argomento: Principi generali e fonti - Giurisprudenza
La sezione sesta della Corte di Cassazione è recentemente intervenuta con tre distinte ordinanze sui presupposti del c.d. raddoppio dei termini di accertamento delle imposte sui redditi e dell’IVA. La Corte ha esaminato le ipotesi in cui, tra il momento in cui si è verificato il fatto da cui deriva l’obbligo di denuncia per uno dei reati di cui al d.lgs. n. 74/2000 e quella del suo accertamento ad opera dell’amministrazione finanziaria o del giudice tributario, siano intervenuti mutamenti nella qualificazione del reato. Ciò a seguito di un intervento del legislatore penale (ipotesi di sopravvenuta abolitio criminis) ovvero dell’ufficio accertatore (casi di “derubricazione” in sede di accertamento di frodi/operazioni inesistenti a operazioni esistenti ma antieconomiche/non inerenti). In due delle tre ordinanze la Cassazione è giunta a conclusioni che sembrano strettamente legate al caso oggetto del giudizio, accompagnate tuttavia da obiter dicta su cui pare utile soffermarsi. Con l’ordinanza n. 23274/2021, viceversa, la sezione filtro ha opportunamente rinviato la questione alla sezione tributaria delineandone accuratamente i relativi termini, non senza offrire spunti di riflessione.
PAROLE CHIAVE: raddoppio dei termini - abolitio criminis - tempus regit actum
di Giovanni Panzera da Empoli
Sul tema siamo già intervenuti (G. PANZERA da EMPOLI-S. SUPINO, L’abolitio criminis preclude l’esercizio del potere di accertamento nel termine “raddoppiato”, in Corr. Trib. n. 24/2016; cfr. G. PANZERA da EMPOLI, Notizia criminis e “raddoppio” dei termini di accertamento, in L. SALVINI-F. CAGNOLA, a cura di, Manuale professionale di diritto penale tributario, Torino, 2021, p. 122 ss.) osservando che la riforma dei reati tributari recata dal d.lgs. n. 158/2015, entrato in vigore il 22 ottobre 2015 – in controtendenza rispetto alla riforma operata dal d.l. n. 138/2011 e con l’ultima di cui al d.l. 26 ottobre 2019, n. 124, convertito – ha comportato la depenalizzazione di numerose condotte, in particolare, attraverso la novella dell’art. 4 d.lgs. n. 74/2000, in tema di “dichiarazione infedele”, tramite l’espunzione di taluni illeciti dall’alveo della fattispecie criminosa. Al contempo, la riforma ha (o, meglio, aveva) elevato le soglie di punibilità per i reati di dichiarazione infedele (il citato art. 4), omessa dichiarazione (art. 5), omesso versamento di ritenute dovute o certificate (art. 10-bis) e omesso versamento IVA (art. 10-ter). Con distinto intervento normativo, il legislatore delegato ha altresì espressamente depenalizzato l’abuso del diritto tributario (art. 10-bis, comma 13, legge 27 luglio 2000, n. 212, novellato dal citato d.lgs. n. 128/2015).
In merito, ci è parso logico ritenere che, a partire dalla data di entrata in vigore dei suddetti decreti, all’Amministrazione finanziaria, con riferimento alle fattispecie depenalizzate, sia preclusa la notifica di avvisi di accertamento oltre i termini “ordinari” di cui all’attuale primo periodo del comma 132 della legge di stabilità 2016 e ciò a prescindere dall’avvenuta presentazione della denuncia entro il termine ordinario di accertamento (requisito, come detto, introdotto dall’art. 2 co. 2 del d.lgs. n. 128/2015 e “confermato” dalla legge di stabilità 2016). Ciò in base ai principi generali in tema di successione di leggi penali e di applicazione nel tempo della legge tributaria di natura procedimentale.
