argomento: Profili europei e Internazionali -
Giurisprudenza
La Corte di Cassazione torna a pronunciarsi in materia di esterovestizione; in particolare viene esaminato il caso di una società con sede legale in Olanda la cui la sede di direzione effettiva è risultata essere in Italia, che, in ragione di ciò è stata ritenuta essere ivi fiscalmente residente sulla base della convenzione contro le doppie imposizione tra Italia ed Olanda e dell’art.73, comma 3, del TUIR.
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il documento (Corte di Cassazione, 21 giugno 2019, n. 16697)
PAROLE CHIAVE: sede legale -
sede di direzione effettiva -
esterovestizione -
residenza fiscale
di Domenico Antonio Multari
- La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, si pronuncia, per quanto qui di interesse, ancora una volta sul tema dell’esterovestizione societaria. La vicenda, secondo ciò che risulta dalla sentenza de qua, trae origine da una contestazione di omessa presentazione delle dichiarazioni a fini Irpeg, Irap ed Iva, per gli anni d’imposta 1999-2002, mossa dall’Agenzia delle Entrate a società aventi sede legale in Olanda, ma ritenute fiscalmente residenti in Italia per ivi avere la propria sede amministrativa. Sia i Giudici di primo grado che d’appello condividevano la tesi dell’Agenzia; la Suprema Corte, dichiarato estinto il giudizio con riguardo alle posizioni di alcuni ricorrenti per intervenuta definizione agevolata della vertenza con correlata rinunzia al ricorso, confermava, come illustrato nel prosieguo, la legittimità della pronuncia della CTR ritenendo correttamente applicate le norme sulla residenza delle società in relazione alla presente fattispecie che, secondo i Supremi Giudici, “va ricondotta alla cd.esterovestizione”.
- Al riguardo, la Corte ribadisce – rifacendosi a proprie precedenti pronunce [Civ.Sez.V, n.2869 del 07.02.2013 e Cass.Civ.Sez.V, n.33234 del 21.12.2018] - che per esterovestizione si intende “la fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società all’estero, in particolare in un Paese con un trattamento fiscale più vantaggioso di quello nazionale” [di recente, per una lettura ampia del concetto di costruzione artificiosa si vedano Cass.Pen.Sez.III, n.9090 del 06.03.2020 e Cass.Pen.Sez.III, n.10098 del 16.03.2020; in tale ultima pronuncia la Suprema Corte afferma che “possono rientrare nel comune fenomeno dell’esterovestizione sia forme societarie del tutto apparenti (cd. “società schermo” come tali del tutto “fittizie”) sia altre forme comunque dotate di una propria autonomia giuridica e operativa”]. Quindi, richiamando la giurisprudenza [C-196/04, C-73/06, C-419/14, C-6/16] della Corte di Giustizia dell’UE, chiarisce che la scelta di costituire una società in uno Stato Membro al fine di beneficiare di una legislazione più vantaggiosa rientra nell’ambito dell’esercizio del diritto di stabilimento, ma che, laddove tale modalità di esercizio del diritto in questione celi costruzioni di puro artificio, prive di reale sostanza economica, la cui unica finalità è quella di aggirare la normativa dello Stato Membro interessato, la normativa nazionale può prevedere disposizioni che comportino una restrizione al suo esercizio. Dopo aver brevemente delineato il perimetro del diritto di stabilimento [Specificamente in materia di residenza fiscale societaria e diritto di stabilimento si veda Dorigo, Residenza fiscale delle società e libertà di stabilimento dell’Unione Europea, CEDAM, 2012], la Corte, in un’ottica tributaria, illustra i limiti e le implicazioni di una restrizione all’esercizio di tale diritto affermando che essa deve avere lo scopo di ostacolare costruzioni puramente artificiose prive di effettività economica aventi come unico fine di “eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale”. Definito il quadro di riferimento eurounitario, i Supremi Giudici procedono ad esaminare la vicenda alla luce degli altri profili normativi ritenuti rilevanti, vale a dire l’art.87, comma 3 del TUIR (ora art. 73, comma 3) – che, come noto, per quanto qui interessa, prevede, quali criteri alternativi per l’individuazione della residenza fiscale di una società, la sede legale, la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale della stessa - e l’art.4, commi 1 e 3, della Convenzione tra Italia e Regno dei Paesi Bassi contro le doppie imposizioni [La Corte non ritiene rilevante il comma 5bis dell’art.73 del TUIR in quanto non applicabile ratione temporis]. Viene rilevato come il suddetto art.4, al comma 1, preveda che, ai fini della determinazione della residenza anche dei soggetti diversi dalle persone fisiche, si debba avere riguardo alla normativa interna ed, al comma 3, che in caso di accertata doppia residenza, una società dovrà essere considerata residente nello Stato in cui si trova la “sede della sua direzione effettiva”; in