argomento: IRES - Legislazione e prassi
Il presente lavoro esamina l’evoluzione ed i possibili spunti di riforma della sanzionabilità tributaria dell’amministratore di fatto all’interno dell’attuale quadro normativo, soffermandosi sulle criticità principali rilevate negli ultimi anni dalla dottrina e dalla giurisprudenza.
PAROLE CHIAVE: amministratore di fatto - schermo societario - sanzioni
di Francesco Paolo Schiavone
La nozione di amministratore di fatto è ricavabile attraverso una lettura orientata del primo comma dell’art. 2639 del codice civile, che recita: “Per i reati previsti dal presente titolo al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge civile è equiparato sia chi è tenuto a svolgere la stessa funzione, diversamente qualificata, sia chi esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione.”
Quest’ultimo soggetto infatti, pur non essendo stato investito formalmente della carica di amministratore della società, svolge in modo continuativo attività di tipo gestorio, esercitando i poteri relativi alle funzioni dell’amministratore di diritto.
La conseguenza principale del riconoscimento della figura dell’amministratore di fatto consiste proprio nel suo assoggettamento al rispetto dei doveri previsti dall’ordinamento e la violazione di tali prescrizioni determina la configurabilità di una fattispecie autonoma di responsabilità di matrice civilistica.
In tali casi si possono rilevare obblighi risarcitori non solo nei confronti della stessa società ma anche nei riguardi dei soci, dei creditori sociali e del singolo socio o terzo, ai sensi degli articoli 2392, 2393-bis, 2394 e 2395 c.c [Montalenti – Riganti, La responsabilità degli amministratori di società per azioni, Giur. Comm., fascicolo 5/2017, 775. Per considerazioni di più ampio respiro internazionale si rimanda a Passador, Modelli di amministrazione e controllo: Il caso del Giappone, Riv. soc., fasc.1/ 2016, 194 ss., ove l’Autrice osserva che i modelli di governance triale ed ibridi propri del Giappone siano assimilabili, per taluni aspetti, al sistema italiano ed a quello portoghese.]
La riferibilità sanzionatoria in capo all’amministratore di fatto, pertanto, non esclude quella dell’amministratore di diritto, potendosi riscontrare in capo a quest’ultimo la violazione, autonoma o in concorso, dei generali obblighi di vigilanza e controllo sulla gestione societaria.
Dunque in ragione di tali assunti è possibile asserire la piena codificazione del cd. principio funzionalistico, in virtù del quale, ai fini dell’individuazione del reale detentore del potere amministrativo di una società, non rileva soltanto l’investitura formale, ma altresì l’effettiva assunzione ed esercizio delle funzioni gestorie.
Non a caso il fine ultimo del Legislatore italiano era orientato verso la logica di concreta applicabilità della sanzione, comminabile nei confronti del reale responsabile delle violazioni contestate e non nei confronti di meri “prestanome”.
Infatti quest’ultimo in alcuni casi può risultare del tutto estromesso dalla gestione societaria, pur rispondendo di un reato contestato in aggiunta a colui che ha realmente amministrato la società proprio per aver accettato tale investitura, assumendosi il rischio della commissione di violazioni.
Peraltro, i concetti di continuità e significatività riportati all’interno del dettato normativo di cui all’art. 2639 c.c. risultano astratti e vaghi; pertanto risulta ragionevolmente difficoltoso per l’interprete delineare un elenco tassativo in cui la qualifica di amministratore di fatto sia a tutti gli effetti pacifica.
Volendo procedere con ordine va ricordato che il criterio della continuità si occupa specificamente dell’analisi inerente gli aspetti strettamente quantitativi e temporali di gestione societaria, dovendo trovare necessaria collocazione all’interno di attività sistematiche.
Invece il requisito della significatività consente di indagare l’attività tipicamente svolta dagli amministratori o dai direttori generali, connotata dai caratteri dell’autonomia decisionale, ovvero della concreta assunzione delle decisioni strategiche, organizzative e commerciali.
Da ciò discende l’evidente difficoltà nell’attribuzione della qualifica di amministratore di fatto a chi si limiti a svolgere mansioni meramente esecutive, attribuibili ad un lavoratore dipendente.
A titolo esemplificativo si richiamano mere ipotesi di qualificazione dell’amministratore di fatto: soggetti che avevano provveduto in prima persona a sottoscrivere contratti in nome e per conto della società o che risultavano detentori di documentazione direttamente riferibile alla stessa; parimenti, è risultato dirimente il fatto che un soggetto curasse i rapporti con clienti e fornitori, impartendo direttive ai dipendenti, delegando terzi al prelievo da conto in banca; infine casi in cui il soggetto era presente alla verifica fiscale, sottoscrivendo i relativi verbali di constatazione. [Tale casistica è direttamente riconducibile ad alcune rilevanti sentenze, quali: Cass., sez. III pen., 18 marzo 2016, n. 10974; Cass., sez. III pen., 14 aprile 2015, n. 15236; Cass., sez. III pen., 29 agosto 2012, n. 33385; Cass., sez. III pen., 21 giugno 2011, n. 24811; Cass., sez. III pen., 4 ottobre 2011, n. 35864; Cass., sez. III pen., 5 novembre 1999, n. 12568.]
In chiave riassuntiva la riconduzione a tale figura risulta riferibile a casi di puro disbrigo di pratiche amministrative inerenti la società, il coordinamento produttivo o le attività commerciali riguardanti una parte della clientela.
