argomento: Sanzioni e contenzioso - Legislazione e prassi
La riforma della giustizia tributaria vive stagioni contrastate. La professionalizzazione del giudice tributario, in particolare, ha dapprima polarizzato il dibattito scientifico, quindi ha ispirato soluzioni oscillanti tra l’istituzione di sezioni specializzate e l’assorbimento della giurisdizione tributaria in quella contabile. Adesso, in parziale recepimento delle indicazioni offerte dalla Commissione interministeriale deputata ad elaborare proposte di interventi in materia di giustizia tributaria, il Governo si è determinato a promuovere l’istituzione del giudice tributario di ruolo e caldeggia altri meccanismi di efficientamento del rito. Si compie, in questo modo, un passo importante nella direzione della costruzione di un modello processuale più maturo. Tuttavia, al netto di alcune perplessità di cui si darà conto, ove pure il progetto vedesse la luce, la mancata previsione del passaggio del nostro giudice alle dipendenze della Presidenza del Consiglio dei ministri inibirebbe il naturale afflusso al giudizio di legittimità delle competenze e dell’esperienza che il nuovo togato è destinato a maturare nelle Corti di merito. Si rischia, in questo modo, di perdere un’occasione preziosa per rendere più efficiente, equilibrato e ‘giusto’ il processo tributario nel suo complesso e, dunque, per rimuovere il ‘collo di bottiglia’ oggi rappresentato dal procedimento in cassazione, il cui parallelo percorso di riforma, a dir poco frastagliato, punta a deflazionare i ruoli e a smaltire l’arretrato con discutibili soluzioni emergenziali, anziché a recuperare quella funzione nomofilattica ‘sostanziale’ che solo un giudice esperto della materia può autorevolmente assolvere.
PAROLE CHIAVE: Giudice tributario - Riforma - PNRR
di Gianluca Selicato
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza parrebbe essere riuscito a smuovere i lavori della riforma del processo tributario, a lungo imbrigliati in un groviglio di iniziative, ipotesi di lavoro e proposte di varia natura (talvolta semi-serie), indicative di sensibili divergenze nella percezione dei limiti della giurisdizione in materia di tributi e di una mancata condivisione delle premesse, delle direttrici e degli obiettivi di un intervento riformatore. La priorità individuata nel PNRR, in realtà, è quella di intervenire sul giudizio di merito per ridurre i ricorsi alla Corte di cassazione, consentendone una trattazione più spedita. Nel loro ragionamento, però, gli estensori del Piano hanno riconosciuto la rilevanza e la delicatezza del ruolo delle Commissioni tributarie, soprattutto per l’impatto che le loro decisioni hanno sulla fiducia degli operatori economici nazionali e stranieri.
Ebbene, rispetto al proposito di approdare ad una riforma del rito entro il 31 dicembre 2022, già il 17 maggio 2022 il Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell’Economia e delle finanze e di quello della Giustizia, ha licenziato uno schema di disegno di legge recante “Disposizioni in materia di giustizia e di processo tributari”. In questa proposta, l’impronta del Ministero delle finanze si avverte chiaramente, soprattutto nella scelta di mantenere il Giudice tributario alle sue dipendenze. Ma prima di affrontare i riflessi di questa discutibile opzione non ci si può esimere dall’apprezzare l’impulso alla professionalizzazione del magistrato tributario, nel solco di sollecitazioni che da tempo alimentano il dibattito sulla riforma (cfr. A. Giovanardi, M. Antonini, Per un giudice tributario togato a tempo pieno: se non ora quando?, in Fisco, 2021, pag. 2051 ss.). Del resto, quasi tutte le proposte formulate, nell’ultimo decennio, nelle sedi più disperate presentavano alcuni tratti comuni: quello dell’opzione per un giudice tributario a tempo pieno; quello della parità delle armi tra le parti in giudizio; quello del necessario deflazionamento dei ruoli, con particolare riferimento alla Suprema corte.