Sotto il primo profilo, è ben noto che l’abrogazione di una norma penale sortisce effetti retroattivi ed è finanche idonea a travolgere le pronunce di condanna passate in giudicato (art. 2, co. 2 c.p.; c.d. efficacia iperretroattiva dell’abolitio criminis). Nello stesso senso, assume valenza abrogativa anche l’innalzamento delle soglie di punibilità dei reati tributari. Secondo la dottrina maggioritaria (In giurisprudenza, cfr. Cass. pen., sentt. n. 12859/2020, n. 3098/2016. La tesi, in dottrina, è sostenuta da V. NAPOLEONI, I fondamenti del nuovo diritto penale tributario nel D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, Milano, 2000, p. 116; A. TRAVERSI-S. GENNAI, I nuovi delitti tributari, Giuffrè, Milano, 2000, p. 125; E. MUSCO-F. ARDITO, Diritto penale tributario, Zanichelli, Bologna, 2010, p. 249; PERINI, voce “Reati tributari”, cit., p. 499. Tale ricostruzione è condivisa anche dalle Sezioni Unite (cfr. Cass. pen., Sez. Un., 28 marzo 2013, n. 37424). Altra parte della dottrina e della giurisprudenza ritiene invece che la soglia di punibilità abbia natura di condizione obiettiva di punibilità (art. 44 c.p.); per tutte, cfr. Cass. pen., Sez. III, 23 giugno 2011, n. 25213, con nota di C. RENZETTI, La natura giuridica delle soglie di punibilità nei reati tributari, in Cass. pen., 2013, p. 285), la soglia, “misurando” la gravità dell’offesa, rappresenta essa stessa un elemento costitutivo del fatto di reato (C. TODINI, Soglie di punibilità, in L. SALVINI-F.CAGNOLA, a cura di, Manuale professionale di diritto penale tributario, Torino, 2021, p. 206 ss.). In tali circostanze, può dunque parlarsi di abolitio criminis parziale (V. Cass. Pen., Sez. III, sentenza 2 marzo 2018, m. 10810).
Sotto il secondo profilo, gli atti del procedimento di accertamento tributario, al pari della generalità degli atti amministrativi, soggiacciono al principio tempus regit actum; principio fondante, prima ancora che del procedimento e dell’atto, dello stesso potere amministrativo. È l’esercizio del potere infatti – che si dispiega nel procedimento e si esprime definitivamente nell’atto che lo conclude – a dover essere costantemente subordinato alle norme che nel tempo ne regolano l’attuazione e gli effetti, anche in omaggio al principio di legalità dell’azione amministrativa (R. VILLATA-G. SALA, voce Procedimento amministrativo, in Digesto (disc. pubbl.), XI, Utet, Torino, 1996). Per pacifica giurisprudenza, la corretta applicazione del principio tempus regit actum comporta così che l’Amministrazione, per individuare le norme applicabili all’atto da emanare, deve considerare anche le modifiche normative intervenute durante il procedimento che conduce all’emissione dell’atto stesso. La conseguenza è che la legittimità del provvedimento adottato al termine di un procedimento amministrativo deve essere valutata con riferimento alla disciplina vigente al tempo in cui è stato adottato il provvedimento finale piuttosto che a quello dell’avvio del procedimento (Cfr. Cons. Stato, sez. V, 10 aprile 2018, sent. n. 2171; Id., Cons. Stato, Sez. IV, 14 gennaio 2016, sent. n. 83; Id., Cons. Stato, Sez. IV, 8 agosto 2016, sent. n. 3536). Lo ius superveniens reca d’altronde una diversa valutazione degli interessi pubblici, sicché la P.A. deve tener conto delle modifiche normative medio tempore intervenute, pena la violazione dello stesso principio di legalità (Per tutte, cfr. Cons. Stato, Sez. V, 23 ottobre 2014, n. 5249). Il procedimento amministrativo-tributario è dunque soggetto alla normativa in vigore al momento della produzione degli effetti dell’atto che lo conclude (ergo, nel contesto dell’accertamento, al momento della notifica dell’avviso di accertamento, nelle sue varie forme).