Dunque emerge in maniera piuttosto lineare che al fine di ottenere la qualifica di amministratore di fatto sia necessario un quid pluris rispetto al mero svolgimento di mansioni aziendali, circoscritte appunto alla reale titolarità degli indirizzi della gestione e delle scelte strategiche dell’impresa. [Cass., sez. III pen., 27 maggio 2015, n. 22108.]
Sul punto anche la giurisprudenza penale è intervenuta nel corso degli anni, cercando di qualificare e raccordare al meglio l’ambito di operatività di tale figura.
Nello specifico la Corte di Cassazione penale, terza sezione, con la sentenza n. 22108 del 19 dicembre 2014, ha escluso categoricamente la necessità di un esercizio di tutti i poteri attribuiti dalla legge agli amministratori, ritenendo sufficiente il compimento di quelle attività rientranti nel nucleo essenziale di questi ultimi, al fine di poter qualificare un soggetto come amministratore di fatto.
Ciò ha rappresentato sicuramente per gli interpreti del settore un importante “monolite giurisprudenziale”, consentendo di poter evitare erronee valutazioni in termini dogmatici ed applicativi.
Si rammenta inoltre che l’ingerenza nella gestione della società possa avvenire sia in via diretta, attraverso lo svolgimento in prima persona delle attività di amministrazione, sia in via indiretta, ricorrendo ad una serie di direttive impartite a coloro che risultino investiti di qualifiche formali, strettamente correlate alle attività richiamate.
In tali casi è possibile osservare come siano proprio gli amministratori di diritto, in quanto formalmente investiti della carica, a tramutarsi sic et simpliciter in “strumenti” attuativi della volontà dell’amministratore di fatto, subendo quindi una vera e propria eterodirezione.
A tal punto ci si potrebbe domandare, in una prospettiva di indagine più ampia, se possa essere data rilevanza, ai fini dell’attribuzione di suddetta qualifica, alla destinazione dei risultati dell’attività economica.
Nello specifico ci si chiede quali possano essere le possibili conseguenze dell’emersione di risultanze derivanti da indagini bancarie o da altri elementi probanti, ove la persona dell’amministratore di fatto si sia appropriata ad esempio di utili occultati al fisco, ipotizzando quindi che il soggetto gestisse di fatto l’attività della società.
Sul punto la dottrina non ha mancato di osservare che la reale disponibilità degli utili occultati farebbe assumere al soggetto in questione la qualifica di socio occulto, più che di amministratore di fatto occulto. [Cfr. al riguardo briolini, Verso una nuova disciplina delle distribuzioni di netto, Riv. soc., fascicolo n. 1/2016, 64 ss.; Fimmanò, Abuso di direzione, coordinamento e tutela dei creditori delle società abusate, Riv. not., fascicolo n. 2/2012, 267 ss.]
Tali considerazioni fanno il paio con il diverso margine valutativo concesso agli elementi probatori offerti in sede processuale penale e tributaria.
Infatti le prove fornite in sede penale, per dimostrare la qualità di reale gestore della società in capo ad un soggetto, consistono per la maggior parte in dichiarazioni testimoniali, movimentazioni bancarie, documenti o contratti firmati in nome e per conto della società, detenzione di materiale a questa direttamente riferibile.
Diversamente in sede tributaria il giudice, di regola, è chiamato a fondare il proprio convincimento sulle risultanze del processo verbale di constatazione, redatto a seguito di verifiche fiscali e/o attività ispettive.
Nonostante l’art. 2639 c.c. sia inserito all’interno del titolo relativo ai reati societari, si è osservato in sede giurisprudenziale civile e penale che tale norma trovi applicazione altresì rispetto ai reati ed alle violazioni di natura amministrativa-tributaria.
Come osservato in precedenza, il complesso normativo del sistema sanzionatorio tributario è rappresentato dal d.lgs. n. 472/1997, con le successive modifiche del d.lgs. n. 158/2015, ove si rinviene la riferibilità in capo alla persona fisica delle conseguenze derivanti dalle violazioni commesse da parte della persona giuridica.
In linea di raccordo con tale premessa va posto l’accento su due importanti norme contenute all’interno del decreto in questione, ossia gli artt. 2 ed 11, che si propongono come “cuore pulsante” dell’impalcatura normativa.
L’art. 2 del d.lgs. n. 472/1997 statuisce la sanzionabilità in capo alla persona fisica che ha posto in essere materialmente l’illecito, mentre l’art. 11 sancisce un’ipotesi di coobbligazione solidale al pagamento della sanzione, laddove la violazione sia commessa nell’esercizio delle funzioni di dipendente, rappresentante o amministratore, anche di fatto, di una società in favore di quest’ultima.
Pertanto da ciò deriva che il d.lgs. n. 472/1997 separa inequivocabilmente la figura del trasgressore da quella del contribuente, in quanto nella prima ipotesi risulta direttamente riferibile la sanzione tributaria, contestata ed irrogata secondo le norme inerenti la colpevolezza; nel secondo caso la sanzione è prevista solo in virtù del vincolo di solidarietà di derivazione legale, in un’ottica di tutela del credito erariale. [Sui profili inerenti il credito erariale e l’interesse fiscale ex multis Gallo, Le ragioni del Fisco, Bologna, 2008; De Mita, Fisco e costituzione, Milano, 2003; Boria, L’interesse fiscale, Torino, 2000; Piciocchi, Alcune considerazioni sull’indisponibilità dell’obbligazione tributaria nell’ordinamento delle autonomie locali, Riv. giu. trib., 2005, 668; Selicato, L’attuazione del tributo nel procedimento amministrativo, Milano, 2001; Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, Milano, 2008.]
