argomento: Sanzioni e contenzioso - Legislazione e prassi
Il documento analizza le norme e le procedure nazionali vigenti in materia di risoluzione alternativa delle controversie e diversion applicabili nei casi di reati fiscali di competenza della Procura europea, anche alla luce dei principi CEDU e del diritto dell'UE.
PAROLE CHIAVE: interessi finanziari - EPPO - OLAF
di Simone Francesco Cociani
Invero, gli interessi lato sensu “finanziari” dell’Unione Europea, data la loro rilevanza anche ai fini del corretto funzionamento del mercato unico, risultano opportunamente presidiati attraverso norme eurounitarie di tipo procedimentale e di tipo sanzionatorio (cfr. art. 325 TFUE), anche se è tuttora da escludere una piena competenza dell’Unione in materia penale, mancando un’esplicita attribuzione in tal senso (G. GRASSO, Il Trattato di Lisbona e le nuove competenze penali dell’Unione Europea, in Studi in onore di Mario Romano, Napoli, 2011, 2347 s.).
Peraltro, per ciò che concerne il nostro ordinamento interno, occorre tener bene a mente l’esistenza del principio di legalità dei reati e delle pene (di cui all’art. 25 Cost.), in quanto suscettibile di costituire un vero e proprio controlimite all’operare del diritto comunitario che, in ogni caso, ha una qualche competenza di natura penale in tema di protezione degli interessi finanziari dell’Unione. E a ben vedere, tale competenza penale della UE in materia di protezione dei propri interessi finanziari, se esercitata in guisa tale da accordare un grado di protezione più elevato rispetto a quello assicurato ai propri cittadini da parte dell’ordinamento interno, non può che condurre a riconoscere la prevalenza del diritto unionale su quello interno (G. FLORA, Prime riflessioni sulle problematiche penalistiche del recepimento della “Direttiva PIF” nel settore dei reati tributari e della responsabilità “penale” degli enti, in Dis Crimen, 12 novembre 2019, 4).
In ogni caso, alquante sono le norme (sia di diritto interno che di diritto unionale) che prevedono l’applicazione di “misure” (pure a carattere sanzionatorio) per violazioni, di norme finanziarie e tributarie, capaci di mettere in pericolo sia gli interessi finanziari dell’Italia che quelli della U.E.
Da quest’ultimo punto di vista, lo stesso art. 83.2 TFUE, allorché il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri in materia penale si riveli indispensabile per garantire l'attuazione efficace di una politica dell'Unione in un settore che è stato oggetto di misure di armonizzazione (ad esempio per quanto concerne l’imposta sulla cifra d’affari), prevede che norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni (penali) nel settore in questione possano essere stabilite tramite direttive (F.C. LA VATTIATA, La nuova direttiva PIF. Riflessioni in tema di responsabilità da reato degli enti giuridici, gruppi societari e reati tributari, in Giur. pen., fasc. n.9/2019, 3).
Ora, venendo finalmente a trattare del tema che ci occupa, è possibile osservare che, in una dimensione procedimentale, l’art. 86 del TFUE prevede l’istituzione di un Ufficio di procura europeo (EPPO), cui è affidato il compito di svolgere indagini penali, in proprio e direttamente, con riferimento a quei reati che, appunto, attentano agli interessi finanziari dell’Unione Europea.
Quanto alla competenza dell’EPPO, solo indirettamente tracciata dall’art. 22 del Regolamento n. 1939/2017 (istitutivo della Procura Europea), essa è compiutamente definita dalla Direttiva n. 2017/1371 (c.d. “Direttiva PIF”), per la tutela degli interessi finanziari dell’Unione attraverso il sistema penale, cui lo stesso regolamento rinvia.
A tale riguardo, la stessa Direttiva PIF, all’art. 2, primo comma, definisce “interessi finanziari” della U.E. “tutte le entrate, le spese e i beni che sono coperti o acquisiti oppure dovuti in virtù: i) del bilancio dell’Unione; ii) dei bilanci di istituzioni, organi e organismi dell’Unione istituiti in virtù dei trattati o dei bilanci da questi direttamente o indirettamente gestiti e controllati”.
Il medesimo testo, per quanto concerne le frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, all’art. 3 prevede che gli Stati membri adottino le misure necessarie affinché, se commessa intenzionalmente, la frode costituisca reato. E, a tal fine, per quanto in questa sede interessa, ovvero per quanto concerne le entrate derivanti dalle risorse proprie provenienti dall'IVA [art. 3, lett. d)], si considera frode in grado di ledere gli interessi finanziari dell'Unione ogni azione od omissione commessa, attraverso due o più stati membri, in relazione:
La stessa Direttiva PIF, peraltro, fa obbligo ai singoli Stati membri di adottare le misure necessarie a sanzionare (anche) le persone giuridiche ritenute responsabili dei reati (di cui alla medesima direttiva) commessi a loro vantaggio da qualsiasi altro soggetto, sia a titolo individuale che quale membro di un organo della persona giuridica (art. 6). Ancora, la stessa Direttiva fa altresì obbligo ai singoli Stati membri di adottare le misure necessarie consentire il sequestro e la confisca degli strumenti e dei proventi derivanti dagli illeciti di cui alla medesima (art. 10).
La Direttiva PIF è stata poi recepita nell’ordinamento italiano attraverso la legge delega 4 ottobre 2017, n. 117, attuata con d.lgs. 14 luglio 2020, n. 75 che, per parte sua, non dettaglia ulteriormente il contenuto del sintagma “interessi finanziari” così come definito in sede di direttiva.
In ogni caso, è appena il caso di osservare che una definizione del concetto di “interessi finanziari dell’Unione Europea” risulta già tracciata – in termini sostanzialmente analoghi rispetto a quelli impiegati nella Direttiva PIF – ad opera dell’art. 2 del Regolamento europeo n. 883/2013 che, a sua volta, disciplina l’attività dell’Ufficio Europeo per la Lotta Antifrode (OLAF), deputato a condurre indagini amministrative su condotte capaci di pregiudicare il bilancio comunitario (cfr. art. 2 del Regolamento UE n. 883/2013, secondo cui per interessi finanziari dell’Unione si intendono le “entrate, spese e beni coperti dal bilancio dell’Unione europea, nonché quelli coperti dai bilanci delle istituzioni, degli organi e degli organismi e i bilanci da essi gestiti e controllati”).
