Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

28/04/2020 - Le novità della normativa CFC italiana dopo il recepimento della direttiva ATAD: inquadramento delle finalità

argomento: Profili europei e Internazionali - Legislazione e prassi

In seguito al recepimento della direttiva ATAD la disciplina CFC italiana ha subito un profondo rinnovamento. Cercando di analizzare le novità si intende dare spazio alle questioni di maggior rilievo e inquadrare le finalità che la norma, alla luce del nuovo modello, si prefigge.

PAROLE CHIAVE: CFC - ATAD - passive income - tassazione effettiva


di Francesco Chiapponi

  1. Le prescrizioni contenute nella direttiva europea antielusione - meglio nota come direttiva ATAD - sono state recepite nel nostro ordinamento con il D.lgs. 142/2018 che, a partire dal periodo di imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2018 (per i soggetti aventi esercizio coincidente con anno solare si applica già da gennaio 2019), ha dato vita al nuovo articolo 167 del Tuir.

Alla luce delle recenti modifiche che hanno riconfigurato, ancora una volta, la nostra disciplina CFC, è utile iniziare a ripercorrerne gli aspetti più rilevanti e le questioni più problematiche, cercando di inquadrare le finalità che la caratterizzano.  

 

  1. La prima modifica che salta agli occhi leggendo il nuovo disposto normativo riguarda l’ambito soggettivo. Se prima il raggio di applicazione si limitava a circoscrivere come soggetti controllanti tassabili per trasparenza, in virtù del regime CFC, esclusivamente persone fisiche, società di persone e società di capitali, adesso rientrano nel novero anche le stabili organizzazioni di soggetti non residenti, localizzate in Italia, che controllano a loro volta soggetti non residenti (cfr. 1° comma art. 167 Tuir).

Ciò non crea di certo alcun problema, anzi, è da sottolineare, in vista dell’importanza che riveste oggi la figura della stabile organizzazione nelle strutture societarie, quanto questo ampliamento fosse indispensabile.

Sempre in riferimento all’ambito soggettivo, ma spostando lo sguardo sui soggetti controllati, risulta un po’ più complessa la questione inerente gli OICR.  Mentre, infatti, sembra plausibile escludere dalla categoria residuale di “ente” le entità no profit, non potendo per natura distribuire utili (A. Ballancin, Il regime di imputazione del reddito delle imprese estere controllate, Milano, 2016), lascia invece qualche dubbio interpretativo il caso degli organismi di investimento collettivo del risparmio.

Le incertezze possono perlopiù dipendere da problematiche di coordinamento normativo. Nello specifico, mentre la bozza del D.lgs. 142/2018 avrebbe applicato il regime CFC agli OICR esteri che sarebbero stati assoggettati a tassazione se fiscalmente residenti in Italia, la versione definitiva della norma ha invece eliminato tale disposizione. Ciononostante, la relazione illustrativa al decreto ha ribadito l’inclusione di tali organismi; probabilmente anche per timore del legislatore di escludere con un riferimento troppo preciso tipologie analoghe. Inoltre, a confermare l’inclusione è la disposizione di cui al 10° comma dell’articolo 167 del Tuir che, menzionando esplicitamente gli OICR, sembrerebbe essere rimasta deficitaria della previsione principale espunta dal comma 8° (F. Brunelli, “Sugli OICR non residenti tassazione per trasparenza”, in Il Sole 24 Ore, 2019 e D. Avolio, P. Ruggiero, “Il recepimento della Direttiva ATAD e le nuove disposizioni in materia di CFC”, in Il Fisco, 2019, n.3, pp. 1-253).

Pertanto, l’interpretazione più condivisibile rimane quella fornita in passato dall’Agenzia delle Entrate nella Circolare 23/E del 2011, secondo la quale si considerano direttamente esclusi dal regime CFC gli organismi che, opportunamente vigilati, rispondono ai requisiti di genuinità e non abusività; al contrario, qualora non disponessero di tali requisiti sarebbero da trattare come generici enti a cui applicare il regime CFC. 