Tuttavia tale impostazione ha subito alcune modifiche al momento dell’emanazione del d.l. n. 269/2003, coordinato successivamente con la legge di conversione n. 326/2003, il cui art. 7 ha espressamente previsto che «le sanzioni amministrative relative al rapporto fiscale proprio di società o enti con personalità giuridica sono esclusivamente a carico della persona giuridica».
Si ritiene però che tali modifiche siano state parziali, proprio poiché hanno comportato riflessi significativi soltanto in alcuni settori dell’ordinamento giuridico interno, ossia quelli inerenti le società a base capitalistica.
Inoltre si osserva che tale norma sia applicabile esclusivamente alle violazioni per le quali, alla data di entrata in vigore del decreto (i.e. 2 ottobre 2003), non vi era ancora stata contestazione o irrogazione di sanzioni, nel rispetto del principio di irretroattività della norma tributaria.
Pertanto tale intervento del Legislatore ha dato vita ad un vero e proprio doppio binario nella responsabilità sanzionatoria amministrativa: [Calzolari, La lunga marcia per il riconoscimento del ne bis in idem nell’ordinamento tributario italiano, Riv. dir. trib. – Suppl. online, Pisa, 2020; F. Amatucci, Doppio binario e “connessione sufficiente” tra procedimento tributario e penale, Riv. trim. dir. trib., Fascicolo n. 2/2017; Viganò, La Grande Camera della Corte di Strasburgo su ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio, Dir. pen. cont., 18 novembre 2016; Pistolesi, Il principio del ne bis in idem nella camera dialettica fra la Corte costituzionale, i giudici italiani e le Corti europee, Rass. trib., 2018, 513-515; Marcheselli, Tempo di pensione per il doppio binario sanzionatorio tributario, Ipsoa Quotidiano, 18.9.2014.] per le società ed enti dotati di personalità giuridica la sanzione può essere irrogata soltanto nei confronti di quest’ultima e non della persona fisica, che materialmente ha posto in essere le condotte sanzionate.
Al contrario, per le società ed enti che difettano di personalità giuridica, si ritiene applicabile l’originario principio personalistico, in forza del quale il responsabile della violazione coincida con l’effettivo trasgressore, ossia la persona fisica che ha agito per conto della società.
Secondo l’Amministrazione Finanziaria, peraltro, l’art. 7 dovrebbe essere letto alla luce dell’art. 2, lett. l, della legge delega 7 aprile n. 80/2003, che ha affermato il principio secondo cui la sanzione fiscale si deve concentrare sul soggetto che ha tratto effettivo e reale beneficio dalla violazione.
Sul concetto di beneficio economico, la giurisprudenza maggioritaria ha sostenuto che il criterio del vantaggio od interesse della persona fisica, rispetto ad una certa condotta, abbia una connotazione essenzialmente oggettiva, dunque valutabile ex post, in base agli effetti derivanti dalla realizzazione dell'illecito ed indipendentemente dalla finalizzazione originaria della violazione posta in essere.
Quanto evidenziato va inteso come potenziale o effettiva utilità e pertanto potrebbe non presentare solamente i connotati della patrimonialità. [Sentenze della Cass. civ. sez. trib., 09/10/2020, n.21790; Cass. civ. sez. trib., 22/05/2020, n. 9450; Cass. civ. sez. trib., 22/05/2020, n. 9449; Cass. civ. sez. trib., 22/05/2020, n. 9451; Cass. civ. sez. trib., 22/05/2020, n. 9448; Cass. civ. sez. trib., 11/03/2015, n. 4854.]
Si evince altresì dal sostrato giurisprudenziale, rispetto alla precipua differenza tra trasgressore e contribuente, che mentre quest’ultimo può risultare estraneo alle conseguenze dell’illecito, dall’altro lato il trasgressore, vedrà nei suoi confronti l’indirizzarsi della risposta sanzionatoria, ove emergano le necessarie evidenze probatorie. [Del Federico, Disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie, in AA.VV., Commento agli interventi di riforma tributaria, a cura di Miccinesi, Padova, 1999, 1065-1066, secondo cui “la delega opta decisamente per la concezione punitiva delle sanzioni amministrative tributarie”; Marzo, Sanzioni tributarie a carico di società, tra punti fermi e questioni aperte, Nuovo not. giur. 2020, n. 1, 31 ss.]
Ciò dunque comporterebbe, in virtù del dettato normativo contenuto all’interno del suddetto art. 7, l’esclusione dell’imputabilità dell’autore materiale della violazione tributaria, qualora sia provato che questi non abbia tratto effettivo beneficio dalla violazione medesima. [Cinquemani, L’attività sanzionatoria dell’amministrazione finanziaria, Milano, 2008. Si rileva che tale impostazione sia stata condivisa anche da alcuni giudici di merito al fine stabilire la corretta sanzionabilità della persona fisica. Essi preliminarmente hanno valutato se la stessa avesse avuto un ruolo attivo, di ispirazione della condotta illecita, e se, inoltre, avesse tratto un effettivo e personale beneficio dalla violazione contestata.]