questi termini, la Corte rileva come le due discipline siano sostanzialmente equivalenti poiché le disposizioni convenzionali rinviano alla normativa domestica per poi prevedere, quale tie breaker rule [Si rammenta che dopo le modifiche adottate nel 2017, la nuova formulazione del par.3 dell’art.4 del Modello Ocse non prevede più, quale tie breaker rule, il criterio del luogo in cui si trova la sede di direzione effettiva, disponendo, invece, che i conflitti in materia di doppia residenza dovrebbero essere risolti da un accordo tra le giurisdizioni coinvolte], il criterio della sede “effettiva” della società, criterio, questo, da ritenersi - alla luce della consolidata interpretazione della dottrina e della giurisprudenza in materia - “decisivo”, anche secondo la normativa interna, in fattispecie di società con sede legale all’estero ritenute fiscalmente residenti in Italia. L’iter logico della Corte procede quindi con il chiarire cosa debba intendersi per “sede dell’amministrazione” di una società, affermando, richiamando la propria precedente giurisprudenza sul punto, che tale nozione – diversa da quella di sede legale - “deve ritenersi coincidente con quella di “sede effettiva” (di matrice civilistica) intesa come il luogo ove hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente e si convocano le assemblee, cioè il luogo deputato, o stabilmente utilizzato, per l’accentramento – nei rapporti interni e con i terzi – degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e dell’impulso dell’attività dell’ente [Al riguardo, l’Agenzia delle Entrate, più volte – espressamente con Circolare 28/E del 4.08.2006, par.8 e Nota Direzione Centrale Normativa-Agenzia delle entrate 19.03.2010, prot.n.2010/39678, pag.5, e, di fatto, con Risoluzione n.312/E del 5.11.2007 – ha mostrato di condividere un risalente indirizzo interpretativo (Corte di Cassazione n.136 del 22.01.1958) secondo il quale per sede effettiva deve intendersi “il luogo in cui la società svolge la sua prevalente attività direttiva ed amministrativa per l'esercizio dell'impresa, cioè il centro effettivo dei suoi interessi, dove la società vive ed opera, dove si trattano gli affari e dove i diversi fattori dell'impresa vengono organizzati e coordinati per l'esplicazione ed il raggiungimento dei fini sociali”; si evidenzia inoltre che nella Circolare n.1/2018 della Guardia di Finanza, volume III, parte V, pag.354, si afferma che “per individuare la sede dell’amministrazione, occorre aver riguardo al luogo da cui provengono gli impulsi volitivi dell’attività, vale a dire il luogo in cui effettivamente si organizza e si dirige la gestione sociale, ovvero quello da cui promanano le decisioni fondamentali della vita dell’ente”]”.
- A questo punto, delineati i parametri con cui valutare la legittimità della decisione d’appello, i Supremi Giudici illustrano le ragioni per cui ritengono ben motivata la sentenza della CTR. La pronuncia di merito viene ritenuta essere espressione di una corretta applicazione della normativa fiscale civilistica e pattizia nonchè dei principi eurounitari della Corte di Giustizia poiché equipara il concetto fiscale di “sede dell’amministrazione” a quello civilistico di “sede effettiva” della società che viene, nel rispetto di quanto chiarito nella giurisprudenza della Suprema Corte, ritenuta essere il luogo in cui “si svolge in concreto la direzione e la gestione dell’attività d’impresa e dal quale promanano le relative decisioni”. In particolare, bene ha operato, a dir della Corte, la CTR, nel ritenere le società olandesi in questione fiscalmente residenti in Italia per ivi essere stata riscontrata essere la loro sede di direzione effettiva, alla luce dei seguenti elementi: 1) l’assenza di prova circa il fatto che le decisioni, le deliberazioni e le direttive gestorie manageriali venissero rispettivamente prese, adottate e date in Olanda; 2) la circostanza che “gran parte della corrispondenza con l’intestazione delle società olandesi era di fatto firmata in Italia”; 3) l’aver riscontrato che “le decisioni importanti venivano prese in Italia e quindi inviate in Olanda per essere inserite a verbale alla presenza del solo amministratore olandese, per essere conservate agli atti per scopi esclusivamente fiscali” e che “dall’Italia partivano verso l’Olanda autorizzazioni di ogni genere, dalle più rilevanti in materia statutaria e contabile, alle più modeste, come l’autorizzazione a partecipare a un corso d’inglese, al pagamento di spese mediche, addirittura al pagamento di spese di cancelleria minuta”; 4) la circostanza che l’ufficio di Amsterdam “era situato in un locale di modeste dimensioni ed aveva (soltanto!) due dipendenti in realtà meri esecutori di ordini” operando quindi di fatto unicamente come “il luogo di disbrigo degli affari correnti”, non il centro di gestione manageriale delle società.