Ora, poiché – come noto – i regolamenti comunitari sono direttamente efficaci nel diritto interno dei singoli stati membri, la richiamata definizione di “interessi finanziari dell’Unione Europea”, così come enunciata nel predetto Regolamento n. 883/2013, è senz’altro direttamente applicabile nell’ordinamento italiano.
Quanto al contenuto del d.lgs. 14 luglio 2020, n. 75, di attuazione della legge delega 4 ottobre 2017, n. 117, a sua volta incaricata di trasporre la Direttiva PIF, questo interviene sulla disciplina dei reati tributari in tema di IVA già previsti dal d. lgs. 10 marzo 2000, n. 74, prevedendone la punibilità di alcuni anche a titolo di tentativo, come pure disponendo altresì l’ampliamento del catalogo degli illeciti da cui deriva la responsabilità amministrativa da reato in capo agli enti, a norma del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231.
Quanto all’ambito oggettivo dei delitti tributari rientranti nella competenza EPPO, questo è costituito, essenzialmente, dai reati in materia di IVA (c.d. “VAT crimes”) giacché, come noto, una quota del gettito IVA costituisce appunto entrata propria del bilancio dell’Unione. Tuttavia, ai fini della competenza dell’EPPO, è altresì necessario che il reato si caratterizzi per la transnazionalità e che causi un danno al bilancio U.E. pari ad almeno dieci milioni di euro. Diversamente, le frodi IVA che non posseggono questi due requisiti rimangono di competenza delle singole autorità nazionali (A. VENEGONI, La struttura e il funzionamento dell’EPPO, in Corte suprema di cassazione – Ufficio del Massimario e del ruolo – Servizio penale, Relazione su novità normativa, n. 36/2021, del 28 giugno 2021, 2 ss).
Per completezza sul punto, è appena il caso di osservare che rientrano nella competenza dell’EPPO anche tutti quei reati “indissolubilmente connessi” rispetto a quelli espressamente assegnati alla Procura europea e, in ogni caso, la Procura europea non è competente per i reati in materia di imposte dirette nazionali, ivi inclusi i reati ad essi indissolubilmente legati (Regolamento UE n. 2017/1939, art. 22) (A. SALEMME, Possibili criticità relativamente all’operatività dell’EPPO nel sistema nazionale, in Corte suprema di cassazione – Ufficio del Massimario e del ruolo – Servizio penale, Relazione su novità normativa, n. 36/2021, del 28 giugno 2021, 48 ss.).
Quanto alla nozione di “reato indissolubilmente connesso” da ultimo richiamata, questa può essere ricavata sulla base di quanto indicato al punto n. 54 della motivazione del Regolamento 2017/1939 che, per parte sua, a tal fine, ricorre al criterio giurisprudenziale tracciato con riferimento all’applicazione del principio del ne bis in idem che, a sua volta, considera l’identità dei fatti materiali intesa come esistenza di un insieme di circostanze concrete inscindibilmente collegate fra loro nel tempo e nello spazio. Quanto sopra conduce quindi a considerare, a tal fine, sia la nozione di concorso formale di cui all’art. 81, primo comma, c.p., ovvero la violazione, con una sola azione od omissione, di più disposizioni di legge, sia il caso del reato strumentale, teleologicamente orientato (secondo un nesso particolarmente stringente) a consentire la realizzazione di un reato rientrante tra quelli assegnati alla competenza dell’EPPO. Il tema sembra particolarmente complesso e, come tale, non affrontabile nella presente sede, specie se si pensa all’ipotesi di reati transnazionali che possono anche risultare indissolubilmente connessi, ad esempio in quanto consistenti, per effetto di un’unica condotta materiale, nell’evasione di IVA e imposte sui redditi per ammontari superiori alla richiamata soglia di dieci milioni di euro. In questo caso i principi di proporzionalità e necessità potrebbero indurre a ravvisare la competenza (unitaria) dell’EPPO per entrambi i reati ipotizzati, con conseguente innalzamento del grado di efficienza dell’azione di contrasto. Certo è che in casi simili è quanto mai opportuno che vi sia un coordinamento tra l’attività della Procura europea e di quella nazionale, fermo restando che in caso di contrasto la relativa decisione è rimessa alla Procura generale della Cassazione (ex art. 16 d. lgs. n. 9/2021) (G. AMATO, Procura della Repubblica di Bologna, Circolare 17 maggio 2021, “I reati di competenza della Procura Europea. Riflessioni operative”, 4 ss.).
Ancora, sul presupposto che possa ledere gli interessi finanziari dell’Unione Europea, risulta parimenti compreso fra le competenze della Procura europea anche delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 8 d. lgs. n. 74/2000), in quanto finalizzato a consentire a terzi l’evasione dell’imposta sul valore aggiunto, come pure il delitto di occultamento e distruzione di documenti contabili (art. 10 d. lgs. n. 74/2000) e quello di indebita compensazione (art. 10-quater d. lgs. n. 74/2000), nonché il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte (art. 11 d. lgs. n. 74/2000) (nota del Procuratore europeo italiano in data 4 gennaio 2021 e in data 23 aprile 20221, nonché la nota della Procura generale della Cassazione in data 22 marzo 2021).