Riguardo tale questione, si può osservare che la norma sanzionatoria vada sempre interpretata alla luce del principio di tassatività, in modo da non espandere l’area della sanzionabilità oltre le ipotesi espressamente previste dalla legge.
Nondimeno va posto l’accento sul principio di legalità, che informa sia il diritto penale sia il sistema sanzionatorio tributario, in virtù del quale spetta al Legislatore la corretta determinazione delle fattispecie considerate potenzialmente perseguibili.
Infatti i corollari imprescindibili del principio di legalità sono rappresentati proprio dal principio di tassatività e dal divieto di analogia, il cui fine è quello di scongiurare l’ampliamento o la creazione di fattispecie punitive in sede giurisdizionale, riferendosi inoltre alle disposizioni sanzionatorie tributarie, in virtù della previsione della riserva di legge.
Dunque è sempre doveroso rispettare la ratio legis delineata dal Legislatore, onde evitare che l’impatto giurisprudenziale possa addirittura sovrapporsi o sostituire l’impalcatura normativa del sistema sanzionatorio tributario. [Sul tema del beneficiario della sanzione si v. in giurisprudenza Cass. Pen., Sez. III, 15.07.2019, n. 42147, Cass. Pen., Sez. III, 27.11.2013, n. 47110, Cass. Civ., Sez. Trib., 06.10.2020, n. 21390, Cass. Civ., Sez. Trib., 06.10.2020, n. 21390, Cass. civ., Sez. Trib, 25.10.2017, n. 25284.]
Nel corso degli ultimi anni l’Amministrazione Finanziaria ha tentato di circoscrivere la portata applicativa dell’art. 7 del d.lgs. n. 269/2003 [Sul punto si rinvia alla Circolare n. 28/E del 21 giugno 2004, avente ad oggetto il decreto legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito dalla legge 24 novembre 2003, n. 326 – Primi chiarimenti.
Alle pp. 14-17 l’Agenzia delle Entrate ha osservato che: “La nuova disposizione riguarda, dunque, solo gli amministratori, i dipendenti ed i rappresentanti di società, associazioni od enti con personalità giuridica.
Ne consegue che per i soggetti diversi da quelli appena richiamati, la responsabilità continua ad essere riferita alla persona che ha commesso la violazione, ferma restando la responsabilità solidale del soggetto nel cui interesse è stata commessa - se diverso dall’autore della violazione stessa – ai sensi dell’articolo 11 del d.lgs. n. 472 del 1997.], sostenendo che la norma non possa riguardare soggetti estranei alla società, ma solo le cd. figure interne, quali manager, dipendenti e funzionari esecutivi, non essendo stato abrogato l’istituto del concorso di persone nel reato ex art. 9 del d.lgs. n. 472/1997. [In dottrina cfr. Di Siena, Sulla fluidità della personalità giuridica in materia sanzionatoria amministrativa secondo la Corte di Cassazione, Riv. dir. trib., Pisa, 2019.]
A tale ricostruzione possono tuttavia essere mosse alcune osservazioni critiche.
Gli amministratori di fatto sono equiparati, ai sensi dell’art. 2639 c.c., agli amministratori di diritto, determinando la piena applicabilità di tutte le disposizioni compatibili.
Dunque, se per le violazioni tributarie relative agli obblighi delle società di capitali rispondessero soltanto le società stesse, e non i propri amministratori, non sembrerebbe poi agevole né plausibile distinguere a seconda dell’esistenza di una nomina formale (amministratore di diritto) o dello svolgimento in concreto della funzione, come nel caso dell’amministratore di fatto.
Inoltre se si pretende di far valere, come proponeva l’Amministrazione Finanziaria, il principio della punibilità di chi ha tratto beneficio dall’illecito, diviene difficile ritenere ragionevole che i destinatari della sanzione, a titolo di concorso, possano essere persone esterne alla società, in quanto questi ultimi, a ben vedere, non trarrebbero alcun vantaggio dalla violazione contestata.
In tal guisa, seppur si ottenessero benefici di qualsivoglia specie, come il semplice onorario di un consulente, si tratterebbe di una remunerazione non commisurabile ad imposte oggetto di evasione.
Volendo invece operare una lettura meno angusta dell’art. 7 del d.l. n. 269/2003, interpretando in maniera più garantista il dato letterale, si potrebbe far discendere dalla norma l’impossibilità di imputare le sanzioni amministrative in capo a consulenti e terzi. [Fanelli, Sanzioni fiscali, previdenziali e societarie, Ipsoa, Milano, 2012, 11; Valente – Caraccioli, Responsabilità del professionista e sanzioni tributarie: Criticità, Il Fisco, n. 14/2015, 1351 ss.]
Parte della dottrina ha condiviso tale orientamento, ritenendo esclusa la configurabilità del concorso di cui all’art. 9 del d.lgs. n. 472/1997, in forza del fatto che l’art. 7 del d.l. n. 269/2003 sancisce espressamente l’esclusiva responsabilità della persona giuridica, non lasciando spazio ad un coinvolgimento di soggetti terzi quali consulenti o amministratori di fatto.
Inoltre, soffermandoci sullo stretto rapporto intercorrente tra l’art. 7 del d.l. n. 269/2003 e l’art. 11 del d.lgs. n. 472/1997, appaiono necessarie alcune precisazioni.