Le filosofie di fondo di ciascun progetto di riforma erano tuttavia differenti (per una compiuta ricostruzione dei principali progetti di riforma si vedano C. Buccico, L. Letizia, Verso la riforma della giustizia tributaria nella prospettiva della terzietà e imparzialità del giudice, in Giur. Imp., 2019, pag. 299): sul versante dei contribuenti e del più nutrito gruppo di studiosi della materia, il nuovo processo tributario avrebbe dovuto garantire una maggiore imparzialità del giudice, intesa non come inclinazione ad esprimere un giudizio oggettivo e terzo, dal momento che questo obiettivo è stato già raggiunto con la più meditata e strutturale riforma del ’92; ma, piuttosto, come puntuale e rigoroso presidio, da parte dell’organo giudicante, del diritto tributario e dei suoi sempre più complessi schemi evolutivi (ex multis, cfr. G. Ragucci, Sulla necessità di una riforma della giustizia tributaria che assicuri la indipendenza e la professionalità dei giudici, in Neωtepa, n. 1/2018; M. Basilavecchia, La riforma del giudice e del processo tributario, Rass. trib., 2020, pag. 55, ss.). La professionalizzazione del giudice tributario, in altri termini, avrebbe dovuto renderlo maggiormente ‘padrone’ della materia e, dunque, capace di discernere tra le contrapposte tesi giudiziali non già in conseguenza dalla loro suggestività e dall’abilità con cui vengono esposte negli atti o affrontate nella discussione orale ma, piuttosto, in ragione della loro maggiore o minore prossimità al diritto, nell’applicazione che il giudice di merito è chiamato a fare anche in considerazione – e non in ossequiosa conformazione – degli orientamenti della Suprema corte, sempre più instabili, coincisi e generici e, soprattutto, maliziosamente selezionati ad arte dalle parti processuali. Su questo profilo si tornerà a breve.
Le riserve adombrate sulla sostenibilità finanziaria di una simile transizione della giustizia tributaria da un modello onorario e quasi volontaristico ad uno fondato sul reclutamento concorsuale e sulla conseguente professionalizzazione del giudice sono state affrontate, in una prima fase, con proposte che hanno puntato alla limitazione del ruolo del ‘giudice professionale’, peraltro monocratico, al solo grado d’appello con una significativa riduzione dei costi che è stata finanche prospettata al Ministero dell’economia e delle finanze nella fase conclusiva del Governo Renzi.
E’ stata poi la volta del Governo Conte, con altre iniziative che suggerivano di inglobare il processo tributario in differenti giurisdizioni le quali, in verità, non apparivano così contigue, facendosi interpreti – com’è avvenuto nel caso della proposta avanzata dalla Corte dei Conti – di una mai sopita inclinazione ad interpretare in modo particolarmente rigoroso la tutela del credito erariale. Proposte di questo tipo preludevano, probabilmente, ad una revisione ancor più incisiva del processo tributario, ponendo in seria discussione l’impostazione e le correlate scelte di fondo dell’antecedente riforma che aveva deliberatamente (ed apprezzabilmente) identificato con quello civile il modello processuale di riferimento di un giudizio rimesso all’iniziativa delle parti e al principio della domanda, con buona pace degli schemi pubblicistici di più risalente memoria. È stata finanche adombrata, dallo stesso Governo Conte, una confusa ipotesi di soppressione di un grado di giudizio, con il concreto rischio di una radicale inversione di rotta rispetto al faticoso e graduale percorso di effettiva ‘giurisdizionalizzazione’ del processo tributario attuato nel solco di risalenti indicazioni della Consulta ed ispirato a modelli processuali più consolidati e maturi che si sforzano di assicurare il rispetto dei principi e dei valori enucleati nelle elaborazioni più o meno risalenti del ‘giusto processo’.