Quanto al reato di indebita compensazione, pur nella consapevolezza che la previsione di cui all’art. 10-quater in parola si articola in due differenti condotte (tendenzialmente alternative, pur potendo anche cumularsi) – ovvero: i) l’indebita compensazione di crediti non spettanti (ma comunque esistenti), di cui al primo comma; ii) e l’indebita compensazione di crediti inesistenti, di cui al secondo comma – delle quali solo la seconda condotta sembra potersi caratterizzare per quelle connotazioni oggettivamente frodatorie tali da ricondurre il relativo reato nella competenza dell’EPPO, si deve tuttavia osservare che – se si eccettuano alcune recenti pronunce (tra cui Cass. 3 marzo 2022, n. 7615) – la giurisprudenza non sembra ancora aver sufficientemente consolidato la distinzione tra le due fattispecie delittuose nei termini ora accennati, talché, anche in considerazione della prassi amministrativa che tende a contestare le due violazioni in discorso cumulativamente, pare utile in questa sede considerare come nella competenza dell’EPPO il reato di indebita compensazione, sia se riferito a crediti non spettanti, sia se riferito a crediti inesistenti. Sul punto, non può tuttavia farsi a meno di osservare che il (solo) reato di cui all’art. 10-quater, primo comma, risulta compreso nella fattispecie di cui all’art. 13, primo comma, di cui si dirà appresso, mentre il reato di cui all’art. 10-quater, secondo comma, non risulta compreso nella fattispecie di cui all’art. 13, secondo comma. Talché, il reato di indebita compensazione di crediti non spettanti può fruire – al verificarsi delle condizioni di legge – della causa di non punibilità (di cui all’art. 13), mentre il reato di indebita compensazione di crediti inesistenti può solamente fruire dell’attenuante di cui all’art. 13-bis, ferma restando la possibilità di accedere al patteggiamento ex art. 444 c.p.p. Per connessione di argomento, è forse appena il caso di osservare che il delitto di cui all’art. 10-quater, secondo comma, seppur caratterizzato – stando alla dosimetria sanzionatoria – da un disvalore sociale non maggiore (anzi minore) di quelli di dichiarazione fraudolenta di cui agli artt. 2 e 3, non è ammesso alla definizione di cui all’art. 13, con conseguente applicabilità dell’esimente, cui invece sono ammessi i più gravi reati di dichiarazione fraudolenta ora richiamati. Quanto sopra induce quindi ad interrogarsi sulla ragionevolezza, quindi sulla conformità costituzionale, di un tale differente trattamento sanzionatorio (A. LANZI P. ALDROVANDI, Diritto penale tributario, Milano, 2020, 117 ss.).
Naturalmente, pure per le figure delittuose da ultimo richiamate, occorre che i relativi reati siano compiuti anche nel territorio di altro Stato membro (carattere della transnazionalità), al fine di evadere l’imposta sul valore aggiunto, comportando un danno per gli interessi finanziari della UE del valore complessivo non inferiore a dieci milioni di euro, ovvero, nella prospettiva del trasgressore, con un profitto di analogo ammontare (nota del Procuratore europeo italiano in data 4 gennaio 2021 e in data 23 aprile 20221; la nota della Procura generale della Cassazione in data 22 marzo 2021).
Con riferimento al profilo della transnazionalità del reato in materia di IVA, al verificarsi del superamento della richiamata soglia, sembrano porsi interessanti questioni problematiche nell’ipotesi di condotte realizzate all’interno di un gruppo societario allorquando, ove la controllata e la controllante abbiano sede di differenti Stati membri, il bilancio consolidato di gruppo abbia necessariamente recepito le risultanze del bilancio della controllata che ha posto in essere il relativo crimine, senza che di ciò vi sia evidenza in capo alla controllante (A.A. SALEMME, Possibili criticità relativamente all’operatività dell’EPPO nel sistema nazionale, cit., 44 ss.).
Per connessione di argomento, quanto alla nozione di profitto, come visto rilevante al fine di radicare la competenza dell’EPPO, è appena il caso di segnalare che, con riferimento ai reati tributari, il profitto può essere costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale conseguito per effetto della condotta delittuosa, potendo quindi consistere anche in un risparmio di spesa, derivante dal mancato pagamento del tributo, sanzioni e interessi dovuti a seguito dell’accertamento tributario.
Quanto al novero dei reati tributari che danno luogo alla responsabilità amministrativa dell’ente, ovvero, per quanto in questa sede interessa, con riferimento ai reati presupposto in materia di IVA sopra richiamati, allorquando i relativi delitti siano commessi anche in un altro Stato membro e con un’evasione di IVA non inferiore a dieci milioni di euro, il legislatore, sempreché il profitto conseguito possa dirsi di rilevante entità, ha previsto l’aumento di un terzo delle sanzioni ordinariamente applicabili alle relative fattispecie. Sul punto delle sanzioni amministrative in discorso, è appena il caso di segnalare qualche profilo di irragionevolezza rispetto al trattamento riservato a talune fattispecie delittuose non rientranti nella competenza dell’EPPO che, ancorché suscettibili di arrecare un minore danno agli interessi dell’Unione, risultano più severamente sanzionate rispetto crimini compresi nella competenza della Procura europea, questi ultimi, senz’altro connotati da un maggior disvalore sociale. Basti pensare che la dichiarazione infedele per cento milioni di euro, ove caratterizzata dal profilo di transnazionalità, è sanzionata in misura fino a n. 300 quote mentre l’utilizzo in dichiarazione di false fatture, anche per un imponibile di euro mille, è sanzionato con una pena fino a n. 400 quote.
In ogni caso, come da più parti osservato, ulteriori (e ben più consistenti) profili di criticità si pongono in relazione all’applicazione all’ente delle sanzioni penali amministrative, ex d. lgs. n. 231/2001, in aggiunta alle “ordinarie” sanzioni tributarie di tipo amministrativo che, per la loro concreta afflittività, tenuto conto della giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Corte EDU (C. EDU, 8 giugno 1976, Engel et al. vs Paesi Bassi), ben possono dirsi di tipo “sostanzialmente penale” (G. FLORA, Prime riflessioni sulle problematiche penalistiche del recepimento della “Direttiva PIF” nel settore dei reati tributari e della responsabilità “penale” degli enti, cit., 10 s.). Per non dire che, in caso di illecito tributario riferibile all’ente, alla persona giuridica risulta già applicabile la misura della confisca in relazione al profitto del reato commesso dalla persona fisica, in tal caso, sul presupposto della natura sostanzialmente sanzionatoria della misura ablatoria in discorso, con l’effetto di dar luogo ad un cumulo di sanzioni in capo all’ente, tale da porsi certamente in tensione con il noto principio del ne bis in idem (S.F. COCIANI, Le confische tributarie: tra sanzione, funzione riscossiva, populismo fiscale e diritti fondamentali del contribuente, in Riv. trim. dir. trib., 2021, I, 803 ss .).
A quest’ultimo riguardo, l’art. 13 del d. lgs. 10 marzo 2000, n. 74 prevede una sopravvenuta causa di non punibilità del reato, ovvero, potremmo anche dire che sostanzialmente prevede una qualche “depenalizzazione”, nel senso che – ove intervenga il pagamento del dovuto – esso degrada i fatti di reato a illeciti amministrativi.
Invero, l’esimente in discorso opera limitatamente a taluni reati e, appunto, sempreché il debito tributario (per imposta, sanzioni e interessi) sia estinto mediante integrale pagamento del dovuto, anche a seguito delle speciali procedure tributarie di definizione, prima del decorso di un determinato termine temporale, variabile in ragione del tipo di reato commesso.