L’art. 7, pur non intervenendo formalmente sull’art. 11 del d.lgs. n. 472/1997, ha realizzato una successione di norme prevedendo che le sanzioni amministrative, relative al rapporto fiscale proprio di società o enti con personalità giuridica, siano esclusivamente a carico della persona giuridica stessa, come indicato al comma 1, ferma restando l’applicabilità delle disposizioni del d.lgs. 472/1997 laddove compatibili.
L’applicazione della norma eccezionale, di cui al citato art. 7 d.l. 269/2003, presuppone però che la persona fisica, autrice della violazione, abbia agito nell’interesse ed a beneficio della società, dotata di personalità giuridica rappresentata o amministrata.
Ciò in quanto solo la ricorrenza di tale condizione comporta che la sanzione pecuniaria, in deroga all’invocato principio personalistico delle sanzioni, non colpisca l'autore materiale della violazione, ma sia posta a carico, in via esclusiva, del diverso soggetto giuridico, effettivo beneficiario delle violazioni tributarie commesse dal proprio rappresentante o amministratore di diritto o di fatto.
In tal modo è possibile affermare che le conclusioni giurisprudenziali esplicitate sinora siano foriere di incertezze: la sanzionabilità amministrativa della persona giuridica non sarebbe più la regola ma un’eccezione di ordine sistematico, destinata a divenire recessiva laddove la personalità giuridica si riveli una mera fictio.
Conclusivamente va sottolineato come il menzionato art. 7 intenda regolamentare le ipotesi in cui vi sia una differenza tra trasgressore e contribuente (di cui abbiamo indicato nel presente paragrafo i tratti peculiari), nello specifico il caso in cui un amministratore di una persona giuridica ponga in essere violazioni nell'interesse della persona giuridica medesima.
Per converso la stessa norma non opera nell’ipotesi in cui la persona fisica sia contemporaneamente trasgressore e contribuente, ove la persona giuridica sia stata creata e sia operante nel solo interesse della persona fisica. [Sul tema si vedano la sentenza della Corte di Cass. civ. sez. VI n. 17516/2021 e l’ordinanza della Corte di Cass. n. 9949/2020.]
Questa conclusione appare in linea di massima condivisibile, anche se ipotizzare una ragionevole soluzione di compromesso, rispetto alle tesi più vicine agli interessi erariali, potrebbe condurre verso la propensione a sanzionare l’amministratore di fatto proprio nei casi in cui si riveli un mero schermo fittizio interposto a fini evasivi.
Si tratta in effetti di una posizione tesa comprensibilmente a contrastare gli abusi dello strumento societario. [Dorigo, Persone giuridiche e sanzioni amministrative tributarie, Dir. prat. trib., 2018, 1112-1114; Ronco, Limiti alla riferibilità della sanzione alla persona giuridica, principio del beneficio e rilievo dell'autore materiale, Riv. dir. trib., 2018, 591 ss.; Murciano, La «nuova» responsabilità amministrativa tributaria delle società e enti dotati di personalità giuridica: l'art. 7 del D.L. n. 269/2003, Riv. dir. trib., 2004, 657 ss.]
Pertanto si ritiene ragionevole approfondire dettagliatamente i profili probatori inerenti il tema sviluppato.
A tal punto della disamina appare necessario distinguere il caso in cui ci si trovi dinanzi ad una società realmente operante, con una propria attività e patrimonio, che commette violazioni tributarie, dall’ipotesi in cui un soggetto ricorra all’interposizione di schemi societari fittizi.
Tale situazione appare configurabile ove venga creato un mero centro di imputazione di rapporti giuridici al solo fine di perpetrare comportamenti scorretti, senza sopportare conseguenze e rischi sanzionatori.
Dunque sarebbe corretto profilare un’ipotesi di responsabilità incombente su tali soggetti, non già in veste di amministratori di fatto dello schermo giuridico, bensì come veri autori delle violazioni.
Si evince che, secondo l’attuale impostazione giurisprudenziale, la responsabilità dell’amministratore di fatto di società o di enti, cui è attribuita personalità giuridica, non trovi il proprio fondamento normativo all’interno dell’art. 9 del d.lgs. n. 472/1997, che regolamenta l’ipotesi del concorso di persone nelle violazioni tributarie. [Si rinvia ad Antonini, Nota all’Ordinanza della Corte di Cassazione n. 25284 del 25 ottobre 2017, Corr. Trib., 2018.]
Infatti si potrà ipotizzare la piena riferibilità sanzionatoria in capo all’amministratore di fatto laddove venga accertata e provata la natura meramente fittizia ed artificiosa della società dotata di personalità giuridica, da esso gestita.
Dunque solo nelle suddette ipotesi risulterà inapplicabile l’art. 7 del d.l. n. 269/2003, dovendosi assumere totalmente inesistente l’ente dotato di personalità giuridica, cui la norma attribuisce, in via esclusiva, la responsabilità per le sanzioni tributarie.
Ciò sta a significare che la responsabilità dell’amministratore di fatto trova origine nel momento in cui, appurata la natura meramente fittizia della società dotata di personalità giuridica, emerga l’unicità del ruolo di contribuente dell’amministratore di fatto, a cui sarà riconducibile l’attività illecita, e, di conseguenza, le relative sanzioni, derivanti dalle violazioni perpetrate mediante la fictio iuris.
