e, conseguentemente, ha imposto agli Stati membri di recepire – alcune raccomandazioni contenute nelle Actions 2, 3, 4 e 6, in tema di disallineamento da ibridi, di strumenti finanziari ibridi, di CFC e di deduzione degli interessi.
Inoltre, nel novembre del 2016 è stata approvata da oltre cento giurisdizioni la Multilateral Convention to Implement Tax Treaty Related Measures to Prevent BEPS (MLI), strumento concepito per giungere in tempi celeri all’adeguamento di tutti i trattati in essere tra i Paesi firmatari, evitando la rinegoziazione bilaterale di ogni accordo in vigore.
Attraverso la convenzione multilaterale, infatti, i Paesi firmatari si vincolano a rispettare, e ad introdurre nelle proprie convenzioni, un certo standard minimo, pur mantenendo la possibilità di operare delle riserve su talune clausole ovvero di esercitare delle opzioni tra le diverse soluzioni prospettate dalla MLI.
Ciò comporterà indubbiamente un aumento del livello di complessità del sistema normativo, atteso che le singole convenzioni si considereranno modificate solo qualora vi sia una convergenza tra le volontà manifestate da entrambi gli Stati contraenti in sede di sottoscrizione e di ratifica della MLI, sicchè, per individuare la clausola applicabile nei rapporti bilaterali tra gli Stati, sarà necessario effettuare un incrocio tra le riserve e le opzioni esercitate da ciascuno.
Un ulteriore aspetto particolarmente delicato, analizzato nel volume qui presentato, è quello che attiene alla tassazione della c.d. digital economy, rispetto al quale la Action 1, che si occupa del tema, sembra piuttosto timida nell’individuare e nel sollecitare agli Stati l’adozione di specifiche misure di contrasto, Ciò sia per ragioni di carattere tecnico-giuridico,connesse alla difficoltà di applicare i tradizionali criteri d’imposizione (worldwide e source principle), che presuppongono la presenza fisica di un soggetto nel territorio di uno Stato, sia per ragioni di carattere più squisitamente politico, legate al timore di certi Stati di dover rinunciare a parte della propria sovranità fiscale o di veder penalizzate le società aventi sede nei loro territori.
Dal punto di vista giuridico, il tentativo di ricondurre a tassazione i profitti generati dalle imprese del settore ha portato ad enucleare un concetto di “significativa presenza economica” e ad elaborare particolari tipologie di imposte (la c.d. equalization levy parametrata alla quantità di ricavi generati in un determinato territorio o alla quantità di dati raccolti in un determinato territorio).
Tuttavia, si tratta di soluzioni che espongono al rischio che si verifichino disparità di trattamento tra le imprese, difficilmente giustificabili in quanto basate sulle modalità di conduzione del business o sulle stesse caratteristiche del business, le quali non dovrebbero essere elementi tali da consentire l’introduzione di tributi diversi o di aliquote maggiori, rispetto a quelli che ordinariamente colpiscono le attività economiche poste in essere in modo “tradizionale”.
Peraltro, non si può negare che le stesse particolari modalità operative delle imprese della c.d. digital economy – basate sulla dematerializzazione delle attività e sullo svolgimento delle stesse da remoto, sul contributo apportato dagli utenti online nei processi di creazione di valore e sull’importanza assunta dagli intangible assets nel capitale aziendale – creino le condizioni per attuare massicce politiche di erosione delle basi imponibili e di spostamento dei profitti in Paesi a fiscalità privilegiata.
Ecco che, allora, può essere utile chiedersi se una misura per contrastare certi fenomeni non possa essere ravvisata nella strumentazione antierosione imperniata sull’inversione dell’onere della prova, prevedendo meccanismi di ritenuta alla fonte sulle transazioni on line (ammesso che, dal punto di vista tecnico, si possano isolare dalle altre operazioni commerciali), con il coinvolgimento degli intermediari finanziari attraverso i quali passano i flussi dei pagamenti, da applicarsi in tutti i casi in cui gli operatori non si identifichino presso le amministrazioni fiscali dei Paesi da cui provengono i pagamenti e non dimostrino di essere ivi residenti o ivi localizzati con una stabile organizzazione ovvero non dimostrino di essere assoggettati ad imposizione in un Paese a fiscalità non privilegiata.
Vero è che un simile intervento potrebbe determinare un’alterazione delle regole e dei principi internazionali che governano la tassazione, nella misura in cui certi soggetti potrebbero finire per essere tassati in un Paese diverso da quello in cui risiedono fiscalmente o da quello in cui hanno localizzato un insediamento stabile; ma vero è, altresì, che siffatta alterazione sarebbe, da un lato, giustificabile alla luce della gravità di certi fenomeni di erosione, e, dall’altro lato, superabile attraverso l’assolvimento di un onere dimostrativo che appare non sproporzionato rispetto agli obiettivi e alle oggettive difficoltà in cui si trovano gli Stati nel contrastare detti comportamenti. Si rammenti, inoltre, che tale onere ricalca uno schema logico già sperimentato con riferimento alle Controlled Foreign Companies, nelle quali, come noto, l’attrazione del reddito all’imposizione nel Paese del/della controllante può essere evitata fornendo la prova della c.d. substantive economic activity.
È evidente, in ogni caso, che qualsiasi misura gli Stati intendano adottare richiederà necessariamente la formazione di un più diffuso consenso a livello internazionale nel tentativo di trovare un bilanciamento tra l’esigenza di ricondurre ad un’adeguata tassazione i profitti generati dalle imprese della c.d. digital economy e quella di evitare atteggiamenti punitivi rispetto ad imprese e modelli di business sempre più diffusi ed importanti per l’economia globale.
L’auspicio è che proprio i cambiamenti, sempre più repentini, che stanno interessando l’economia mondiale, costituiscano uno stimolo per gli Stati per trovare punti di coesione onde giungere a formulare risposte condivise ed efficaci anche sul terreno della tassazione, facendo sì che l’impulso al “multilateralismo fiscale” che ha animato il Progetto BEPS non perda la sua spinta propulsiva.
Ciò in una duplice direzione: sia nell’elaborazione di strumenti contingenti di contrasto e di repressione di fenomeni evasivi e abusivi, sia nell’individuazione di soluzioni normative strutturali, che coinvolgano i principi cardine della tassazione internazionale e che consentano di adeguare i meccanismi dell’imposizione ai mutamenti tecnologici, imprenditoriali ed economici, verso soluzioni più equilibrate, ispirate a principi di giustizia, solidarietà ed equità fiscale.