Al riguardo, deve in ogni caso precisarsi che le condotte riparatorie in discorso, pur essendo idonee ad affermare la non punibilità del reo, di per sé non valgono ad escludere la responsabilità penale, di tipo amministrativo, anche all’ente riferibile sulla base del d. lgs. 231/2001, così come recentemente novellato, sempreché non si ritenga che l’esistenza degli apposti modelli organizzativi, in uno con i comportamenti resipiscenti sopra accennati, sia tale da esentare l’ente dalle relative sanzioni penali di tipo amministrativo (M. LIO, Il ravvedimento operoso delle violazioni penalmente rilevanti: il dilemma tra la non punibilità penale della persona fisica e la persistente responsabilità dell’ente, in Riv. dir. trib., 2021, III, 195 ss.). In questo senso, in dottrina, si è delineato il superamento dell’antinomia in discorso per via interpretativa e, dunque, si è riconosciuta la non punibilità dell’ente anche alla luce del sistema di cui al d. lgs. n. 231/2001. Più in particolare, secondo una ricostruzione recentemente prospettata, l’eventuale esistenza di un modello organizzativo ex d. lgs. n. 231/2001, come pure l’esistenza di un Tax Control Framework (nel quadro della c.d. “co-operative compliance” di matrice OCSE, poi recepita anche nel nostro ordinamento con d.lgs. 5 agosto 2015, n. 128), in una prospettiva ex ante, varrebbe ad escludere qualsivoglia deficit organizzativo e, in una prospettiva ex post, dimostrerebbe l’idoneità nell’attuare la prevenzione, il controllo e la gestione del rischio fiscale, così come pure dei correlati reati tributari, come difatti comprovato dal comportamento resipiscente (remediation), appunto reso possibile attraverso il ricorso al ravvedimento operoso che, dunque, anche ai fini del sistema di cui al d.lgs. n. 231/2001, darebbe luogo ad un’esimente (cfr. M. LIO, Il ravvedimento operoso delle violazioni penalmente rilevanti: il dilemma tra la non punibilità penale della persona fisica e la persistente responsabilità dell’ente, cit., 204 ss. e, in particolare, 212 ss.).
Più in dettaglio, volendo ora esaminare le condizioni di tale causa di non punibilità rispetto ai singoli delitti di competenza dell’EPPO, e quindi in relazione al termine temporale suddetto, è dato osservare che, a mente dell’art. 13, primo comma, del d. lgs. n. 74/2000, limitatamente al (solo) reato di indebita compensazione di crediti Iva non spettanti (e quindi non anche per il reato di indebita compensazione di crediti Iva inesistenti di cui al successivo secondo comma del richiamato art. 10-quater), occorre che l’estinzione del debito tributario – come detto anche a seguito dell’integrale pagamento delle somme dovute per effetto delle speciali procedure conciliative, ovvero di adesione all’accertamento o, ancora, di ravvedimento operoso – intervenga prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, ovvero, qualora prima della dichiarazione dell’apertura del dibattimento di primo grado il debito tributario sia (ancora) in fase di estinzione mediante rateizzazione, entro l’ulteriore termine di tre mesi, quest’ultimo, se necessario, prorogabile per non oltre tre mesi (art. 13, terzo comma, d. lgs. n. 74/2000) (A. FAZIO, Gli effetti del ravvedimento operoso in ambito tributario e penale: convergenze e discrasie sistematiche, in Rass. trib., 2021, 941 ss.; V. MASTROIACOVO, Riflessi penali delle definizioni consensuali tributarie e riflessi fiscali delle definizioni bonarie nelle vertenze penali, in Riv. dir. trib., 2015, I, 142 ss.; G. MELIS, La nuova disciplina degli effetti penali dell’estinzione del debito tributario, in Rass. trib., 2016, 589 ss.).
Per completezza, gli altri delitti previsti dal primo comma dell’art. 13 in discorso, che pure possono essere estinti fino alla data di apertura del dibattimento di primo grado, non rientrano nella competenza dell’EPPO. Si tratta, infatti, del reato di omesso versamento di ritenute dovute o certificate e del reato di omesso versamento di IVA, di cui, rispettivamente, agli artt. 10-bis e 10-ter del medesimo d. lgs. n. 74/2000.
Diversamente, quanto agli altri reati – tutti di competenza dell’EPPO – previsti e puniti agli artt. 2, 3, 4 e 5, del d. lgs. n. 74/2000, ovvero per quelli, rispettivamente, di dichiarazione fraudolenta mediante fatture o altri documenti inesistenti, di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, di dichiarazione infedele, e di omessa dichiarazione, essi, a mente dell’art. 13, secondo comma, del medesimo decreto, non sono punibili se i relativi debiti tributari, comprensivi di sanzioni e interessi, siano stati estinti mediante integrale pagamento del dovuto, anche a seguito di ravvedimento operoso, ovvero a seguito di presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, purché il ravvedimento sia intervenuto prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche, ovvero dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali (G. MELIS, Note minime su talune questioni interpretative in tema di ravvedimento operoso, in Dir. prat. trib., 2021, II, 1567 ss.).
Come è dato osservare, per i delitti di cui al secondo comma dell’art. 13, tutti di competenza dell’EPPO, la clausola di non punibilità esige che il comportamento resipiscente si realizzi, spontaneamente, entro un arco temporale più ristretto – ovvero prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza dell’avvio di attività istruttorie in sede amministrativa, o dell’avvio di procedimenti in sede penale (come nel caso in cui, ad esempio, l’indagato abbia ricevuto informazione di garanzia, avviso di conclusione delle indagini, richiesta di proroga delle indagini preliminari, invito a comparire per rendere interrogatorio, ordinanza di misure cautelari, ecc.) –, rispetto al periodo di grazia consentito per i reati di cui al primo comma (data di apertura del dibattimento di primo grado, eventualmente prorogabile per non oltre sei mesi), sul presupposto del maggior disvalore sociale delle condotte di cui al secondo comma dell’art. 13 in parola. Difatti, i reati di cui al primo comma dell’art. 13 presuppongono l’esistenza di inadempimenti rispetto a debiti tributari dal contribuente correttamente indicati, sicché l’adempimento tardivo (purché entro la data di apertura del processo penale di primo grado), ancorché non spontaneo, giustifica la causa di non punibilità in sede penale, essendo ritenuta sufficiente la irrogazione delle sole sanzioni amministrative tributarie (Relazione illustrativa al d.lgs. n. 158/2015 che, come noto, ha novellato il d.lgs. n. 74/2000).