Infatti la violazione andrebbe contestata nei confronti dell’unico soggetto realmente operativo, e, soprattutto, esclusivo responsabile delle violazioni commesse in forza della suddetta attività.
Di conseguenza, in virtù dell’inesistenza della società dotata di personalità giuridica ai fini sanzionatori, l’amministratore di fatto viene ad essere punito in base ai principi ordinari che regolamentano il sistema delle sanzioni amministrative di natura tributaria.
Vale a dire che in questi casi il responsabile viene punito in forza dell’art. 2 del d.lgs. n. 472/1997, che individua l’autore della violazione nel soggetto che l’ha commessa e non ai sensi dell’art. 9 del medesimo decreto, quale concorrente nelle violazioni commesse dall’ente societario. [Falcone, L’amministratore di fatto non risponde delle sanzioni tributarie irrogate a società o enti con personalità giuridica; Commento alla sentenza della Corte di Cassazione n. 28331 del 7 novembre 2018, Il Foro Malatestiano, fascicolo n. 1/2019. L’Autore si pone sulla stessa linea di Capolupo, Sanzioni amministrative tributarie: l’abolizione (parziale) del principio della personalità, Il Fisco, n. 28/2014. Gli Autori si interrogano a più riprese sui fondamenti giuridici della responsabilità dell’amministratore di fatto all’interno della normativa tributaria.]
In considerazione di quanto argomentato, risulta necessario soffermarsi sull’ordinanza della Corte di Cassazione del 30 marzo n. 8811/2021, ove sono stati offerti significativi spunti di riflessione in tema di sanzionabilità dell’amministratore di fatto. [Giudetti, La responsabilità omissiva degli amministratori di società nel diritto penale tributario – The omissive responsability of the companies directors in the criminal tax law, Nota a Cassazione penale, 17 giugno 2015, n. 33397, in Cassazione Penale, fascicolo 7/2016, 2971-2975. Si riportano altresì Cass. pen. n. 47110/2013, Cass. pen. n. 23425/2011 e Cass. pen. n. 42892/2017.]
La controversia in esame trae origine dal ricorso presentato da un contribuente, quale amministratore di fatto di una società, avverso un atto di contestazione per omessa tenuta delle scritture contabili e omesso versamento delle ritenute del personale dipendente, nonché due avvisi di accertamento per maggiori imposte (Irpeg, Iva e Irap) nonché per omesso versamento delle ritenute del personale dipendente.
Ad avviso della Suprema Corte, in materia di imposte dirette, la responsabilità degli amministratori è sancita all’art. 36 del d.p.r. n. 602/1973 ma la sua natura è riferibile al novero civilistico, non a quello strettamente fiscale.
Infatti essa attiene alle sole ipotesi di messa in liquidazione della società e realizzazione, da parte degli amministratori, di operazioni di liquidazione nel corso degli ultimi due periodi di imposta, seppur precedenti alla messa in liquidazione ovvero di occultamento di attività sociali mediante omissione nelle scritture contabili.
In altre parole il credito dell’Amministrazione Finanziaria verso l’amministratore trova titolo autonomo rispetto all’obbligazione fiscale vera e propria e vale peraltro solo rispetto alle imposte sui redditi, non anche all’imposizione sul valore aggiunto (Iva) o sulle attività produttive (Irap).
Per quanto attiene invece al profilo dell’imputabilità delle sanzioni amministrative, si evidenzia come in tale pronuncia la persona fisica, agente per conto della società, sia contemporaneamente trasgressore e contribuente, mentre la persona giuridica sia solo una mera fictio, creata nell’esclusivo interesse della persona fisica. [Paparella, Sulla responsabilità delle persone giuridiche per le sanzioni amministrative tributarie, Nota a: Cassazione civile del 9 ottobre 2020, n.21790, sez. trib., Giur. Comm., fasc. 4/2021, 765 ss.]
Di conseguenza, secondo l’iter argomentativo della Corte di Cassazione, non opererà in tale ipotesi l’art. 7 del d.l. n. 269/2003, in quanto detta norma intende regolamentare i casi in cui vi sia una differenza tra trasgressore e contribuente e, nello specifico, l’ipotesi di un amministratore di una persona giuridica che, in forza del proprio mandato, compia violazioni nell’interesse della persona giuridica medesima. [In tal senso si segnalano le pronunce più recenti della Corte di Cassazione: Cass. civ. nn. 29500 del 22/10/2021, (ud. 22/06/2021, dep. 22/10/2021); Cassa. Civ. sez. trib., 22/05/2020, n. 9449; Cass. civ. sez. trib., 22/05/2020, n. 9451; Cass. civ. sez. trib., 25/02/2021, n. 5162; Cass. civ. sez. trib., 25/02/2021, n. 5163; Cass. civ. sez. trib., 22/05/2020, n. 9450.]
In considerazione di quanto appena affermato, risulta lecito sostenere che, laddove si verifichino le suddette condizioni fattuali e giuridiche, in capo all’Amministrazione Finanziaria incomberà altresì un onere probatorio particolarmente rilevante e significativo.
Vale a dire che, al fine di far valere la responsabilità sanzionatoria dell’amministratore di fatto, il Fisco dovrà preliminarmente provare che la gestione della società sia completamente ed esclusivamente nelle mani di un soggetto terzo, diverso da colui o da coloro che formalmente risultano amministratori.
