argomento: Sanzioni e contenzioso - Legislazione e prassi
L’assenza di una disciplina organica e trasversalmente applicabile, l’esponenziale incremento della loro diffusione nonché le difficoltà riscontrate in sede di interpretazione analogica impongono di analizzare le valute virtuali attraverso la ricostruzione degli sviluppi dottrinali e giurisprudenziali, spesso lontani dagli approdi dell’Amministrazione finanziaria. Il trattamento fiscale riservato alle criptovalute, assimilate ai fini impositivi a valute estere, sembra incoerente con il tenore letterale della legislazione antiriciclaggio e rischia di essere foriero di ritardi nell’introduzione di normative univoche, necessarie per arginare i rischi connessi all’impiego distorto delle valute virtuali.
PAROLE CHIAVE: valute virtuali - antiriciclaggio - valute estere
di Francesca De Vincentiis
Qualunque sforzo di costruzione dogmatica, che pure la dottrina degli ultimi anni evidenzia (PIERRO, La qualificazione giuridica e il trattamento fiscale delle criptovalute, in Rivista di Diritto Tributario, Vol. XXX, Aprile 2020, pp. 103 ss; CORASANITI, Il trattamento tributario dei Bitcoin tra obblighi antiriciclaggio e monitoraggio fiscale, in Strumenti finanziari e fiscalità, 2018, p. 61; IAIA, Imponibilità e disciplina delle operazioni di cambio e pagamento con criptomonete nel sistema europeo dell’IVA, in Rivista di Diritto Tributario, Vol. XXXI, Agosto 2021, pp. 273 ss; TRENTA, Bitcoin e valute virtuali. Alcune riflessioni alla luce della decisione della Corte di Giustizia UE sul regime IVA applicabile ai bitcoin, in Rivista trimestrale di Diritto Tributario, n. 4/2016, pp. 949 ss; SCALIA, Riflessioni su alcuni temi controversi della disciplina IVA delle c.d. criptovalute, in Giurisprudenza delle imposte, Vol. XCIII, n. 1/2020, pp. 1 ss), tuttavia, deve far i conti con l’astrazione, rendendo necessario operare riconduzioni, o quantomeno raffronti per differentiam, con riferimento ai già noti paradigmi positivi, al fine di consentire l’elaborazione di una disciplina confacente alle caratteristiche intrinseche e (a)tipiche delle valute virtuali o, al più, il corretto coordinamento applicativo di norme già esistenti.
L’esigenza di chiarificazione della disciplina praticabile assume certamente un rilievo pregnante nel settore del diritto tributario, ove l’ambigua natura di un asset o di un provento rischia di tradursi in una distorsione dell’effettività del principio costituzionalmente sancito della capacità contributiva, ma si carica di importanti risvolti anche su piani più prettamente civilistici – si pensi alla vexata quaestio dei conferimenti in valute virtuali – e penalistici, così inducendo la dottrina e la giurisprudenza a porre rimedio ad un formale e sostanziale vuoto legislativo.
Affermare che si tratti di “rappresentazioni digitali di valore” certamente induce a recuperare la categoria dei beni immateriali e ad escludere quella dei mezzi di pagamento in valuta, rispetto ai quali non può non riscontrarsi come le valute virtuali siano deficitarie di potere solutorio ex lege (BOCCHINI, Lo sviluppo della moneta virtuale: primi tentativi di inquadramento e disciplina tra prospettive economiche e giuridiche, in Diritto dell’Informazione e dell’Informatica (II), fasc. 1, 2017, pp. 27 ss), ma detta scelta include in sé il rischio di sottovalutare che l’investimento funge spesso da leitmotiv per l’apprensione di valute virtuali da parte degli utenti e che l’alta volatilità del valore consente di generare profitto sulla base del cambio rispetto alla moneta avente corso legale secondo gli schemi tipici degli strumenti finanziari. E’ proprio a questi, infatti, che la prima pronuncia giurisdizionale italiana sul tema faceva riferimento, in un’ottica chiaramente funzionale e strumentale alla tutela della parte debole della transazione, nel dichiarare la nullità del contratto sotteso ad un’operazione di acquisto di valute virtuali in adesione ad un’operazione di crowdfunding, in quanto violativo degli obblighi legali di forma ed informativa di cui agli artt. 67duodecies e ss. del Codice del Consumo. L’insostenibilità di questa teoria, se non per finalità puramente garantiste degli interessi dei consumatori, è evidente, almeno sin quando il legislatore non intenderà procedere ad una tipizzazione in questa direzione, in quanto l’elencazione operata dal T.U.F. degli strumenti finanziari deve essere riconosciuta come aperta ma subordinata all’integrazione normativa.