In altri termini, la Corte ritiene che i Giudici d’appello, nell’aver fatto una corretta applicazione delle rilevanti disposizioni normative pattizie e domestiche e dei principi giurisprudenziali della Corte di Giustizia dell’UE, abbiano giustamente ritenuto che la residenza fiscale di tali società non fosse in Olanda, ma in Italia.
- Con la sentenza in questione, la Corte ribadisce, come già detto, che l’esterovestizione [Sul tema di recente: Purpura, “Note in tema di esterovestizione, libertà di stabilimento e (non) abusività delle norme tributarie a margine di recente giurisprudenza di legittimità”, in Diritto e Pratica Tributaria, 1/2020, p.276; Turri, “La residenza delle società in Italia”, in Diritto e Pratica Tributaria, 2/2019, p.908; Zanotti, “La cassazione nega che nel caso ‘Dolce & Gabbana’ si configuri un’ipotesi di esterovestizione ”, in Dir. Trib., supplemento on line (26 aprile 2019); Zizzo, “Ires – Esterovestizione della società o esterovestizione del reddito?”, Rassegna Tributaria 3/2019, p.653] è “la fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società all’estero, in particolare in un Paese con un trattamento fiscale più vantaggioso di quello nazionale” e che la norma che viene in rilievo ai fini della individuazione della residenza delle società è l’art.73, comma 3, del TUIR. La sussistenza o meno di una fattispecie di esterovestizione va quindi analizzata alla luce di quanto previsto da tale disposizione. Tuttavia, come già rilevato da illustre Dottrina anche in relazione a Cass.Civ.Sez.V, n.33234 del 21.12.2018 , a ben vedere, l’art.73, comma 3, TUIR, illustra soltanto i tre diversi ed alternativi criteri – uno di carattere formale e due di carattere sostanziale - sulla base dei quali una società debba considerarsi fiscalmente residente in Italia, essendo irrilevante il “livello di tassazione dello Stato della sede legale al quale pure usualmente si riferisce la Cassazione nel definire il fenomeno [Zizzo, op.cit.]”. Pertanto, applicando tale disposizione, la residenza di una società con sede legale all’estero, potrà essere attratta in Italia semplicemente avvalendosi di almeno uno dei due restanti criteri di carattere sostanziale (ferma restando, ovviamente, la verifica in merito al requisito temporale di cui all’art.73, comma 3, TUIR). Sembrerebbe quindi, diversamente da quanto chiarito dai Supremi Giudici, che una società possa essere qualificata come esterovestita indipendentemente dal livello di tassazione dello Stato nel quale ne sia collocata “l’artificiosa” sede legale. Anche l’Agenzia della Entrate [Nota Direzione Centrale Normativa-Agenzia delle entrate 19.03.2010, prot.n.2010/39678, pag.4] sembra condividere che la norma in questione prescinda dal livello di tassazione dello stato estero cui è assoggettata una società da ritenersi esterovestita dal momento che l’art. 73, comma 3 TUIR è finalizzato a colpire le fattispecie di contribuenti che vogliono sottrarsi alla tassazione su base mondiale in Italia, piuttosto che le fattispecie di contribuenti che vogliono, legittimamente, approfittare di un trattamento fiscale più vantaggioso previsto in uno Stato membro dell’UE.