 

  1. Sul versante dei requisiti subisce una modifica piuttosto significativa il rapporto di controllo: oltre alle condizioni “legali” di cui al 2359 del Codice civile, esso può sussistere anche in presenza di presupposti “economici”. Nella fattispecie, ai sensi del 2° comma dell’articolo 167 del Tuir, il controllo economico si realizza attraverso la detenzione, diretta o indiretta, di una quota di partecipazione agli utili maggiore del 50%. In dettaglio, una fattispecie di controllo indiretto si riscontra ad esempio nel caso in cui una società controlla al 51% altre tre società che a loro volta possiedono ciascuna una partecipazione del 20% in una quinta società: quest’ultima si considera indirettamente controllata dalla prima (Tosi L., Lineamenti di diritto tributario internazionale, in Tosi L., Baggio R., Milano, 2018).

Valorizzando il profilo della partecipazione agli utili, il legislatore, adeguandosi al contenuto proposto dalla direttiva ATAD, presuppone di fatto l’applicabilità della disciplina CFC anche qualora non sussista effettivamente il controllo di diritto.

Si rammenta che in passato, per questioni legate alle soglie di controllo, erano sorti dubbi di legittimità costituzionale, in considerazione del fatto che in un primo momento non era richiesto il requisito di controllo (D. Stevanato, “Controlled Foreign Companies: concetto di controllo e imputazione del reddito”, in Rivista di diritto tributario, 2000, fas. 7-8, pp. 777-802). Infatti, si riteneva che, se è vero che la disciplina CFC intende ostacolare le pratiche di tax deferral, realizzate dal socio in grado di incidere sulle delibere assembleari, sarebbe stato di dubbia coerenza che la norma originaria (ex art. 127-bis) potesse accontentarsi di una partecipazione al capitale o ai diritti di voto maggiore del 25%, non essendo in tal modo assicurata un’influenza dominante da parte del socio sulla partecipata e una prevalenza nell’assunzione delle decisioni assembleari.

Nel nostro caso, il problema potrebbe essere legato al fatto che una mera partecipazione agli utili non implichi necessariamente un’influenza significativa sulla presunta CFC e, dunque, una capacità di influenzarne le decisioni e di strumentalizzare l’entità estera per perseguire vantaggi fiscali. Tuttavia, si potrebbe obiettare che sembra alquanto improbabile che una partecipazione agli utili di oltre il 50% possa scindersi dalla detenzione di un pacchetto azionario tale da consentire perlomeno un’influenza significativa in assemblea e, di conseguenza, un controllo di fatto o, quanto meno, un controllo indiretto per il tramite di soggetti compiacenti (A. Ballancin, Il regime di imputazione del reddito delle imprese estere controllate, Milano 2016).

Pertanto, tenuto conto delle primarie finalità antielusive che la nuova disciplina si prefigge, oltre che del principio costituzionale di ragionevolezza (art. 3 Costituzione), il nuovo requisito può dirsi coerente e ragionevole. Invero, in linea con il suddetto principio sancito dalla Costituzione, la disposizione si presta a essere adeguata e congruente rispetto al fine antiabusivo che il legislatore si propone e non in contrasto con l’interesse pubblico perseguito.

 

  1. Con ogni evidenza, il punto che segna maggiormente la discontinuità rispetto alla norma previgente è l’abbandono del doppio regime. Si passa infatti a un unico modello valido per tutti gli insediamenti in Europa e nel resto del mondo, che si applica al verificarsi congiunto di due particolari condizioni.

Più specificamente, una società controllata estera è considerata una CFC se: a) è localizzata in uno Stato con tassazione effettiva inferiore alla metà di quella che sconterebbe qualora residente nel nostro ordinamento; b) realizza per oltre un terzo proventi derivanti da passive income.