Accanto alla funzione di investimento, benché prive di potere solutorio ex lege, sovente le valute virtuali sono utilizzate come mezzo di pagamento o, comunque, di scambio, assolvendo così alle funzioni tipicamente e storicamente attribuite alla moneta. La consapevolezza da parte del legislatore europeo dell’ampio utilizzo delle valute virtuali quali mezzo di scambio ha indotto ad operare una modifica della definizione, che oggi espressamente prevede tale impiego delle criptovalute, attraverso la direttiva 2018/843/UE del 30 maggio 2018.
A fronte di situazioni in cui le autorità hanno riconosciuto alle valute virtuali la sola o prevalente funzione di scambio (Virtual currency schemes – A further analysis, Frankfurt am Main, 2015), ve ne sono altre in cui le criptocurrencies sono state riconosciute come monete alternative a quelle aventi corso legale (caso Skatteverket vs. David Edqvist, C-264/14) con enfatizzazione della loro funzione di mezzo di pagamento.
Talché, stante l’assenza di supporto materiale analogico, si potrebbe tentare di approssimativamente assimilare le valute virtuali alle monete elettroniche, valori monetari rappresentati da un credito nei confronti dell’emittente, memorizzati su un dispositivo elettronico, emessi dietro ricezione di fondi il cui valore non sia inferiore al valore monetario emesso ed accettati come mezzo di pagamento da imprese diverse dall’emittente (Art. 1, par. 3, lett. b) Direttiva 2000/46/CE). Tuttavia, dal semplice confronto con le disposizioni del T.U.B., emerge l’impraticabilità anche di un’equiparazione di questo tipo, in quanto le valute virtuali non sono emesse da un soggetto terzo rispetto alle parti, con funzione di garante e specificatamente autorizzato all’emissione di moneta. L’unico elemento in comune tra le due categorie è la loro caratteristica della conservazione con modalità elettroniche, non essendo possibile neppure riconoscere alle valute virtuali la convertibilità in valuta reale (necessaria per le monete elettroniche), limitata ai casi in cui siano convenzionalmente ammessi scambi bidirezionali.
Invero, ad un’attenta analisi, emergono varie criticità sulla stessa accostabilità alla moneta, posto che ordinariamente con il concetto di “moneta” si fa riferimento alle monete legali, nei cui confronti e sulla cui stabilità la collettività ripone fiducia. Seppur nel codice civile manchi una definizione di moneta, è possibile riconoscerne una delineazione nella dicotomia che si appalesa tra monete aventi corso legale e monete non aventi corso legale nello Stato di cui agli artt. 1277 e 1278 c.c., con la possibilità di ipotizzare la sussunzione delle criptovalute nella fattispecie astrattamente prevista da quest’ultima disposizione. A tal punto, però, è necessario verificare la sussistenza nelle cryptocurrencies dei requisiti che ogni moneta deve avere, ossia funzione di scambio, unità di conto e riserva di liquidità. Se per la prima caratteristica vale quanto finora detto, per le altre due è necessario tenere in considerazione che il valore delle valute virtuali, slegate da enti regolatori centrali, è estremamente volatile e che quindi l’impiego come unità di conto è poco preciso e come riserva di valore risulta altamente rischioso per conservazioni a lungo termine. Ne discende che un’assimilazione in tal senso sia ammissibile solo sotto un profilo funzionalistico, che vede la moneta in ciò che la moneta fa.