Quanto allo spazio temporale per ottenere il riconoscimento della non punibilità, ovvero, come si dirà meglio appresso, per ottenere la declaratoria della irrilevanza penale della violazione tributaria commessa, è appena il caso di osservare che, ai fini che qui ci occupano, stante la soglia quantitativa di rilevanza per radicare la competenza dell’EPPO (come detto pari ad euro dieci milioni), sembra destinata a trovare applicazione solo in casi limite quella giurisprudenza di legittimità secondo la quale, se a seguito di accertamento con adesione l’imposta evasa dovesse scendere al di sotto della soglia di rilevanza penale prevista per ciascun reato di competenza “non EPPO” (ad esempio, la soglia di punibilità per il reato di cui all’art.10-quater, primo comma, rilevante ai fini dell’esimente di cui all’art. 13, primo comma, nonché le soglie di punibilità previste per i reati di cui agli artt. 3, 4, 5, rilevanti ai fini dell’esimente di cui all’art. 13, secondo comma, che però, come sopra ricordato, non contempla il ricorso alle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento al fine di realizzare il comportamento resipiscente, invece ammesso solo per il tramite del ravvedimento operoso), viene meno il reato (Cass., 14 febbraio 2012, n. 5640). Talché il comportamento resipiscente – beninteso ove capace di ridurre la pretesa fiscale sotto la soglia per la ordinaria rilevanza penale in una prospettiva interna – sembra tale da poter scriminare l’esistenza stessa del reato, anche qualora la relativa definizione del debito tributario, in sede amministrativa, abbia avuto seguito successivamente ai termini previsti, rispettivamente, dai commi primo e secondo dell’art. 13 al fine del riconoscimento dell’esimente.
Peraltro, l’ipotesi ora accennata – seppur costituente una rara avis – risulta pienamente armonizzata con l’attuale disciplina del ravvedimento operoso di cui all’art. 13 del d. lgs. n. 472/1997 che, come noto, nella sua nuova formulazione a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 1, commi 637 ss., della legge n. 190/2014, prevede la definizione agevolata – con riduzione delle sanzioni amministrative ad un quinto del minimo – (anche) se la regolarizzazione avviene dopo la constatazione della violazione (art. 13, primo comma, lett. b-quater), d. lgs. 18 dicembre 1997, n. 472).
Tornando all’esimente di cui all’art. 13 del d. lgs. n. 74/2000, consistendo questa in una causa di non punibilità sopravvenuta di tipo oggettivo, essa dispiega i suoi effetti in ragione del verificarsi del mero fatto costituito dal perfezionamento della procedura di definizione prevista, di tal guisa, essa estende i suoi effetti anche nei confronti degli altri eventuali soggetti concorrenti nel reato, ancorché non abbiano effettuato il pagamento del debito tributario, comunque interamente estinto da altro correo, ovvero da un terzo come, ad esempio, nel caso dell’ente rappresentato che si sia giovato degli effetti economici del reato posto in essere dalla persona fisica rappresentante (Cfr. E. MUSCO F. ARDITO, Diritto penale tributario, Bologna, 2021, 66, nonché A. LANZI P. ALDROVANDI, Diritto penale tributario, cit., 125 s., ove ulteriori riferimenti, anche alla giurisprudenza costituzionale in tema di amnistia per reati tributari).
Il secondo comma dell’art. 13-bis predetto, al ricorrere della circostanza prevista dal primo comma dello stesso articolo (ovvero – deve ritenersi – al verificarsi dell’estinzione del debito tributario), e nei termini che meglio si preciseranno appresso, consente poi l’accesso al patteggiamento della pena ex art. 444 c.p.p. cui, peraltro, in via interpretativa, può giungersi anche a seguito di ravvedimento operoso (A. FAZIO, Gli effetti del ravvedimento operoso in ambito tributario e penale: convergenze e discrasie sistematiche, cit., 962).
In quest’ottica, dunque, ritenendo l’applicazione della pena su richiesta un’alternativa al processo penale, è possibile svolgere le considerazioni che seguono.
Anzitutto, per quanto concerne i reati tributari di competenza dell’EPPO, essendo tutti preveduti dal d. lgs. n. 74/2000, a tutte le relative fattispecie, in linea di massima, può dirsi applicabile l’attenuante ad effetto speciale in discorso, beninteso al verificarsi delle condizioni previste dall’art. 13-bis e, in ogni caso, sempreché non trovi già applicazione la causa di non punibilità di cui al primo comma dell’art. 13. Difatti, i delitti già compresi nel disposto di cui al primo comma dell’art. 13, ovvero, per quanto concerne i reati EPPO, quello di indebita compensazione di crediti tributari non spettanti (art. 10-quater, primo comma), ove si verifichi l’estinzione del debito tributario danno luogo all’applicazione dell’esimente e non già dell’attenuante che, appunto, non può riguardare i reati non punibili (Cass., 12 aprile 2018, n. 38684 e Cass. 23 novembre 2018, n. 10800). A tale riguardo, poiché per il riconoscimento dell’attenuante ad effetto speciale in parola occorre il pagamento del debito tributario, si potrebbe dubitare dell’applicazione della norma in esame, ad esempio, al delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti (art.8), di competenza dell’EPPO. Difatti, esso è costruito come reato a consumazione anticipata che, come tale, non dà luogo ad alcun debito d’imposta. Senonché, come osservato in dottrina, non sarebbe necessario che il debito ristorato sia conseguenza diretta del delitto essendo, invece, sufficiente che esso presenti un grado di connessione con la fattispecie e, dunque, ne rappresenti una conseguenza anche solo indiretta, purché un qualche debito tributario comunque sorga (A. LANZI P. ALDROVANDI, Diritto penale tributario, cit., 131 s., E. MUSCO F. ARDITO, Diritto penale tributario, cit., 67, nota 82).