Accertata la compresenza di tali condizioni, il reddito della CFC è interamente assoggettato a tassazione in Italia. Riservandomi di affrontare la questione in un prossimo intervento, mi limito a segnalare come il legislatore abbia preferito non discostarsi dall’approccio che da sempre caratterizza la nostra disciplina CFC, vale a dire quello entity o jurisdictional.

Ora, il nuovo modello ricalca in pieno l’impostazione del regime precedentemente in vigore per le CFC “white”. Viene infatti accantonato definitivamente il riferimento al livello di tassazione nominale, proprio del regime CFC “black”, per lasciare spazio all’effective tax rate. A tal proposito, le linee guida più tecniche per determinare il livello di tassazione effettiva sono fornite in buona parte dal provvedimento dell’Agenzia delle Entrate del 16 settembre 2016 e da altre precedenti circolari.

Posto che - come espresso dall’Agenzia delle Entrate e condiviso dalla dottrina - i valori da confrontare ai fini del tax rate test debbano essere “omogenei”, è necessario determinare sia il tasso effettivo estero che quello domestico esclusivamente sulla base delle imposte correnti, ed è dunque necessario neutralizzare tutte le variazioni positive e negative derivanti da differenze temporanee pregresse (G. Carucci, S. Marchese, “L’estensione della disciplina CFC ai Paesi “white list””, in Bollettino tributario d’informazioni, 2011 fasc. 4, p.263 e M. Piazza, V. Maiese, “L’Agenzia delle Entrate spiega come verificare il “tax rate test” per le “cfc non black list”, in Corriere Tributario, 2011, n. 26, p. 2106 ss.).

Per ciò che concerne il tax rate domestico è stato di recente confermato dall’Agenzia delle Entrate, nel corso di Telefisco 2019, quanto già si riteneva auspicabile, ovvero che si dovrebbe tenere in considerazione solo l’IRES con le sue addizionali. Se da una parte è logico escludere dal calcolo l’IRAP, rimangono invece perplessità in merito alla scelta di includere anche le eventuali addizionali IRES.   Il fatto di considerare le aliquote addizionali, la cui peculiarità è proprio quella di essere settoriali, vorrebbe dire ricomprendere nell’applicazione di un regime gravoso solo quelle imprese che, a parità di altre condizioni, operano in un determinato settore (R. Rizzardi, “La disciplina CFC: un unto fermo dopo la direttiva ATAD?”, in Corriere Tributario, 2019, n. 3, pp. 283 ss.). Da un punto di vista giuridico questo potrebbe risultare discriminatorio in quanto si tratterebbero in modo differente due situazioni tutto sommato uguali. Di per sé, il fatto di operare in un settore piuttosto che in un altro non dovrebbe costituire una giustificazione valida per creare una simile disparità di trattamento.

Passando alla determinazione della tassazione effettiva estera, si ritiene siano da considerare soltanto le imposte effettivamente dovute nello Stato di insediamento - al lordo di eventuali crediti di imposta maturati in altri Stati - che trovino un concreto riscontro nella documentazione contabile e fiscale della presunta CFC.

La seconda condizione di ingresso al regime CFC si sostanzia nel cosiddetto passive income test. Provando a confrontare l’elenco del vecchio regime “white” con quello fornito dall’attuale disposto normativo, si riscontrano alcune novità.

In particolare, le prime perplessità emergono nel caso dei proventi lordi derivanti da valutazione. Resta da capire se il termine “realizzati” (4° comma dell’art. 167 Tuir), che di fatto sembrerebbe escluderli dal novero, sia da intendersi come il superamento della precedente interpretazione dell’Agenzia delle Entrate favorevole invece alla loro inclusione (M. THIONE, M. BARGAGLI, “Normativa CFC: dall’attuale “concetto” di passive income ai possibili sviluppi de lege ferenda”, in Il Fisco, 2015, n. 18, pp. 1-1767, C. Silvani, “Per le controllate estere passive income test da definire”, in Il Sole 24 Ore, 2019).