Da quanto fin qui esposto dovrebbe conseguire che l’Amministrazione finanziaria sia tenuta a verificare la sussistenza dei presupposti per l’esercizio del potere impositivo alla data di produzione degli effetti dell’atto finale del procedimento accertativo, ossia al momento della notifica dell’avviso di accertamento. Poiché il primo di tali presupposti è la pendenza dei termini per l’esercizio di tale potere (i.e., per la notifica dell’avviso), consegue altresì che, al momento della notifica dell’avviso di accertamento, l’Agenzia dovrebbe verificare l’eventuale sussistenza delle condizioni che le consentono di avvalersi del termine “raddoppiato” di cui al comma 132 della legge n. 208/2015. Pertanto, se la violazione oggetto dell’emanando avviso non è più oggettivamente suscettibile di denuncia, in quanto ormai priva di rilievo penale, l’Agenzia dovrebbe fare applicazione dei soli termini ordinari, considerando eventualmente esaurito il proprio potere in caso di intervenuta scadenza di questi ultimi.
D’altronde, già con l’ordinanza n. 13483/2016 e con la n. 29616/2017, la Cassazione ha affermato che “la soglia di rilevanza penale del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, relativo al raddoppio dei termini dell’accertamento, va [...] valutata con riferimento al momento in cui è stata commessa la violazione ed effettuato l’accertamento”. La Suprema Corte ha, dunque, stabilito che la rilevanza penale dell’illecito, che consente l’operatività del “raddoppio” dei termini, deve sussistere in due distinti momenti e, cioè, quello “in cui è stata commessa la violazione” (i.e. se, al momento della commissione dell’illecito fiscale, quest’ultimo non assume rilevanza penale, non può ovviamente aversi alcun raddoppio dei termini) e quello “in cui è stato [...] effettuato l’accertamento”, ossia allorquando l’amministrazione esercita il potere impositivo, in linea con il citato principio tempus regit actum. Dovendo l’amministrazione verificare in tale data la sussistenza dei presupposti per l’esercizio del potere impositivo, primo tra tutti la pendenza dei termini per l’accertamento, in tale momento essa deve altresì verificare l’eventuale sussistenza delle condizioni che le consentono di avvalersi del termine “raddoppiato”.
Il caso oggetto dell’ord. 20 agosto 2021 n. 23274 prende le mosse da una contestazione della GdF per il periodo d’imposta 2010, cui aveva fatto seguito la denuncia all’AG per il reato di infedele dichiarazione (IRES). Dal pvc emergeva la sussistenza degli elementi costitutivi di tale fattispecie, tra cui il superamento, per circa € 30mila, della soglia di punibilità, all’epoca fissata in € 50mila di imposta evasa. A seguito della notifica del pvc e prima della scadenza del termine ordinario di accertamento, è intervenuta la citata riforma di cui al d.lgs. n. 158/2015, che ha innalzato a € 150 mila la soglia di punibilità per detto reato. Come precisato, stante la natura di elemento costitutivo della fattispecie penale rivestita dalla soglia di punibilità, la sua modifica in melius ha comportato un’abolitio criminis parziale delle condotte sotto-soglia, con efficacia iperretroattiva ex art. 2, comma 2 c.p. Ne è conseguito un contenzioso che ha visto la contribuente ottenere ragione innanzi alla CTR Lazio (sent. n. 6700/2019). Da qui il ricorso per cassazione dell’Agenzia delle Entrate, la quale ha ribadito la tesi per cui l’astratta punibilità della condotta infedele ascrivibile al contribuente ex art. 4 del d.lgs. n. 74/2000 ai fini del “raddoppio” dovrebbe essere valutata con esclusivo riguardo “al periodo di imposta in cui la violazione era stata commessa” e, quindi, all’epoca in cui l’obbligo della denuncia penale ex art. 331 c.p.p. era insorto.
