argomento: IRES - Giurisprudenza
L’ordinanza della Corte di Cassazione in commento ripercorre il consolidato orientamento giurisprudenziale sull’inerenza dei costi infragruppo, soffermandosi sulla deducibilità delle royalties per l’uso di un marchio in un mercato B2B. La pronuncia valorizza la progettualità del gruppo e il mercato di riferimento, pur collegando l’inerenza alla nozione di redditività di lungo termine.
» visualizza: il documento ()PAROLE CHIAVE: marchio - inerenza - costi infragruppo
di Silvia Giorgi
Nella concreta fattispecie, la società accertata aveva dedotto i costi relativi all’utilizzo del marchio, pur non avendolo direttamente apposto sui prodotti medicali realizzati per conto di operatori del settore farmaceutico. Il giudice di merito aveva, quindi, rilevato il ruolo della contribuente quale produttore di servizi in un mercato di riferimento business to business: si era, quindi, avvantaggiata degli standard di qualità sottesi al marchio utilizzato, senza alcuna necessità di apporlo sui prodotti finali commercializzati a valle dalle case farmaceutiche nel mercato business to consumer.
La Corte, in particolare, ha valorizzato alcuni elementi richiamati diffusamente dal giudice di merito con riferimento all’utilità della spendita del marchio, evidenziata da uno studio di consulenza prodotto dalla società: in primo luogo, l’ impatto sulla riduzione di rischi in quanto, anche nel mercato business to business il marchio è garanzia di qualità, con registrazione e tutele in ambito europeo ed internazionale; in secondo luogo, negoziazione ed acquisto vengono favoriti, differenziando le offerte industriali, in un mercato che non può che essere competitivo, dovendo, comunque, il fornitore dimostrare punti di forza e qualità per convincere le imprese acquirenti (ossia le case farmaceutiche) a selezionarlo rispetto ad eventuali concorrenti. Sulla base di tali premesse, la società aveva, peraltro, dimostrato attraverso una specifica analisi dei vantaggi qualitativi e quantitativi, il valore aggiunto derivante dagli standard sottesi alla spendita del marchio utilizzato, anche se non apposto sui prodotti finali, coerentemente con la natura di marchio di servizi e non già di marchio di prodotti.
Progressivamente e storicamente, il contenuto del principio si è evoluto: dapprima, inteso restrittivamente, quale rigoroso collegamento – se non immedesimazione - della componente negativa ai ricavi, e, dunque, ai beni o servizi prodotti. Ha, poi, subito una trasformazione fino ad includere tutte le spese necessarie alla produzione di reddito, approdando, da ultimo, alla sostituzione del nesso costo - bene con quello costo - attività d’impresa.
L’inerenza si è, quindi, emancipata dalla riferibilità delle spese alla produzione di reddito, essendo sufficiente la sola riferibilità delle spese all’attività d’impresa, attraverso una revisione critica del concetto di necessarietà della spesa. La giurisprudenza, ha quindi, sposato da oltre un decennio il principio per cui l’inerenza esprime la “relazione tra due concetti – la spesa e l’impresa” tale per cui “il costo assume rilevanza ai fini della quantificazione della base imponibile, non tanto per la sua esplicita e diretta connessione ad una precisa componente di reddito, bensì in virtù della sua correlazione con un’attività potenzialmente idonea a produrre utili” (Corte di cassazione, 21 gennaio 2009, n. 1465).
Nella valorizzazione del ruolo del programma imprenditoriale, l’inerenza deve apprezzarsi in relazioni a scelte complementari o integrative rispetto all’attività programmata e/o idonea a soddisfare le esigenze emerse nell’attività stessa, non necessariamente in termini di rimuneratività ma anche mera funzionalità (FICARI, Reddito d’impresa e programma imprenditoriale, Padova, 2004, p. 188).
Il nesso funzionale, peraltro, lungi dal rilevare in un giudizio di inevitabilità del comportamento si traduce nell’idoneità a soddisfare l’interesse dell’impresa alla realizzazione di un programma economico, fermo restando che la valutazione non deve fondarsi né sulla sussistenza di operazioni attive o proventi imponibili, né sulla valutazione di stretta necessità della spesa, la quale ben potrebbe essere voluttuaria e finanche superflua se finalizzata all’acquisto di un bene o servizio destinato ad essere utilizzato esclusivamente nell’attività economica. Da, ultimo, la giurisprudenza si è spinta a svalutare ogni riferimento all’interesse (Cassazione 11 gennaio 2018, ordinanza n. 450; in dottrina VICINI RONCHETTI, Inerenza nel reddito d’impresa: riflessioni sull’evoluzione della giurisprudenza di legittimità, in Riv. dir. trib., 2019, 5, p. 551), ritenendo che i componenti negativi di reddito non sono fiscalmente deducibili nella misura in cui arrecano “utilità” per l’impresa ma sulla base di una più complessa disamina del costo alla luce del complessivo programma imprenditoriale.