Proseguendo, il riferimento che viene fatto alle operazioni infragruppo di compravendita di beni non sembra così lineare. Per quanto nella prassi dell’Agenzia delle Entrate non sia una novità il richiamo ad attività di compravendita, sembrerebbe condivisibile l’interpretazione secondo cui sono da escludere dal novero le operazioni di approvvigionamento sul mercato esterno con successiva rivendita a società del medesimo gruppo; chiaro è infatti che l’intento dovrebbe essere quello di intercettare esclusivamente le attività di mera intermediazione fra parti correlate senza alcun valore aggiunto, non a prescindere tutte le operazioni che hanno come controparte una società del gruppo (G. Rolle, “Adattamento alla disciplina ATAD delle norme interne su CFC, dividendi esteri e plusvalenze su partecipazioni”, in Il Fisco, 2018, n. 38, pp. 1-3637).

Un’altra novità nell’elenco dei redditi intangibili che merita di essere menzionata, riguarda i servizi tra parti correlate con valore economico aggiunto scarso o nullo. Per valorizzare servizi di questo genere tocca rifarsi alle indicazioni in materia di transfer pricing che prevedono un mix di requisiti di natura quantitativa e qualitativa; in buona sostanza l’obiettivo è quello di inquadrare tra i redditi “pericolosi” quei servizi meramente ausiliari che non implicano l’assunzione di rischi significativi (cfr. 1°,2°e 3° comma dell’art. 7 decreto MEF 14 maggio 2018).

 

  1. Per completare i punti che hanno trasformato la disciplina CFC è doveroso soffermarsi sul tema delle circostanze esimenti. Anche in questo caso, l’impostazione segue le orme del previgente modello “white” e mette a disposizione del contribuente una sola causa di esclusione dal regime di tassazione per trasparenza.

Viene, anzitutto, rimossa la condizione b) del modello “black”, in nome della quale era possibile dimostrare che dalle partecipazioni non conseguiva l’effetto di localizzare i redditi in Stati o territori a regime fiscale privilegiato individuati ai sensi del precedente comma 4.

Più specificamente, per ottenere la disapplicazione della norma in virtù della condizione di cui sopra, i redditi realizzati dalla controllata estera dovevano essere prodotti in misura non inferiore al 75% in altri Stati o territori diversi da quelli a fiscalità preferenziale e ivi sottoposti integralmente a tassazione ordinaria (vedi D.M. n. 429 del 2001). Ad esempio, ciò si sarebbe potuto verificare nel caso in cui i redditi della CFC fossero derivati da una partecipazione in Germania e fossero pertanto stati tassati in base all’ordinario regime fiscale tedesco (Tosi L., Lineamenti di diritto tributario internazionale, in Tosi L., Baggio R., Milano, 2018).

Benché il rimando al 4° comma del previgente articolo 167 del Tuir portasse a considerare il tax rate nominale, si ritiene che per rendere l’esimente in questione coerente con la nuova formulazione normativa sarebbe semplicemente bastato fare riferimento al livello di tassazione effettiva.

In un certo senso, pare che la causa di esclusione attualmente esperibile voglia mutuare il concetto di costruzione puramente artificiosa - coniato dalla giurisprudenza comunitaria (Sent. 12 settembre 2006, causa Cadbury Schweppes, n. C-196/04) - dell’antecedente regime “white”, servendosi però di una formulazione letterale più affine alla prima condizione del regime “black”.

Il risultato che ne consegue è una maggiore flessibilità dovuta, in parte, alla sostituzione della locuzione “attività economica effettiva” in luogo di “effettiva attività industriale o commerciale”.

Si segnala infatti che tra le attività economiche non classificabili come industriali o commerciali rientrano sia le attività finanziarie, bancarie e assicurative, che ad esempio quelle di sfruttamento di marchi e brevetti.