È poi appena il caso di osservare che il secondo comma dell’art. 13-bis in discorso, laddove prevede la facoltà di chiedere l’applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p. al ricorrere della circostanza di cui al precedente primo comma (ovvero estinzione del debito tributario mediante integrale pagamento degli importi dovuti anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento), risulta ammettere altresì che l’integrale pagamento del dovuto possa avvenire anche a seguito di ravvedimento operoso. Difatti, una eventuale limitazione quanto alle procedure tributarie volte a consentire al contribuente di rimediare alle violazioni commesse, così come essa sembra emergere dalla formulazione del primo comma dell’art. 13-bis, rischierebbe di sollevare dubbi di costituzionalità (A. LANZI P. ALDROVANDI, Diritto penale tributario, cit., 130).
Quanto ai rapporti tra le fattispecie previste dagli artt. 13 e 13-bis del d.lgs. n. 74/2000, laddove il primo, come osservato, prevede un’esimente (tale da condurre all’assoluzione), mentre il secondo prevede un’attenuante (che presuppone il riconoscimento della colpevolezza), è opportuno svolgere le riflessioni che seguono.
Schematicamente, ove il secondo comma dell’art. 13-bis in parola, nell’ammettere il patteggiamento della pena, fa salve le ipotesi di cui all’art. 13, commi primo e secondo, esso sembra alludere (seppur ricorrendo ad un’espressione non del tutto inequivoca) ad un rapporto di incompatibilità reciproca tra le relative fattispecie, nel senso che pare riconoscere la concreta impossibilità di patteggiare la pena per un reato per il quale già operi una causa di non punibilità. In altri termini, la lettura sistematica della norma in esame induce a ritenere che possa chiedere il patteggiamento il reo il cui debito tributario sia risultato estinto, allorquando tale estinzione non sia già valsa l’applicazione dell’esimente di cui all’art. 13.
Peraltro, sempre in chiave sistematica, è possibile osservare che le fattispecie poste alla base degli artt. 13 e 13-bis non risultano esattamente sovrapponibili. Difatti, l’esimente di cui all’art. 13, secondo comma, presuppone che il pagamento del debito tributario sia avvenuto prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza dell’avvio di attività istruttorie o di procedimenti penali lato sensu intesi.
Diversamente, l’attenuante di cui all’art. 13-bis presuppone che il pagamento del debito tributario sia avvenuto prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado.
Pare quindi che, almeno per i delitti rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 13, secondo comma, del d. lgs. n. 74/2000, ovvero per i reati di: i) dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2), ii) dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3), iii) dichiarazione infedele (art. 4), iv) omessa dichiarazione (art. 5), tutti compresi nella competenza dell’EPPO, il reo che non sia riuscito ad estinguere i propri debiti tributari mediante l’integrale pagamento del dovuto prima dell’avvio di attività istruttorie o di procedimenti penali, non potendo quindi invocare la causa di non punibilità di cui all’art. 13, secondo comma, potrà almeno, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, effettuare il pagamento integrale del debito tributario al fine di beneficiare della circostanza attenuante di cui all’art. 13-bis che, a sua volta, consente l’applicazione della pena su richiesta a mente dell’art. 444 c.p.p. (Cass. 23 settembre 2020, n. 26529 e, in dottrina, E. MUSCO F. ARDITO, Diritto penale tributario, cit., 68 ss, nota 85).
Sul punto, tuttavia, occorre rilevare che una simile ricostruzione non risulta aver trovato unanime apprezzamento in sede giurisprudenziale, non solo con riferimento ai reati di cui al primo comma dell’art. 13, prevalentemente consistenti nell’omesso versamento di imposte (Cass., n. 47287/2019) ma, anche, con riferimento a tutti i delitti contemplati dall’art. 13-bis e, dunque, anche per quelli di cui al secondo comma del medesimo art. 13 (c.d. “reati dichiarativi”) (Cass. nn. 10800/2019; 48029/2019, 7415/2021, 11620/2021). Più in dettaglio, secondo un certo orientamento della Suprema Corte, poiché il ravvedimento operoso costituisce causa di non punibilità e, quindi, non può contestualmente assurgere a condizione per la richiesta di patteggiamento, allora occorre ammettere che per accedere alla richiesta di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. non è necessario il pagamento del debito tributario (Cass. 28 marzo 2021, n. 11620).
Al riguardo, pur sottolineando che, per quanto concerne i delitti di competenza dell’EPPO o, quanto meno, per la maggior parte di essi (quelli che in ogni caso costituiscono espressione del “nocciolo duro” delle condotte costituenti frode ai fini Iva) – che difatti rientrano nell’ambito di applicazione di cui al secondo comma dell’art. 13 – il problema di cui sopra non sembra porsi perché, come precedentemente rilevato, non vi è perfetta sovrapposizione tra le fattispecie di cui agli artt. 13, secondo comma, e 13-bis del d.lgs. n. 74/2000, non si può far a meno di osservare che la ricostruzione giurisprudenziale di cui ora si è dato conto non risulta immune da critiche, anche sotto il profilo costituzionale.
Invero, secondo l’impostazione giurisprudenziale ora sottoposta a verifica, per tutte le fattispecie di cui ai commi primo e secondo dell’art. 13 il contribuente sarebbe in condizioni di accedere al patteggiamento senza aver adempiuto all’obbligo tributario (difatti, qualora avesse adempiuto sarebbe in condizione di invocare la causa di non punibilità), diversamente nel caso di reati non rientranti nell’ambito di applicazione dei commi primo e secondo dell’art. 13 predetto, il reo, per accedere al rito alternativo del patteggiamento, così come previsto dall’art. 13-bis, comma secondo, dovrebbe aver eseguito il pagamento del debito tributario. Il tutto con evidente disparità di trattamento, tanto più ingiustificata quanto più riferita a delitti per condotte (non ricomprese nell’art. 13) non connotate da maggior disvalore sociale (come, ad esempio, quella di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, cui all’art. 8), ovvero da un minor disvalore sociale (come, ad esempio, per quella di occultamento o distruzione di documenti contabili, di cui all’art. 10), rispetto ad alcune di quelle di cui all’art. 13 medesimo (es. dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, di cui all’art. 2) che, appunto, secondo la giurisprudenza sopra citata, consentirebbero di accedere al patteggiamento senza la previa estinzione del debito tributario (F. ARDITO, Riflessioni in tema di cause di non punibilità, circostanze del reato e applicazione della pena su richiesta delle parti (c.d. patteggiamento) nei reati tributari, in Boll. Trib., 2020, 1398).