Il ricorso erariale è stato ritenuto “manifestamente fondato” dal relatore della sezione sesta (com’è noto, il combinato disposto degli artt. 376, 380-bis e 380-bis.1 c.p.c. disciplina il procedimento per la preliminare valutazione da parte della sezione sesta (c.d. sezione filtro) di tutti i ricorsi per cassazione, eccetto quelli meritevoli di pronuncia a sezioni unite ex art. 374 c.p.c. In particolare, la sezione filtro verifica, “a un sommario esame del ricorso”, previa proposta del relatore, se sussistono i presupposti per la pronuncia in camera di consiglio stante la possibilità di dichiarare l’inammissibilità del ricorso o la sua manifesta fondatezza o infondatezza. In assenza di tali presupposti, gli atti sono rimessi alla sezione semplice “omessa ogni formalità”) con conseguente proposta al Collegio di suo accoglimento. Ciò, singolarmente, proprio sulla scorta della citata ord. n. 13483/2016 (“la soglia di rilevanza penale di cui all’art. 43, comma 3, del D.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, va valutata con riferimento al momento in cui è stata commessa la violazione ed effettuato l’accertamento”). La Corte ha tuttavia opportunamente riconosciuto che “tale principio è stato affermato dalla giurisprudenza di legittimità in relazione ad una fattispecie in cui, dopo aver annullato in via di autotutela l'avviso di accertamento, l'amministrazione finanziaria aveva ridotto l'importo della pretesa impositiva, facendo venir meno la soglia di punibilità e l'obbligo di denuncia penale. Per cui, la sopravvenienza di un provvedimento amministrativo idoneo ad incidere sull'entità della pretesa fiscale - e, di riflesso, sulla rilevanza penale dell'infrazione agli obblighi tributari - non poteva inibire ex post il prolungamento del termine concesso all'amministrazione finanziaria per l'esercizio del potere di accertamento. Diversa è l'ipotesi ora sub iudice, in cui la soglia di punibilità della condotta imputabile al contribuente è stata variata dalla sopravvenienza di una riforma della norma incriminatrice, che ha elevato l'ammontare della imposta evasa ai fini della consumazione del reato tributario. Per cui, allorquando la rilevanza penale dell'inadempienza agli obblighi tributari assurga ad elemento costitutivo di una norma amministrativa, occorre chiedersi se l’eventuale modifica in melius della norma incriminatrice possa o meno esplicare efficacia retroattiva (ex art. 2, comma 2 c.p.) anche nel procedimento diretto all'accertamento della violazione tributaria, nel senso di inibire o caducare i riflessi conseguenti alla qualificazione originaria della fattispecie concreta, nel cui consolidamento – ai fini dell'esercizio della potestà impositiva – l’amministrazione finanziaria aveva fatto affidamento”. Ponendo l’accento, da un lato, sulle differenze tra la fattispecie da cui discende il proprio precedente e quella sub iudice e rilevando, dall’altro, “la novità e peculiarità della questione”, la sezione sesta ha dunque opportunamente rinviato alla quinta la trattazione.
L’ord. interlocutoria, oltre che per la chiara delineazione delle posizioni in dibattito, offre un ulteriore spunto di interesse ove, come riportato, riassume, pur con espressione generica, in termini di “affidamento” la posizione dell’amministrazione circa l’avvenuto raddoppio (illo tempore) del termine di accertamento (in altro inciso la Cassazione riassume efficacemente i dubbi di parte erariale circa l’effetto di annullamento “ex post” del raddoppio che si avrebbe in caso di abolitio criminis “anche quando l’amministrazione finanziaria, confidando sul tenore vigente ratione temporis della norma tributaria, abbia adottato l’atto impositivo soltanto dopo l’entrata in vigore della modifica apportata alla norma penale”). La considerazione attiene alla possibilità di configurare effettivamente un “affidamento” della parte pubblica del rapporto d’imposta, la quale, appunto, si troverebbe improvvisamente lesa nelle sue “aspettative” di pieno esercizio del potere di accertamento allorquando interviene la norma penale di riforma. Invero, in questa sede pare sufficiente ricordare che, ai sensi del combinato disposto dell’art. 97, comma secondo, Cost. e dell’art. 1 della l. n. 241/1990, la PA trova nella legge presupposti, limiti e fini dei propri poteri (c.d. principio di legalità). Pertanto, le sopravvenienze legislative (ri)fondano e (ri)delimitano per definizione detti poteri. In altri termini, l’amministrazione deve conformarsi alla legge in vigore al momento in cui essa esercita il proprio potere in quanto articolazione, sul piano amministrativo, di quello stesso Stato che, nella sua veste di legislatore, ha adottato il nuovo assetto normativo. Ne deriva che, in caso di