Ma questa maggior flessibilità è soprattutto legata al venir meno del presupposto di “radicamento nel mercato dello Stato o territorio di insediamento”, che per certi versi poteva configurarsi come una “probatio diabolica” (G. Marino, “La nozione del mercato nella disciplina Cfc: verso una probatio diabolica?”, in Rivista di diritto tributario, 2011, fasc. 12, p. 1113-1125). Difatti, pretendere che l’esercizio di un’attività economica effettiva si sviluppi prevalentemente nel mercato di insediamento potrebbe risultare penalizzante in vista di una qualsiasi ambizione espansiva internazionale da parte dei gruppi italiani. Non solo, ricondurre il concetto di mercato locale limitatamente alla sfera del mercato di sbocco o di approvvigionamento dei beni o servizi potrebbe dirsi contrario alle attuali logiche economiche di globalizzazione. Peraltro, essendo la ratio della norma principalmente quella di contrastare le costruzioni di puro artificio volte a innescare meccanismi di stampo elusivo, ciò che realmente importa è valutare le ragioni di natura imprenditoriale e la struttura che vanno a costituire l’insediamento estero, senza limitare la visione di mercato ai confini nazionali.

Inoltre, in considerazione del nuovo disposto normativo, non è affatto banale il caso delle holding di partecipazioni.

Più di una volta, nella prassi, l’Amministrazione finanziaria si è trovata a dover valutare l’artificiosità di una holding, ma tuttora l’analisi circa la sostanza economica di una attività, per sua natura “immateriale”, risulta piuttosto controversa.

Nella fattispecie, sarebbe opportuno mantenere distinte le situazioni in cui le holding, qualificabili come “dinamiche”, esercitano un’effettiva attività economica di direzione e coordinamento nei confronti delle partecipate, e il caso in cui viceversa si identificano come “statiche” limitandosi a detenere passivamente le partecipazioni (F. Facchini, A. Porro, Considerazioni sulla residenza fiscale delle holding di partecipazioni e sull’applicazione della normativa Cfc alle controllate estere stabilite in paesi “white-list”, in A.A.V.V., Temi di fiscalità internazionale, 2014).

A tal riguardo, è utile richiamare la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea secondo la quale la mera partecipazione finanziaria di una società capogruppo presso altre imprese, senza un intervento diretto o indiretto nella gestione delle stesse, non costituirebbe una attività economica. È dunque necessaria un’interferenza che potrebbe ad esempio concretizzarsi nella prestazione di servizi quali quelli amministrativi, finanziari, di contabilità, informatici e via dicendo. Non solo, affinché la concessione di prestiti alle partecipate da parte delle stesse holding possa qualificarsi come attività economica “occorre che tale attività non sia esercitata solo a titolo occasionale e che non si limiti alla gestione di un portafoglio di investimenti alla guisa di un investitore privato, ma che sia effettuata nell’ambito di un obiettivo imprenditoriale o ad un fine commerciale, contraddistinto in particolare dall’intento di garantire la redditività dei capitali investiti” (Sent. 14 novembre 2000, causa Floridienne SA, Berginvest SA, C-142/1999).

Facendo sempre riferimento alla giurisprudenza comunitaria, in un’altra sentenza la Corte si era espressa sul caso delle fondazioni bancarie (Sent. 10 gennaio 2006, causa Cassa di Risparmio di Firenze SpA, C-222/04). Anche in questa sede veniva ribadito il concetto che il semplice possesso di partecipazioni di controllo non è di per sé sufficiente a configurarsi come una attività economica. Fatta questa premessa, una fondazione bancaria è qualificabile come “impresa” e svolge un’attività economica sia in caso di intervento nella gestione di una società bancaria controllata, sia laddove la sua attività non si limiti al versamento di contributi ad enti senza scopo di lucro, ma, agendo negli ambiti di interesse pubblico e utilità sociale, esegua operazioni finanziarie, commerciali, mobiliari e immobiliari indispensabili per gli obiettivi prefissati.