- La conclusione cui giunge la Suprema Corte in materia di esterovestizione nella presente pronuncia è l’occasione per fare un raffronto con quella, apparentemente diametralmente opposta, cui la Cassazione è giunta in altra pronuncia relativa ad una vicenda che, per certi aspetti, sembra caratterizzata da alcuni comuni profili fattuali. In particolare, nella sentenza oggetto della presente nota, la Corte, al punto 6.1, dopo aver ribadito che cosa debba intendersi per esterovestizione, evidenzia che tale fattispecie è stata “oggetto di ampia disamina da parte di questa Corte con la sentenza n.2869 del 07/02/2013 e, da ultimo, con la sentenza n.33234 del 21/12/2018”. Al riguardo, anche in quest’ultima sentenza – con la quale si intende fare il suddetto breve confronto - relativa al noto caso “Dolce e Gabbana [Civ.Sez.V, n.33234 del 21.12.2018, Cass.Pen.Sez.III, n.43809 del 30.10.2015]”: i) la Corte ha richiamato la propria precedente pronuncia n.2869 del 7 febbraio 2013 per ribadire che cosa debba intendersi per esterovestizione; ii) il ragionamento della Cassazione si è sviluppato attraverso il richiamo, seppur con peculiarità proprie, alla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, al contenuto del diritto di stabilimento ed alle limitazioni al suo esercizio in caso di costruzioni artificiose (wholly artificial arrangements); iii) viene individuato nell’art. 87, comma 3, TUIR vigente ratione temporis (oggi art.73, comma 3, TUIR) la disposizione domestica applicabile ai fini della determinazione della residenza societaria; iv) viene affermato – peraltro con le medesime parole - che la disciplina interna e quella pattizia (in questo caso la Convenzione tra Italia e Lussemburgo per evitare le doppie imposizioni) “sono sostanzialmente equivalenti”; v) sotto il profilo fattuale, è stata riscontrata la presenza di una struttura estera sostanzialmente priva di autonomia gestionale – e finanziaria – che constava avere pochissimi operatori. Tuttavia, nonostante molto accomuni i due diversi casi, diverse, ed anzi opposte, sembrano essere le conclusioni della Suprema Corte. Ed infatti, nel caso della sentenza oggetto della presente nota, la Corte ha condiviso la valutazione fatta dalla CTR circa il carattere artificioso della sede legale, valutazione, questa, desunta sia dalla circostanza che l’attività direttiva e decisionale non si svolgeva in Olanda, ma in Italia, sia dalle caratteristiche dimensionali della struttura messa in piedi in Olanda che contava soltanto due operatori. Diversamente, nel caso di cui alla sentenza n.33234 del 21/12/2018, la Corte, richiamando le valutazioni fatte nella sentenza n.43809 del 30 ottobre 2015 pronunciata in sede penale, sebbene anche in questo caso la struttura della società estera constasse di pochissimi operatori privi di autonomia gestionale e finanziaria, ha ritenuto di disporre il rinvio alla CTR in diversa composizione “in quanto il giudice d’appello ha esaurito la propria valutazione nella sbrigativa considerazione meramente assertiva, che “il top management della Gado operava in Italia”, facendo leva su “gli impulsi, gli incontri per assumere le decisioni riguardanti la realizzazione dell’attività sociale”, senza valutare l’attività comunque svolta – dai “due semplici dipendenti (punto 6.1)” - in Lussemburgo, che emerge proprio dalla corrispondenza e-mail valorizzata in senso opposto e trascritta in ricorso (punto 7)”. In altre parole, ferme restando le specificità dei due casi, il ragionamento fatto dalla Corte, pur sviluppandosi attraverso i medesimi passaggi ed essendo applicato ad una situazione fattuale che, almeno in relazione al profilo della consistenza e dell’assenza di autonomia delle strutture che ne sono state oggetto, non pare si presenti diversa, porta però a conclusioni differenti. In entrambi i casi vi sono, per così dire “strutture” estere prive di autonomia gestionale che neppure contano una folta schiera di personale ivi operante, tuttavia, nella sentenza oggetto della presente nota la Corte ha ritenuto che tali condizioni fossero sufficienti a ritenere la società in questione esterovestita, viceversa, nel caso della sentenza “Dolce e Gabbana”, si è ritenuto che tale circostanza non fosse sufficiente per concludere per una totale carenza di effettività e contenuti della struttura estera, posto che “qualcosa in Lussemburgo effettivamente si faceva”, carenza di effettività e contenuti rinvenuta invece nel caso della struttura estera di cui alla sentenza oggetto della presente nota. Sarà interessante vedere a quali conclusioni giungerà la CTR della Lombardia investita della rimessione.
- Le conclusioni della sentenza oggetto della presente nota, come anche il processo valutativo condotto per arrivare ad esse, appaiono in linea con la prevalente precedente giurisprudenza della Suprema Corte, anche se forse l’indirizzo interpretativo in materia potrebbe essere – nei termini di cui alle sentenze Dolce e Gabbana cui si è accennato - in corso di “evoluzione”; ciò che sembrerebbe emergere è che, ai fini dell’identificazione della residenza di una società cui venga contestata l’esterovestizione, potrebbe non essere dirimente l’individuazione del luogo dove si riunisce l’organo amministrativo [In tal senso anche Fantozzi e Paparella, Lezioni di Diritto Tributario dell’Impresa, seconda edizione, CEDAM, 2019, pag.107]. E’ intuibile che un mutamento di indirizzo interpretativo in materia di residenza societaria declinato in questi termini sarebbe, per un verso, ben salutato dai grandi gruppi multinazionali che, pianificando di avvalersi di strutture realmente operative, ma dotate di poco personale, potrebbero forse, ferma restando la difficile riconciliabilità con l’attuale dettato normativo, esser così meno esposti a contestazioni di esterovestizione; per altro verso, tale diverso modo di graduare l’interpretazione del criterio della “sede effettiva” – se valorizzato e ribadito in altre pronunce - sarà sicuramente fonte di incertezze sotto il profilo probatorio ove non adeguatamente definito.