A ben vedere è proprio l’approccio funzionalistico l’unico ad essere compiutamente praticabile nel caso delle valute virtuali, la cui fluidità e duttilità poco si prestano ad un rigido inquadramento normativo, come rilevato, da ultimo, dal T.A.R. Lazio che, adito da due associazioni attive nel settore della blockchain in relazione alla formalizzazione dell’obbligo di monitoraggio fiscale su valute virtuali, tenta di svincolare la natura delle cryptocurrencies da un precostituito inquadramento giuridico, orientandosi su un’interpretazione concreta ed in divenire.
La pronuncia in questione (T.A.R. Lazio, sentenza 27 gennaio 2020 n. 1077), seppur emanata nell’ambito di un giudizio generale di legittimità, è carica di risvolti tributari in quanto, nel dichiarare che il trattamento fiscale dell’utilizzo delle criptovalute operi in forza della natura concreta delle operazioni poste in essere, in qualche modo supera le preesistenti operazioni ermeneutiche operate dall’Agenzia delle Entrate, offrendo una chiave di lettura più sostanziale che tuttavia non riesce, nella sua sfuggevolezza, a superare le criticità che si appalesano in ambito penale, anche con riferimento ai reati tributari, stante come i principi che regolano le norme incriminatrici non possono in alcun caso piegarsi ad interpretazioni estensive e mutevoli, essendo al contrario necessario che il legislatore operi una scelta univoca (DE VINCENTIIS, Valute virtuali: aterritorialità non è sinonimo di esenzione, in Rivista di Giurisprudenza Tributaria, n. 7/2020, pp. 648 ss).
Nel suo primo intervento in materia (Risoluzione 2 settembre 2016, n. 72/E), l’Agenzia delle Entrate, richiamando quanto già statuito dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella già citata sentenza 22 ottobre 2015 resa nella causa C-264/14, definiva le criptovalute come mezzo di pagamento, con la conseguente qualificazione dell’attività di cambio di valuta virtuale come prestazione di servizi a titolo oneroso, esente IVA ai sensi dell’art. 10, co. 1, n. 3) del D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633.
Assumere, però, che tale disposizione sia applicabile alle operazioni in valuta virtuale ha quale necessario corollario la sostanziale (e formale) equiparazione delle criptovalute alle valute estere ai fini impositivi, con un evidente superamento dell’interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia. Se la Corte si era limitata ad affermare il valore liberatorio convenzionale delle valute virtuali e quindi la loro funzione di pagamento, l’Agenzia delle Entrate si spinge sino ad equipararle a valute estere aventi corso forzoso, ritenendo quindi applicabili alle stesse i principi generali che regolano le operazioni aventi ad oggetto le monete tradizionali.
Un inquadramento in tal senso, accettabile in una fase di assenza totale di regolamentazione, si manifesta attualmente incompatibile con il tenore letterale della disciplina adottata dal legislatore prima europeo poi italiano che, elidendo la funzione di mezzo di pagamento, parla piuttosto di mezzo di scambio con finalità di investimento benché, di fatto, l’Amministrazione finanziaria prosegua secondo la sua impostazione.
Ed infatti nelle istruzioni relative al Modello di dichiarazione Redditi 2019 – PF, l’Agenzia espressamente prevede, sulla scorta dell’assimilazione delle valute virtuali a valute estere, la doverosità dell’indicazione delle valute virtuali detenute nel quadro RW della dichiarazione insieme alle altre attività estere di natura finanziaria.
In verità non può negarsi che l’obbligo dichiarativo, come da ultimo rilevato dal T.A.R. Lazio, non scaturisca dall’atto amministrativo, la cui natura ricognitiva è pressoché evidente, ma dal poco chiaro impianto legislativo e dall’interpretazione che l’Amministrazione fornisce di valute virtuali, cristallizzata nella risposta ad interpello n. 956-39/2018 nella quale, fra l’altro, si evidenzia come gli obblighi di monitoraggio fiscale, ordinariamente previsti per gli intermediari bancari e finanziari, debbano essere estesi, alla luce delle modifiche operate dalla normativa antiriciclaggio, anche ai cc.dd. operatori non finanziari che intervengano nei trasferimenti da o verso l’estero di mezzi di pagamento effettuati anche in valuta virtuale di importo pari o superiore a 15.000 euro e ciò in quanto l’art. 4 del D.L. 167/90, interpretato secondo i criteri dettati dalla circolare 23 dicembre 2013, n. 38/E, impone la compilazione del quadro RW non solo alle persone fisiche residenti che nel periodo d’imposta detengano investimenti all’estero e attività estere di natura finanziaria suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia ma anche a quelle che detengano in Italia attività finanziarie estere al di fuori del circuito degli intermediari residenti.