avvenuta abolitio criminis, l’amministrazione trova nella “derubricazione” dei fatti oggetto di accertamento non già una lesione di una propria posizione giuridica ma il nuovo fondamento (in senso limitativo) del proprio potere (Ciò pare tanto più vero allorquando, come avvenuto nel caso di specie, l’abolitio criminis intervenga prima della scadenza del termine ordinario di accertamento e, dunque, l’ufficio sia ancora in tempo a notificare l’avviso). Non sembrano ricorrere dunque i presupposti per l’applicazione del principio tempus regit actionem (In base a tale principio il paradigma di validità del provvedimento amministrativo è da rinvenirsi nella legge vigente al momento dell’avvio del procedimento, con la conseguente inapplicabilità della sopravvenienza normativa. Sul tema, la dottrina amministrativistica (cfr., ad es., P. L. PORTALURI, La regola estrosa: note su procedimento amministrativo e ius superveniens, in www.giustizia-amministrativa.it, 2013) evidenzia come applicazione di tale principio costituisca un’eccezione alla regola generale tempus regit actum e trovi fondamento nella valutazione ponderativa, posta in essere dal giudice amministrativo, degli interessi coinvolti nella specifica vicenda. È noto, tuttavia, che la “ponderazione degli interessi”, propria della discrezionalità amministrativa è per lo più preclusa sia nel procedimento che, soprattutto, nel processo tributario, ove vengono tipicamente in rilievo posizioni giuridiche di diritto soggettivo (del privato contribuente) (Per l’applicazione del principio a tutela del legittimo affidamento del privato, v. Cass. S.U., sent. n. 2949/2019, nel caso dello straniero richiedente permesso di soggiorno per motivi umanitari che veda abrogata tale fattispecie di permesso nell’intervallo tra la presentazione dell’istanza e la conclusione del procedimento amministrativo).
La controversia sottoposta all’attenzione della Corte trae origine dalla contestazione di violazioni, per l’anno d’imposta 2005, ricadenti nelle fattispecie di cui agli artt. 4 (“infedele dichiarazione”), 5 (“omessa dichiarazione”), 8 (“emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”) e 10 (“occultamento o distruzione di documenti contabili”) del d.lgs. n. 74/2000. È importante notare che, come emerge (solo) dalla lettura della sentenza di appello, nel caso di specie l’Amministrazione aveva notificato l’atto accertativo prima dell’entrata in vigore della riforma dei reati tributari che ha portato “sotto-soglia” la fattispecie ai fini della punibilità ex art. 4 cit. Pertanto, in base al principio tempus regit actum, la legittimità del provvedimento impositivo non era toccata dall’abolitio criminis parziale. La riforma ha peraltro confermato la rilevanza del caso ex art. 5, stante la soglia inferiore oltre, ovviamente, a non tangere l’astratta rilevanza della vicenda ai fini degli artt. 8 e 10, che neppure prevedono una soglia di punibilità.
Ciononostante, la contribuente otteneva ragione in appello in quanto “non era stata superata la soglia di punibilità prevista dall’art. 4 del d.lgs n. 74/2000” poiché “il dettato normativo vigente all’epoca dei fatti prevedeva una soglia di punibilità più alta rispetto alla versione attualmente vigente, conseguentemente non si configurava per il 2005 tale reato” (CTR Lazio sent. n. 825/2019). In altri termini, il giudice tributario ha accertato che, al momento del giudizio, era intervenuta abolitio criminis ed ha ritenuto che ciò travolgesse l’atto impositivo, pur essendo questo notificato in un momento in cui la fattispecie accertata comportava certamente l’obbligo di denuncia. L’erroneità di tale decisione ha condivisibilmente portato la sezione sesta ad accogliere per manifesta fondatezza il ricorso dell’Agenzia delle Entrate. Tuttavia, la Cassazione ha corredato la propria decisione – che richiama i consueti già citati precedenti della Corte – con affermazioni che, oltre ad eccedere le esigenze di risoluzione del caso di specie, se interpretate letteralmente si porrebbero in conflitto (anche) con i sopra riportati precetti della giurisprudenza costituzionale. La Corte afferma infatti che “unico presupposto necessario e sufficiente per il raddoppio dei termini di decadenza è proprio l’astratta ipotizzabilità del fumus di un reato al momento dei fatti e non la sua effettiva sussistenza, non rivestendo rilevanza ai fini del raddoppio dei termini la circostanza, valutabile solo ex post, che il reato di cui all’art. 4 cit. probabilmente non è stato integrato perché non si è raggiunta la soglia minima di punibilità, non essendo necessario che il reato sia effettivamente configurabile […] essendo invece che lo sia nella ragionevole prospettazione dell’Ufficio al momento dei fatti”.