Tale prova potrà evidentemente essere fornita anche mediante presunzioni, che comunque dovranno essere qualificate come gravi, precise e concordanti.
In sostanza l’Amministrazione Finanziaria dovrà dimostrare che l’ente societario, il suo atto costitutivo, l’attribuzione del numero di partita Iva, l’iscrizione nel registro delle imprese, non siano funzionali al conseguimento di un preordinato scopo di natura sociale, ma il tutto sia stato artificiosamente realizzato dall’amministratore di fatto con un’unica finalità: la realizzazione di un disegno fraudolento, volto a conseguire i vantaggi derivanti dalla sua illecita condotta.
Conclusivamente, a parere di chi scrive, risulta possibile sostenere la piena responsabilità sanzionatoria di una persona fisica, solo laddove venga dimostrato che quest’ultima, creando in maniera del tutto artificiosa una società di capitali o comunque un ente dotato di personalità giuridica, abbia agito per meri scopi fraudolenti, con l’intenzione di sfruttare, indebitamente, lo schema societario, facendo ricadere su di esso le conseguenze delle proprie condotte illecite, sia in termini di tributi, sia in chiave sanzionatoria. [Miscali, La responsabilità dell’amministratore di fatto a titolo di concorso ai sensi dell’art. 9 del d.lgs. n. 472 del 1997, Dir. prat. trib., n. 4/2018, 1758, ove l’Autore ritiene che l’amministratore di fatto e quello di diritto siano soggetti agli stessi obblighi di legge ed alle medesime responsabilità; motivo per il quale l’art. 7 del d. l. n. 269/2003 può estendersi anche all’amministratore di fatto, in tutto e per tutto equiparato ed equiparabile a quello di diritto.]
Dunque, soltanto in tali circostante esaminate i giudici della Suprema Corte hanno affermato e stabilito la possibile disapplicazione dell’art. 7 del d.l. n. 269/2003.
Sinora è stato posto l’accento sulle principali caratteristiche della sanzionabilità dell’amministratore di fatto.
Eppure non risulta sufficiente soffermarsi sulla portata applicativa che l’art. 7 del d. l. n. 269/2003 ha avuto negli ultimi anni né è soddisfacente impostare l’analisi critica esclusivamente sul difficile rapporto intercorrente tra la suddetta norma e l’art. 11 del d.lgs. n. 472/1997.
In precedenza è stato sottolineato come l’art. 7, pur non intervenendo formalmente sull’art. 11 del d.lgs. n. 472/1997, abbia comportato una successione di norme nei casi in cui si faccia capo all’ipotesi di irrogazione di sanzioni ad enti dotati di personalità giuridica.
L’applicazione della norma eccezionale, di cui al citato art. 7 d.l. 269/2003, presupponeva di fatto che l’autore della violazione avesse agito a beneficio della società, dotata di personalità giuridica rappresentata.
Tuttavia il fine ultimo che lo scrivente si propone è quello di delineare possibili sviluppi normativi del sistema sanzionatorio tributario.
L’esercizio del potere punitivo, come sottolineato nei passaggi introduttivi del lavoro, non va ritenuto di secondaria importanza rispetto all’imposizione fiscale, in quanto il ruolo della proporzionalità sanzionatoria e l’accertamento della meritevolezza della pena rappresentano esempi di indubbia rilevanza per il Legislatore, in vista di una riforma tributaria tout court, comprensiva dei profili sanzionatori del sistema.
Si tratta di elementi cruciali della dinamica legislativa che troppo a lungo sono stati relegati ai margini della riflessione giuridica.
L’art. 7 del d.l. n. 269/2003 era stato introdotto all’interno del nostro ordinamento come norma di carattere transitorio, alla luce della ratio perseguita dall’art. 2 della legge delega n. 80/2003, al fine di sanzionare l’ente dotato di personalità giuridica che poneva in essere violazioni fiscali.
Il tempo, invece, ha dimostrato come la mancata riforma a più ampio raggio sia stata deleteria per l’intero sistema tributario, in virtù del fatto che la norma doveva servire a limitare alcune criticità e non divenire, come accaduto, un dettato definitivo, privo però dei cardini giuridici espressamente invocati in queste poche righe.
Intervenire su un singolo profilo in maniera sporadica ed in assenza di continuità normativa, senza considerare l’impatto che avrebbe potuto avere nell’ordinamento italiano, ha accentuato in maniera ancor più evidente i limiti e le falle di un corpus temporaneo e sfortunatamente sbrigativo, dal punto di vista dell’enunciazione formale.
Infatti ad oggi sarebbe opportuno immaginare di abbandonare l’attuale ibridismo sanzionatorio venutosi a creare, dando maggior risalto all’effettivo titolare del rapporto giuridico di imposta, superando così la dicotomia tra soggetti dotati e/o sprovvisti di personalità giuridica.
Apparentemente tali affermazioni possono risultare anacronistiche e contrarie ad uno sguardo oltre l’orizzonte delle tematiche fiscali sanzionatorie.
In realtà si osserva come si possa giungere ad una conclusione di questo tipo anche solo soffermandosi su tutte le problematiche correlate alla portata applicativa del comma 3 del citato art. 7 del d. l. n. 269/2003.
Nondimeno al suo interno è riscontrabile la flebile clausola di compatibilità “Nei casi di cui al presente articolo le disposizioni del decreto legislativo n. 472/1997 si applicano in quanto compatibili.”, che ha comportato più criticità che reali certezze dalla sua codificazione.