Ancora, la surrichiamata opinione giurisprudenziale che ammette il ricorso al rito alternativo del patteggiamento, senza che prima si sia proceduto all’integrale pagamento del debito tributario, sembra avere una scarsa utilità pratica. Difatti, secondo tale prospettiva, pur beneficiando il reo della riduzione della pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p., egli, non avendo saldato il proprio debito con il fisco, sarà comunque fatto oggetto del provvedimento, obbligatorio ex art. 12-bis primo comma, di confisca, tale quindi da eliminare qualsivoglia vantaggio patrimoniale conseguente al reato (S.F. COCIANI, Le confische tributarie: tra sanzione, funzione riscossiva, populismo fiscale e diritti fondamentali del contribuente, cit., 809, nota 23).
Insomma, per concludere sul punto, pare preferibile ritenere che, al fine di accedere al patteggiamento, il reo debba aver provveduto ad estinguere il debito tributario entro il termine ed alle condizioni di cui all’art. 13-bis (ovvero prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado), sempreché la medesima estinzione del debito tributario non sia già avvenuta entro il termine ed alle condizioni di cui al precedente art. 13 [vale a dire: i) entro il medesimo termine di apertura del dibattimento di primo grado per i reati di cui all’art. 13 primo comma; ii) entro il termine di presentazione della dichiarazione tributaria relativa al periodo d’imposta successivo rispetto a quello per il quale essa è stata omessa e, comunque, prima della formale conoscenza dell’avvio di procedimenti tributari o penali per i reati di cui all’art. 13 secondo comma (termini entrambi prorogabili ai sensi e alle condizioni di cui al terzo comma del medesimo art. 13)] (Cass., 23 luglio 2021, n. 28950).
Ancora, sotto il profilo problematico, si può talvolta porre la questione di quale misura del debito tributario considerare al fine dell’estinzione dello stesso per poi beneficiare, alternativamente, della causa di non punibilità (ex art. 13, primo comma), ovvero della circostanza attenuante la cui sussistenza è necessaria per accedere al rito alternativo di cui all’art. 444 c.p.p. (ex art. 13-bis). Difatti, in ossequio al principio del doppio binario tra procedimento amministrativo tributario, da un lato, e procedimento penale, dall’altro, potrebbe anche darsi il caso in cui la misura del debito tributario sia differentemente determinata in sede penale rispetto a quanto accertato in sede tributaria. Ebbene, il riferimento alle “speciali procedure conciliative” – così come fatto agli artt. 13 e 13-bis del d. lgs. n. 74/2000 – induce a privilegiare la determinazione dell’entità del debito fiscale così come fatta in sede in sede tributaria (E. MUSCO F. ARDITO, Diritto penale tributario, cit., 70 s.). Tale soluzione, peraltro, sembra altresì maggiormente coerente sotto il profilo sistematico, stante la già osservata funzione servente del sistema penale rispetto all’interesse fiscale, ordinamentale.
Per completezza, in caso di pluralità di concorrenti, qualora solo uno di essi dovesse provvedere all’estinzione del debito tributario, risarcendo così il danno, la natura oggettiva dell’attenuante induce a ritenere che possano ammettersi al patteggiamento anche tutti gli altri concorrenti. Coerentemente, sotto il profilo sistematico, è appena il caso di osservare che, da tempo, il legislatore estende ai concorrenti l’effetto dell’adesione – da parte di taluno – al condono fiscale (cfr. art. 1, comma 2-septies, d. l. 24 giugno 2003) (anche Corte cost., 12 gennaio 1995, n. 19). Come già osservato, analoghe considerazioni, stante la natura oggettiva dell’esimente di cui all’art. 13, possono farsi anche in ordine alla non punibilità del concorrente che abbia beneficiato dell’estinzione del debito tributario effettuata da altri, peraltro in conformità con la natura solidale della relativa obbligazione tributaria.
Da ultimo, con riferimento alla compatibilità con i principi costituzionali della previsione secondo cui costituisce causa di non punibilità (art. 13), ovvero circostanza attenuante (art. 13-bis), il pagamento del debito tributario, è appena il caso di annotare che la Corte costituzionale ha ritenuto non manifestamente irragionevole, né arbitraria, la relativa scelta legislativa, quindi da considerarsi legittima rispetto agli artt. 3 e 24 Cost. (Corte cost. 28 maggio 2015, n. 95). Difatti, secondo la Consulta, in tema di reati tributari vi è una tendenziale correlazione tra entità del danno cagionato e risorse economiche del reo (analogamente: Corte Cass., 1° agosto 2017, n. 38210). A quest’ultimo riguardo, stante il più elevato grado di tutela apprestato dal sistema dei diritti fondamentali, così come elaborato dalla giurisprudenza della Corte EDU e della Corte di Giustizia, potrebbe forse ragionarsi sulla compatibilità delle predette norme rispetto al principio comunitario di proporzionalità, nonché rispetto divieto di discriminazione che, all’art. 14 del Trattato EDU, tra tutte le possibili condizioni capaci di attuare un’ingiustificata limitazione dei diritti dell’uomo, prevede appunto anche la ricchezza.
Tuttavia, anche se l’accennata indagine esula dai limiti del presente lavoro e, dunque, non può essere in questa sede affrontata come merita, sembra comunque possibile osservare che, specie per quanto concerne l’applicabilità dell’esimente di cui all’art. 13-bis, la comminatoria della sanzione penale – seppur nella misura ridotta e concordata ai sensi dell’art. 444 c.p.p. – presuppone in ogni caso l’avvenuto pagamento dell’imposta, degli interessi e delle relative sanzioni amministrative che, come noto, sono normalmente correlate alla misura del tributo evaso.
Quanto appena osservato, dunque, rischia di dar luogo (almeno) a due ordini di problematiche.