La rilevanza di detto intervento non si esaurisce nell’ambito del monitoraggio fiscale in quanto, nella medesima sede, la Direzione Regionale della Lombardia, superando quanto affermato nella Risoluzione 72/E, fornisce importanti chiarimenti sull’imposizione fiscale dei proventi derivanti da valute virtuali con riguardo alle persone fisiche. Ed infatti, se nel primo intervento l’Amministrazione negava che la cessione a pronti di valute virtuali integrasse finalità speculativa, nel tornare sul punto precisava come le operazioni di conversione tra valuta virtuale e valute fiat, effettuate fuori da regimi d’impresa, generino un reddito diverso tassabile in virtù di quanto previsto dall’art. 67 TUIR sia nel caso di cessione a termine che di cessione a pronti, al ricorrere delle condizioni richieste dalla norma.
Ne discende che plusvalenze e minusvalenze derivanti da cessione a pronti debbano essere inserite nel quadro RT e calcolate in base alla differenza intercorrente tra i corrispettivi percepiti durante il periodo d’imposta ed il prezzo di acquisto, mediante un criterio last in first out, laddove la giacenza, determinata con riferimento al cambio del 1° gennaio dell’anno in cui si realizza il presupposto impositivo, sia superiore ad euro 51.645,69 per almeno sette giorni lavorativi (ESCALAR, Il regime fiscale dei redditi delle criptovalute conseguiti dai privati, in Corriere Tributario, n. 10/2021, pp. 835 ss).
Nel caso delle cessioni a termine, che presuppongono uno specifico contratto finanziario, non sarà necessario per il riconoscimento della finalità speculativa, legislativamente presunta, che sia superata la soglia di giacenza, in quanto sarà sempre generato un reddito diverso di natura finanziaria imponibile ai sensi dell’art. 67, co. 1, lett. c-ter).
Se per quanto attiene alle persone fisiche, quindi, vale quanto sinora detto con le relative criticità, spostando l’attenzione sulle imprese commerciali che detengano valute virtuali al di fuori dell’ordinaria attività d’impresa, aderendo all’interpretazione dell’Agenzia delle Entrate, non può che concludersi che le valute debbano essere iscritte al fair value di fine esercizio nell’attivo circolante, con irragionevole immediata rilevanza delle oscillazioni di valore non realizzate; sembrerebbe però più convincente disattendere le posizioni assunte dalla prassi e aderire ad un inquadramento delle valute come attività immateriali - attualmente concesso alle imprese che utilizzino ai principi contabili internazionali - da iscrivere nel solo stato patrimoniale e non anche nel conto economico e dunque da valorizzarsi al prezzo di acquisto con irrilevanza delle oscillazioni di valore non effettive.
Ulteriore ipotesi di rilevanza fiscale è quella relativa alla produzione stessa delle unità di valuta, rimessa all’attività dei cc.dd. miners che, ponendo a disposizione della rete la loro capacità computazionale per la validazione degli scambi, ottengono nuove unità di conto e ricevono commissioni, c.d. fees. Tenendo in considerazione che con il passare del tempo la potenza richiesta per la validazione delle operazioni è andata via via crescendo e che, pertanto, sono attualmente necessari investimenti ingenti ed una certa organizzazione imprenditoriale per l’acquisto di hardware idonei allo scopo, può presuntivamente affermarsi che l’attività debba essere qualificata come commerciale.