Alla stregua di tali considerazioni, anche attraverso la lettura di numerose pronunce giurisprudenziali sono emersi numerosi episodi di incertezza, ove in alcune ipotesi era chiamato a rispondere della sanzione la persona fisica ed in altre il contribuente, anche a causa dell’evanescenza che la clausola di raccordo proponeva. [Dorigo, Persone giuridiche e sanzioni amministrative, Dir. prat. trib., 2018, 1112 ss.; Di Ronco, La funzione della sanzione amministrativa tributaria nel quadro delle dinamiche della tax compliance, Riv. dir. trib., 2019, I, 329 ss.]
Tale discontinuità, a parere di chi scrive, consente di riportare alla memoria la concreta ratio sottesa ai principi enunciati all’interno del d.lgs. n. 472/1997, volta a delineare un sistema sanzionatorio inequivocabilmente coerente e tutt’altro che ondivago.
La persona fisica, infatti, rispondeva direttamente della sanzione in forza dell’art. 2 della suddetta normativa, nel rispetto altresì della disciplina della responsabilità solidale ex art.11 del d.lgs. n. 472/1997.
Pertanto, tanto l’elemento psicologico dell’illecito quanto i criteri di determinazione della sanzione facevano capo alla persona fisica, autrice della violazione de qua.
In tale ottica, volendo osare da un punto di vista della “proposta” giuridica, si potrebbe valutare una restauration de l’ancienne législation, considerando però alcuni suggestivi correttivi.
Come osservato in dottrina [Cfr. Di Siena, Il concorso nell’illecito fiscale di una persona giuridica. La fine “ragionevole” di un equivoco ed uno spunto per il futuro? Nota ad ordinanza della Corte Suprema di Cassazione civile, sezione tributaria 22 maggio 2020 n. 9449, Riv. dir. trib., fascicolo n. 1/2021, 35-51. L’Autore evidenzia come “l’autonomia concettuale della responsabilità dell’ente (da quella dell’autore persona fisica della violazione) risulti un istituto già acquisito nell’ordinamento e che, mutatis mutandis ben si presta ad essere trasposto in materia tributaria.”], una normativa di indubbia fonte ispiratrice potrebbe essere rappresentata dal d.lgs. n. 231/2001, in tema di responsabilità penale dell’ente.
Infatti l’introduzione del concetto della “ colpa dell’ente” in ambito penale può rappresentare concretamente l’occasione per un restyling dell’illecito fiscale, relativamente alla sfera dei soggetti di natura collettiva.
Se è vero che la normativa n. 231/2001 muove dal presupposto che tale colpa sia differente dalla colpa della persona fisica del cd. reato presupposto, ne discende che vi possa essere la responsabilità dell’autore del reato senza corrispondente responsabilità dell’ente, determinando il permanere della sanzionabilità del secondo quand’anche il primo finisca per non essere punito penalmente.
Il contribuente, dunque, non dovrebbe più essere soltanto chiamato a rispondere patrimonialmente delle conseguenze della violazione fiscale da parte della persona fisica ma dovrebbe addivenire il reale soggetto attivo della stessa.
Al fine di dare concreta applicazione al paradigma enunciato sarebbe necessario individuare i tratti caratterizzanti della colpa fiscale, delineando procedure finalizzate alla prevenzione di ipotetiche condotte illecite di natura tributaria, partendo dall’exemplum di stampo penale.
Ecco in che modo l’attuale sistema punitivo ibrido potrebbe essere superato attraverso una sostanziale attività di riforma, volta a combinare il vetus et novum legis; ciò per effetto di un semplice recupero dell’esperienza normativa ed applicativa precedente, che aveva certamente meriti strutturali, accompagnata da una nuova configurazione dell’illecito tributario, che possa dirsi effettivamente riferibile al soggetto titolare del rapporto giuridico d’imposta o soggetto in capo al quale si determina l’imponibile in ipotesi di trasparenza fiscale.
Volendo traslare i suddetti assunti all’interno del sistema sanzionatorio tributario, il futuro legislativo dell’illecito fiscale potrebbe portare alla riconduzione delle sanzioni sul solo ente collettivo, laddove esso risulti effettivamente il diretto titolare dell’obbligazione tributaria.
Assisteremmo così alla piena riferibilità sanzionatoria in capo all’ente collettivo, superando numerose incertezze che hanno contraddistinto l’esperienza moderna.
La possibilità, tuttavia, di codificare ipotesi derogatorie alla responsabilità sanzionatoria esplicata potrebbe altresì proporsi come strumento dissuasivo, laddove si riscontrino elementi riconducibili a forme di abuso di tale istituto.
L’esempio dello “schema societario fittizio”, incontrato innumerevoli volte all’interno delle pronunce giurisprudenziali citate, nei casi in cui fosse concretamente trasposto all’interno del dettato normativo sanzionatorio, non potrebbe far altro che rappresentare una forza motrice legislativa di sicura rilevanza.
In conclusione, ipotizzare di mantenere il suddetto sistema ibrido, quale modello punitivo caratterizzato dalla coesistenza del d.lgs n. 472/1997 e dall’art. 7 del d. l. n. 269/2003, non incontra lo sfavor di chi scrive, ma necessiterebbe sicuramente di un apporto normativo integrativo, volto ad assicurare una maggiore chiarezza testuale ed applicativa.