Pur non essendo stata dimostrata l’effettiva incidenza sull’incremento di ricavi, la Corte ritiene che sia sufficiente la “mera prevedibilità della realizzazione di utili”, non necessariamente nell’immediato, attraverso un meccanismo di “prognosi postuma”.
Il riferimento al criterio penalistico che allude ad una valutazione di idoneità ex ante ma in concreto è quanto mai opportuno, giacché, con precipuo riferimento ai costi per la produzione di beni immateriali, l’impraticabilità della valutazione ex post è confermata dalla deducibilità dei costi per studi e ricerche ex art. 108 T.U.I.R..
In seguito alle modifiche apportate dall’art. 13 bis, co. 2°, lett. c) del d.l. 244/2016 (art. 108, co. 1°), tali costi sono deducibili nel limite della quota imputabile a ciascun esercizio, mentre, ex art. 108 co. 3° T.U.I.R., qualora diano vita all’acquisto di beni, il relativo ammortamento dovrà essere diminuito dei costi per studi e ricerche già dedotti. Da ciò si desume che, qualora le attività di studio e ricerca confluiscano nella realizzazione di un bene immateriale, si impone il raccordo fra i costi precedentemente dedotti – quando ancora il risultato “latitava” – e quelli relativi all’acquisto del bene.
Se, invece, detta attività non confluisce in alcun risultato utile, non potrà, comunque, essere disconosciuta la deducibilità dei costi per difetto di inerenza sulla base di una valutazione ex post, là dove, con il giudizio di prognosi postuma di cui sopra, le attività di studio e ricerca intraprese fossero coerenti con il programma imprenditoriale e, dunque, ex ante idonee, sulla base delle circostanze del contesto concreto, a produrre utilità.
La stessa giurisprudenza ha avallato tale conclusione, precisando che le spese per l’attività di ricerca e sperimentazione possono essere pienamente dedotte anche allorquando abbiano condotto alla realizzazione di un prodotto fallimentare e, quindi, non commerciabile (cfr. Cass. 23 ottobre 2006, n. 22786, in Il Fisco, 2006, p. 7181).
A tal fine, viene confermato l’iter logico seguito dal giudice di merito che aveva mutuato la locuzione di matrice penale, della c.d. “prognosi postuma”, ossia una valutazione ex ante ed in concreto (così come prospettato da GIORGI, I beni immateriali nel sistema del reddito di impresa, Torino 2020, p. 171): la prospettiva di incremento della redditività deve, quindi, apprezzarsi collocandosi idealmente nella posizione dell’impresa nel momento in cui pone in essere l’atto giuridico rilevante finalizzato al sostenimento del costo e in ragione di tutte le circostanze del caso concreto. La Corte afferra, quindi, il momento in cui il sindacato di inerenza può efficacemente dispiegarsi e valorizza le circostanze concrete sintomatiche del futuro conseguimento di un vantaggio economico. Manca, forse, l’ultimo slancio per la lettura dell’utilità (anche nei rapporti infragruppo) non più in termini di necessario incremento di redditività – attuale o potenziale che sia – ma di mera coerenza con il programma d’impresa della controllata e del gruppo nel suo insieme.
La sentenza coglie, insomma, il momento ma non lo cavalca, soffocando in parte l’innovatività della conclusione, opportunamente incentrata sull’obiettivo del gruppo nel suo complesso (l’operazione di outsourcing) e sul mercato di riferimento.
Vero che il giudizio di inerenza deve effettuarsi ex ante e in concreto, ma deve investire l’attitudine del comportamento d’impresa a soddisfare l’interesse o il programma della controllata e del gruppo, perdendo ogni rilevanza sia l’effettivo conseguimento di ricavi, sia di qualsivoglia altra utilità accertabile solo ex post.
Un ulteriore elemento - su cui la Corte non si è soffermata esplicitamente pur analizzando diversi elementi sintomatici del progetto d’impresa - è il parametro di “oggettivizzazione” del programma imprenditoriale che, dalla “mente” degli ideatori, deve necessariamente estrinsecarsi in elementi oggettivamente apprezzabili (e documentabili). Tale oggettivizzazione del programma non deve essere appiattita al parametro di una astratta “normalità” economica, giacché il rischio è quello di considerare “inerente” solo quella spesa che l’imprenditore modello avrebbe sostenuto secondo l’id quod plerumque accidit. Il che si rivela particolarmente insoddisfacente apprezzando l’inerenza per i beni immateriali (in particolare, il riferimento più che al marchio è ai beni immateriali innovativi), in quanto proprio l’impresa originale e intraprendente potrebbe pionieristicamente sostenere costi che fuoriescono dal circuito della normalità dei più.