Laddove, tuttavia, l’attività sia svolta da una persona fisica - circostanza che, allo stato, sembra possibile prevalentemente in caso di c.d. cloud mining - è necessario individuare delle soglie quali-quantitative per ricondurre il provento ad una o ad un’altra categoria reddituale, potendo in queste ipotesi essere avanzata l’idea di procedere analogicamente a quanto avviene nel settore del fotovoltaico, dove l’energia prodotta esuberante quella posta all’autoconsumo costituisce reddito derivante da attività commerciale non esercitata abitualmente; alternativamente, potrebbe utilizzarsi l’art. 67, comma 1, lett. d), in quanto l’aleatorietà del risultato dell’attività di mining consentirebbe di assimilare il risultato alle vincite di concorsi a premio e lotterie (SALVINI, La dimensione valutaria dell’economia digitale, in CARPENTIERI (a cura di), Profili fiscali dell’economia digitale, Torino, 2020, pp. 171 ss).
Infatti, se da una parte lo pseudoanonimato delle transazioni è teso a garantire la privacy degli utenti, dall’altra si presta ad assurgere a mezzo di occultamento e sviamento d’indagine, grazie alla sostanziale intracciabilità delle operazioni, che consentirebbe la realizzazione dei “crimini perfetti” (SOLMS, NACCHACHE, On blind signatures and perfect crimes, in Computer Security, n. 11, 1992, p. 583).
Ed in effetti la mancata riferibilità a persone fisiche o giuridiche rende le criptovalute strumenti appetibili per le associazioni criminose, in continua ricerca di mezzi atti a favorire il riciclaggio di denaro provento di attività illecite. E tanto perché la condotta dell’agente è difficilmente individuabile laddove si sottragga all’autorità la possibilità di controllare, verificare e ricostruire i passaggi di denaro e comunque i flussi che sottendono le fasi del programma di riciclaggio.
Nell’ambito del cyberalaundering è possibile distinguere tra riciclaggio digitale strumentale e riciclaggio digitale integrale: se nel primo la rete si configura come semplice veicolo nella fase di placement del denaro, nel secondo tutte le fasi che progressivamente integrano la fattispecie di riciclaggio si consumano online. In tale ultima ipotesi, e quindi laddove anche il reato presupposto sia commesso sulla rete, e non vi sia intermediazione di cambiavalute, sembrerebbe prima facie forzato ricondurre il fatto storico alla previsione di cui all’artt. 648ter.1 c.p., giacché ai fini della sussumibilità della condotta dell’agente nella disposizione de qua è necessario che le risorse derivanti dagli illeciti siano impiegate in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative.
Seppur vi sia chi in dottrina ha sostenuto che la potenzialità dissimulatoria sia di per sé elemento sufficiente a fondare l’accusa (STURZO, Bitcoin e riciclaggio, in Diritto penale contemporaneo, n. 5/2018, p. 26), in verità appare necessario operare una diversa analisi, appalesandosi inconferente con l’interpretazione giurisprudenziale ritenere che il mero collocamento del profitto del reato su blockchain possa integrare, in assenza di intermediazione di un cambiavalute, la condotta delittuosa in quanto sembrerebbe in tal caso venir meno la condotta punita dalla norma incriminatrice, non potendosi ritenere che le valute virtuali siano riconducibili alla definizione fornita di attività finanziaria dall’art. 106 T.U.B. (Cfr. Cass. Pen., Sez. II, 28 luglio 2016 n. 33076).
Peraltro, non può essere tralasciato come la fattispecie in esame sia costruita sullo schema del reato di pericolo concreto e che, pertanto, dovrà essere valutata in ogni caso dal giudice l’idoneità della condotta posta in essere dall’agente ad impedire l’identificazione della provenienza delittuosa dei beni.
Non è condivisibile, tuttavia, neppure quanto affermato da altra parte della dottrina (SICIGNANO, L’acquisto di bitcoin con denaro di provenienza illecita, in Archivio penale, n. 2/2020, pp. 13 ss.) secondo cui, posto che nella blockchain le transazioni sono perfettamente visibili e tracciabili, sul piano concreto risulterebbe difficile ipotizzare che il riciclaggio digitale integrale abbia una capacità dissimulatoria, in quanto ogni operazione è irrimediabilmente registrata sul web.
A ciò, infatti, deve obiettarsi come il sostanziale anonimato che caratterizza il registro distribuito non permette invero l’identificazione dei reali titolari dei rapporti consentendo così, quantomeno in astratto, di ravvisare un ostacolo all’identificazione della provenienza delittuosa delle utilità, siccome richiesto dall’art. 648ter.1 c.p., sebbene poi, come già detto, occorrerà una verifica in concreto circa la capacità dissimulatoria, sempre a condizione che venga operata un’interpretazione estensiva dell’art. 106 T.U.B..