Tale affermazione invero è di per sé ben condivisibile, posto che certo non può esserci “raddoppio” se al momento dei fatti neppure l’amministrazione rileva i presupposti oggettivi per la presentazione di una denuncia penale. Preme tuttavia ribadire quello che – non essendo necessario in ragione della rilevata peculiarità della fattispecie sottoposta al suo giudizio – la Cassazione non aggiunge, ossia che la “ragionevole prospettazione dell’Ufficio” circa la ricorrenza del fatto-reato deve sussistere non solo “al momento dei fatti” (ad esempio, quando è stata presentata la dichiarazione infedele), ma anche in quello in cui questi esercita l’azione di accertamento, ossia alla notifica dell’avviso impositivo. Se così non fosse, la pronuncia in commento si porrebbe in contrasto sia con il citato precedente della medesima Corte (ord. 13483/2016), secondo cui i presupposti del raddoppio devono sussistere anche nel momento in cui viene effettuato l’accertamento, sia con la stessa ratio del “raddoppio”. Il ricorso al termine “raddoppiato” si giustifica infatti solo in presenza di gravi violazioni suscettibili di sanzione penale, rispetto alle quali il legislatore ha avvertito l’esigenza di concedere all’amministrazione un tempo più ampio per l’accertamento. Ciò tramite un rinvio mobile all’intero corpus del d.lgs. n. 74/2000 da cui consegue che, come ben espresso dalla sopra riportata ord. int. n. 23274/2021, “la rilevanza penale dell'inadempienza agli obblighi tributari assurga ad elemento costitutivo di una norma amministrativa”. Ne deriva che, al venir meno del presupposto della rilevanza penale della condotta, dovrebbe venir meno alla radice il presupposto del raddoppio dei termini.
Non solo. Se la verifica dei presupposti del raddoppio si esaurisse “al momento dei fatti” senza che assumesse alcun rilievo l’esercizio dell’azione accertativa, resterebbe inattuabile il presidio posto dalla Corte Costituzionale (sent. n. 247/2011 cit.) a tutela del diritto alla difesa del contribuente, secondo cui, come detto, il giudice tributario deve accertare “se l’amministrazione finanziaria abbia agito con imparzialità od abbia, invece, fatto un uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni denunciate”. Pare logico ritenere infatti che solo il momento dell’esercizio dell’azione accertativa possa esprimere quell’“agire con imparzialità” cui pone riferimento il giudice delle leggi, non avendo di converso rilievo ai fini del raddoppio neppure la presentazione della denuncia (Fuori dal regime transitorio di cui all’art. 1 comma 132 l. n. 208/2015); per cui, se la suddetta verifica si esaurisse “al momento dei fatti”, non vi sarebbe a ben vedere alcuna azione – imparziale o meno – da accertare.
Dopo il primo grado sfavorevole alla parte privata, la CTR Liguria (sent. n. 1052/06/2019) riteneva fondata l’eccezione di decadenza dell’azione di accertamento in quanto l’Agenzia delle Entrate aveva posto a fondamento giuridico della pretesa azionata “la supposta antieconomicità delle operazioni, rilievo questo che non legittima il raddoppio dei termini per l’adozione dell’accertamento”.
La sezione sesta della Cassazione ha accolto la proposta del relatore di considerare manifestamente fondato il successivo ricorso dell’Agenzia delle Entrate. La Corte ha in particolare ritenuto che sia nel pvc, sia nell’avviso di accertamento – oltre ai profili di mera “antieconomicità” della condotta tenuta dalla Società, come tale non rilevante penalmente – sarebbero stati indicati elementi “sintomatici della falsità delle fatturazioni”. In quest’ottica – e questo ci pare essere il nucleo essenziale del decisum – la Corte afferma che la CTR avrebbe “completamente trascurato di apprezzare tali obiettivi elementi per valutare se al tempo in cui sono state formulate le ipotesi investigative vi fossero serie prospettive idonee a condurre all’accertamento di fatti di reato […] tali da giustificare la denuncia penale”. Di conseguenza, a giudizio della Corte, si rende necessario “un nuovo esame della questione del raddoppio dei termini” ad opera di altra sezione della medesima CTR (salva la decadenza dall’azione di accertamento ai fini IRAP per insussistenza di violazioni di detta imposta penalmente perseguibili).