In considerazione dunque delle sentenze di cui sopra, se per una holding identificabile come “dinamica” non sembrerebbe un problema dover dimostrare di svolgere un’attività economica effettiva per ottenere la disapplicazione della normativa CFC, sembrerebbe tuttavia un po’ più complesso per le holding “statiche”. A tal proposito, si ritiene condivisibile l’interpretazione dell’Agenzia delle Entrate (Circolare Agenzia delle Entrate 23/E 2011) secondo cui è necessario valutare “case by case” se le funzioni svolte dalla holding, “statica” o “dinamica” che sia, in relazione ai legami economici e agli obiettivi generali della struttura di gruppo, abbiano intenti elusivi finalizzati a ottenere indebiti vantaggi fiscali tramite costruzioni di puro artificio.

Si è inoltre dell’avviso che non sia imprescindibile una presenza importante in termini di attrezzature e locali, ma che sia sufficiente che essa sia proporzionata all’attività svolta dalla holding in questione.

Mi sembra dunque che la nuova esimente possa dirsi totalmente in linea con quanto previsto dalla direttiva ATAD e consenta di considerare superati i dubbi di compatibilità con il diritto comunitario in passato sollevati dalla dottrina (E. Della Valle, “La normativa CFC è compatibile con il diritto UE e con i trattati contro le doppie imposizioni - Fiscalità internazionale - La normativa CFC al “test” della Suprema Corte”, in GT - Rivista di Giurisprudenza Tributaria, 2016, n. 4 p.297 ss.).

 

  1. Per concludere, resta da valutare se le modifiche che nel corso degli anni hanno interessato la disciplina CFC italiana abbiano mutato le finalità che il legislatore intende perseguire.

Si ritiene che le disposizioni in materia CFC siano sempre state finalizzate a contrastare il cosiddetto tax deferral; in altre parole, evitare che, tramite la detenzione di partecipazioni in Paesi a fiscalità privilegiata, i contribuenti italiani abbiano modo di rinviare, potenzialmente sine die, la tassazione sui redditi generati dalle controllate estere (Tosi L., Lineamenti di diritto tributario internazionale, in Tosi L., Baggio R., Milano, 2018).

Tuttavia, da quando la normativa è stata estesa anche ai Paesi membri dell’Unione europea considerati apparentemente a fiscalità ordinaria, all’obiettivo di contrasto al mero differimento d’imposizione  (pur sempre di natura elusiva) pare essersi affiancato l’intento di ostacolare tutti quei fenomeni di stampo elusivo mirati ad aggirare la norma per ottenere indebiti vantaggi fiscali (E.M. Bagarotto, “La disciplina in materia di controlled foreign companies alla luce delle modifiche apportate dalla legge di stabilità 2016 e nell’attesa dell’attuazione della “direttiva anti-beps”, in Diritto e Pratica Tributaria, 2017, n.3, p. 954 ss.).

A maggior ragione, il recepimento della direttiva europea antielusione, che ha portato allo smembramento della bipartizione in favore di un unico modello valido per tutti gli insediamenti esteri, sembra voglia conferire alla disciplina un inquadramento antiabusivo in senso più ampio, tra cui rientra in ogni caso anche il tax deferral.

Certo è che, per quanto sia prevalente la finalità antielusiva, si dovrà sempre tener conto anche dell’accezione antieviasiva che la disciplina possiede. Infatti essa, nell’intento di superare lo schermo rappresentato dalla personalità giuridica di una società controllata estera (P. Pistone, Diritto tributario internazionale, Torino, 2017), si ritiene sia mirata a colpire quei redditi che solo formalmente sono prodotti altrove, ma in realtà mantengono la fonte operativa nel territorio dello Stato del soggetto controllante (R. Cordeiro Guerra, “Riflessioni critiche e spunti sistematici sulla introducenda disciplina delle delle controlled foreign companies (articolo 127-bis del Tuir)”, in Rassegna Tributaria, 2000, n.5, p. 1399). In questi termini, avrebbe dunque anche la funzione di assoggettare a tassazione i redditi prodotti internamente ma apparentemente esterovestiti.