Se queste sono le annose problematiche sotto un’ottica sostanzialistica, altra e più complicata questione è quella attinente ai profili più prettamente processuali, ed in particolare probatori.
Infatti, vi è una oggettiva difficoltà a livello dibattimentale di accertamento degli elementi circostanziali necessari per la ricostruzione del fatto storico, dunque di pervenire ad una pronuncia di responsabilità penale oltre ogni ragionevole dubbio. E tanto anche perché la pubblica accusa non riuscirebbe ad ottenere né spontaneamente né coattivamente, in assenza di un’autorità gestoria centralizzata, le informazioni idonee a ricostruire univocamente le operazioni e ad identificare i soggetti effettivamente titolari delle risorse economiche collocate su blockchain.
Altra questione di non secondaria importanza, poi, è quella attinente ai profili del sequestro e della successiva (eventuale) confisca. Infatti, atteso che il sequestro ha la finalità di inibire o sottrarre all’indagato o imputato la disponibilità di beni o risorse, sottoponendoli al controllo dell’autorità giudiziaria che, se del caso, nomina un custode per la loro eventuale conservazione, nel caso delle criptovalute il meccanismo di apprensione dei beni incorre in limiti non facilmente eludibili.
In particolare, va tenuto in debito conto come, superate le difficoltà di individuazione e riferibilità delle unità di valore all’indagato, appaia particolarmente macchinoso procedere effettivamente al materiale blocco e/o inibizione dei wallet, soprattutto di quelli offline, giacché non vi è allo stato la possibilità di ottenere la relativa chiave privata se non attraverso la collaborazione del soggetto sottoposto a sequestro, stante la mancanza di enti centrali che si piegherebbero all’imperatività della richiesta pubblicistica.
Tutto ciò, ovviamente, ove le indagini dell’autorità non abbiano sortito alcun risultato positivo in termini di rinvenimento, a seguito per esempio di perquisizione locale o personale, di private key, sia paper che hardware.
In ogni caso, anche qualora dovessero ottenersi le chiavi private, non si potrà cedere all’errore di ritenere perfezionata l’apprensione delle valute, in quanto è possibile che, accanto all’indagato, anche altri soggetti abbiano la disponibilità della chiave privata e possano così, in costanza di sequestro, movimentare i fondi sottraendoli all’autorità procedente, circostanza che, del resto, potrebbe verificarsi anche per mano dell’indagato stesso.
L’unica modalità per eseguire in sicurezza un sequestro di criptomoneta sarebbe dunque l’esecuzione di spostamenti di valuta su wallet creati ad hoc e a disposizione dell’autorità giudiziaria.
A tal punto, le autorità procedenti dovranno tenere in considerazione la possibilità di agire mediante la conversione della criptovaluta, procedendo così ad un sequestro per equivalente, in alternativa alla conservazione delle cryptocurrencies, che potranno essere mantenute sul wallet creato ad hoc o su exchange. Si tratta di una scelta di non poco conto, soprattutto con riferimento agli oneri di custodia e conservazione che deriverebbero dalla seconda ipotesi.
L’applicazione di disposizioni in via analogica e le interpretazioni estensive giurisprudenziali, oltre che i documenti di prassi, se da una parte mitigano le perniciose conseguenze del vulnus legislativo, dall’altra rischiano di ritardare un intervento organico, ingenerando non poca confusione anche a causa della frequente contraddittorietà.
Le disposizioni in materia sono confinate nella disciplina antiriciclaggio e di monitoraggio fiscale, risultando incomplete, specifiche e poco idonee ad un’ampia applicazione. Del resto, sono gli stessi interventi dell’Amministrazione finanziaria a porsi in contrasto con il dato normativo e ciò in quanto la definizione legislativa mal si attaglia a garantire il gettito fiscale ed il controllo statuale, con la conseguenza che l’esigenza di una disciplina, considerate anche le criticità che sorgono in ambito penale, sembrerebbe quindi estendersi ad ogni campo del diritto.