Il caso non concerne, a tutta evidenza, il rapporto tra abolitio criminis e raddoppio dei termini di accertamento, quanto piuttosto l’estensione e le modalità con cui il giudice tributario deve verificare, secondo i precetti della Corte Costituzionale, se l’amministrazione abbia agito con imparzialità e non abbia fatto “un uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni denunciate al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento”. Nel caso di specie, poiché è la stessa amministrazione ad aver ritenuto che la fattispecie concreta non integrasse gli estremi di una condotta penalmente rilevante, parrebbe logico far conseguire, indipendentemente dall’avvenuto inoltro della denuncia da parte dei verificatori: 1) il riconoscimento, da parte della stessa amministrazione procedente, dell’insussistenza del presupposto costitutivo del raddoppio e, dunque, l’auto-certificazione dell’“uso pretestuoso e strumentale” della disciplina in esame; 2) l’ultroneità di qualsiasi accertamento da parte del giudice tributario circa “la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia”, essendo, per l’appunto, detti presupposti esclusi dalla stessa Agenzia. D’altronde, intanto pare poter assumere rilievo il giudizio prognostico (“prognosi postuma”) richiesto dalla Corte Costituzionale in quanto l’Agenzia delle Entrate abbia riscontrato, al momento della notifica dell’atto impositivo, fatti comportanti l’obbligo di denuncia penale.
D’altra parte, come già detto, la ratio del raddoppio è stata individuata dalla stessa Corte Costituzionale nell’“obiettivo di attribuire agli uffici tributari [e non, dunque, agli organi ausiliari, n.d.r.] maggior tempo per accertare l’effettiva capacità del soggetto passivo d’imposta quando ciò sia giustificato dalla non arbitraria ipotizzabilità, ai sensi dell’art. 331 c.p.p., di violazioni gravi e di più difficile controllo”. Qualora gli stessi “uffici tributari” qualifichino i fatti come privi di rilevanza penale, andrebbe esclusa la ragione giustificante – anche sotto il profilo costituzionale – la possibilità di fruire di un termine di accertamento più ampio e, cioè, la sussistenza di una violazione che appare “grave e di più difficile controllo” in quanto, per l’appunto, astrattamente riconducibile, in base ad una valutazione “non arbitraria”, ad un illecito penale. In ogni caso, la Cassazione, senza affrontare la questione del momento in cui deve essere valutata la sussistenza di una fattispecie di reato per cui ricorre l’“obbligo di denuncia” ex art. 331 c.p.p. ai fini dell’operatività del “raddoppio”, con l’ordinanza in commento si limita ad affermare che tale momento coinciderebbe con il “tempo in cui sono state formulate le ipotesi investigative”. Ciò tuttavia senza chiarire se trattasi del momento in cui è stata avviata la verifica, quello di notifica del pvc ovvero quello della successiva autonoma istruttoria dell’ufficio accertatore ovvero ancora, come affermato dalla citata Cass. 13483/2016, se i presupposti del reato debbano ricorrere in due momenti: quello dei fatti e quello della notifica dell’accertamento. A ben vedere, la sezione sesta non ha neppure enunciato un chiaro principio di diritto da seguire ai fini dell’applicazione delle disposizioni sul raddoppio, essendosi piuttosto limitata a demandare al giudice del rinvio un riesame dei fatti di rilievo, così come riepilogati in motivazione.
Appurato che le pronunce della sezione sesta, susseguitesi in tempi rapidi, non consentono di individuare principi unitari in ragione delle peculiarità dei casi concreti in giudizio, è auspicabile che la sezione tributaria, cui l’ordinanza interlocutoria n. 23274/2021 ha rinviato la questione, faccia finalmente chiarezza.