La prima, stante il carattere verosimilmente afflittivo della sanzione amministrativa assolta (in quanto commisurata al tributo evaso), sembra idonea a mettere in luce la natura sostanzialmente penale della sanzione tributaria, solo formalmente denominata come “amministrativa”, dando così luogo ad un odioso cumulo di sanzioni (amministrative e penali), tale da porsi probabilmente in contrasto con il noto principio del ne bis in idem, specialmente sotto il profilo della violazione del principio di proporzionalità (S.F. COCIANI, Sul divieto di cumulo tra sanzioni penali e sanzioni amministrative in materia tributaria, in Riv. dir. trib., 2015, I, 405 ss., ID., Sul divieto di cumulo tra sanzioni penali e tributarie nella prospettiva della riforma dell’ordinamento tributario italiano, in Malena Errico, María Inés Blankenhorst de Tarelli, Jorge Feijoo, Diálogos de la cultura jurídica ítalo-argentina, Ciudad Autónoma de Buenos Aires, La Ley, 2022, 379 ss., R. ALFANO, Sanzioni amministrative tributarie e tutela del contribuente, Napoli, 2020, 217 ss.).
La seconda, appunto, laddove si subordina l’applicazione della circostanza attenuante ad effetto speciale di cui all’art. 13-bis al pagamento, oltre che del tributo e degli interessi, anche delle sanzioni al primo normalmente commisurate, pare tale da mettere in dubbio la portata giustificatrice della correlazione – positivamente apprezzata dalla giurisprudenza costituzionale – tra l’entità del danno cagionato (rappresentato dal mancato versamento dell’imposta) e le risorse economiche del reo (necessarie ad estinguere l’intero debito tributario). Difatti, quanto necessario ad estinguere l’intero debito tributario (comprensivo delle sanzioni all’imposta evasa commisurate), per poi invocare l’attenuante in discorso, potrebbe anche non essere nella disponibilità del reo, così da oggettivamente impedire ad esso di beneficiare della previsione di cui all’art. 13-bis, secondo comma. Quanto osservato, in altri termini, pare costituire un’ingiustificata discriminazione ai danni di colui il quale non abbia i mezzi per pagare, non tanto il tributo (che rappresentando la misura del danno cagionato dalla condotta antigiuridica impone di essere risarcito), quanto le sanzioni amministrative al tributo stesso correlate (tanto più in quanto dovute in aggiunta a quelle penali, per non dire, poi, che al ravvedimento operoso non si applicano le disposizioni sul cumulo giuridico, come noto applicabili solo dall’ufficio impositore (art. 12 d. lgs. n. 18 dicembre 1997, n. 472), di tal guisa probabilmente eccedendo i limiti di ciò che è necessario al conseguimento degli scopi legittimamente perseguiti dal legislatore. Ne consegue che, in presenza di plurime violazioni, il contribuente che voglia definire le proprie pendenze con il fisco anche al fine di accedere al patteggiamento, nelle ipotesi previste dall’art. 13, secondo comma, del d. lgs. n. 74/2000, dovrà necessariamente rimediare prima di ricevere formale contestazione. In tal caso, tuttavia, lo stesso – in sede di ravvedimento operoso – sarà tenuto a versare le sanzioni amministrative secondo il cumulo materiale e, ad esse, vedrà poi ulteriormente cumularsi la sanzione penale concordata ex art. 444 c.p.p. Pare quindi che l’accesso al patteggiamento a seguito di ravvedimento operoso sia subordinato ad un esborso finanziario, dovuto per lo più alle sanzioni amministrative, specie ove determinate senza tener conto del cumulo giuridico, probabilmente ingiustificato sotto il profilo della ragionevolezza e della proporzionalità (Corte giust., Ntionik e Pikoulas, C-430/05, EU:C:2007:410, punto 53, nonché Corte giust., Urban, C-210/10, EU:C:2012:64, punto 23).
Quanto sopra impone quindi di affidare la funzione deflattiva del processo penale, per i reati in discorso, unicamente a strumenti compensativo-riparatori, peraltro coerentemente con la funzione, servente, del sistema penale rispetto all’interesse fiscale, ordinamentale.
Tuttavia, l’estinzione del reato, e ancor più la sua definizione attraverso l’applicazione della pena concordata ai sensi dell’art. 444 c.p.p., laddove risulta subordinata alla definizione dell’intiero debito tributario, come osservato costituito da imposte, interessi e sanzioni amministrative, queste ultime, a loro volta, commisurate all’ammontare dei tributi evasi, rischia di porsi in tensione con i canoni di ragionevolezza, proporzionalità e necessità, vieppiù considerata la misura del danno, specie allorquando l’estinzione dell’intero debito tributario sia condizione per l’accesso al patteggiamento della pena che, per parte sua, presuppone comunque l’irrogazione di una sanzione, penale, in aggiunta a quella (formalmente) definita come “amministrativa”.
Quanto sopra, dunque, solleva interrogativi di non poco momento: sia sotto il profilo dei rapporti tra sanzioni amministrative e penali, cui si aggiunge il sospetto di alterazione della funzione e della natura della sanzione amministrativo-tributaria – trasformata, questa, in un ircocervo che mescola i caratteri della sanzione amministrativa “sostanzialmente penale”, con quelli della misura di diritto pubblico o, addirittura, della sanzione civile, legale/negoziale, ultracompensativa (F. CONSULICH – M. MIRAGLIA – A. PECCIOLI, a cura di, Alternative al processo penale? Tra deflazione, depenalizzazione diversion e prevenzione, Torino, 2020, passim) –, sia, in definitiva, sotto il profilo della tutela dei diritti fondamentali del contribuente/imputato, tanto più in considerazione dell’ampia nozione di “materia penale” accolta dalla Corte EDU cui, di recente, si è andata allineando anche la nostra Corte costituzionale (M. DONINI - L. FOFFANI, a cura di, La “materia penale” tra diritto nazionale ed europeo, Torino, 2018, passim). Al riguardo, è appena il caso di osservare che una lettura sistematica della Raccomandazione del Comitato dei Ministri agli Stati membri sulla giustizia riparativa, in materia penale, porta a ritenere che la prospettiva da privilegiare sia quella di elevare la soglia di rispetto e di accoglienza dei bisogni e dei diritti dell’autore del reato e non certo quella di abbassare la soglia dei diritti e delle necessità propri della vittima (CM/Rec/2018/8 su cui G. MANNOZZI, La Diversion: gli istituti funzionali all’estinzione del reato tra processo e mediazione, in F. Consulich – M. Miraglia – A. Peccioli, a cura di, Alternative al processo penale? Tra deflazione, depenalizzazione diversion e prevenzione, cit., 49).
Pertanto, solo il futuro ci dirà quanta fortuna avranno le alternative al processo penale, in materia di reati tributari di competenza dell’EPPO, così come fondate su condotte riparatorie tali da minimizzare il ricorso alla pena detentiva.