Lungi dal potersi identificare elementi minimi comuni di un ordinato ‘cantiere’ di lavoro, si era coagulato, in questo modo, un coacervo di istanze, un coro di voci discordanti, proposte eterogenee e divergenti destinate ad operare su piani differenti, propense a rimeditare in tutto o in parte la struttura stessa del processo senza nemmeno soffermarsi sulle conseguenze intanto procurate da alcuni interventi (solo in apparenza) ‘manutentivi’ del contenzioso tributario stratificatisi in pochi anni. Nessuno si è fatto carico, ad esempio, di capire cosa dovesse essere rimosso dei precedenti ‘orpelli’: fino a che punto, in altri termini, pur a valle del suo vaglio di costituzionalità, la mediazione tributaria abbia ancora ragion d’essere, nell’attuale sua dimensione applicativa (controversie di valore inferiore a cinquantamila euro per ciascuna singola annualità), in una dimensione realmente deflattiva del contenzioso. Nessuno ha misurato le conseguenze del maggior rigore che pervade il giudizio di legittimità né risulta esser stata valutata l’effettività del diritto di difesa in esito ad una abnorme espansione della trattazione in camera di consiglio, sempre in Cassazione, delle questioni fiscali. Ancora, non sembra esservi stata alcuna seria ponderazione, in sede parlamentare o governativa, delle conseguenze dei più recenti interpelli per l’arruolamento dei nuovi giudici tributari (alcuni riservati ai magistrati togati) sugli assetti e sulle competenze interne dei Collegi giudicanti. Ed anche le interferenze del caro-giustizia sull’esercizio del diritto di difesa del contribuente sono rimaste all’ombra di un confronto parlamentare che non è mai sembrato capace di innescare una riforma adeguata alla qualità del dibattito scientifico su questi temi.
Tant’è che, nell’assenza di proposte parlamentari o governative dotate di sufficiente stabilità, era finanche nato un coordinamento spontaneo tra ordini professionali ed associazioni esponenziali di interessi qualificati che aveva provato a costruire il recinto di quell’agognato ‘cantiere’ la cui assenza ha destato seria preoccupazione. Si tratta di dodici sigle, ovvero: Associazione Magistrati Tributari (A.M.T.), Associazione Nazionale Commercialisti (A.N.C.), Associazione Nazionale Tributaristi Italiani (A.N.T.I.), Associazione Italiana Professori Diritto Tributario (AIPDT), Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili (CNDCEC), Consiglio Nazionale Forense (CNF), Istituto Governo Societario (IGS), Italia Decide (I/D), Osservatorio Giustizia Tributaria (OGT), Società Studiosi Diritto Tributario (SSDT), Unione Nazionale Camere Avvocati Tributaristi (UNCAT), Osservatorio Internazionale Dogane Accise (OIDA). All’esito dei suoi lavori del 7 novembre 2019 fu adottato un documento congiunto che provava ad individuare quattro caposaldi del processo di riforma sui quali andrebbe assicurata unità d’intenti all’egida del ‘rispetto del dettato costituzionale che prevede un sistema di pluralismo del sistema giudiziario, con la giurisdizione tributaria come quarta giurisdizione autonoma, terza e indipendente’. Questi i principi di fondo suggeriti: a) assicurare la presenza di un giudice professionale selezionato per concorso e soggetto a formazione continua con la previsione di un adeguato regime transitorio di salvaguardia delle professionalità acquisite; b) sottrarre la magistratura tributaria al vincolo di dipendenza dal Ministero dell’Economia e delle Finanze; c) garantire la piena parità delle parti processuali in osservanza dell’art. 111 Cost.; d) conservare il Consiglio di Presidenza della Giustizia tributaria quale organo di autogoverno dei Giudici Tributari.
Il disinteresse con cui il Governo ha affrontato, nel passato, tali proposte e la debolezza dell’azione parlamentare su questi temi hanno a lungo testimoniato la difficoltà di intervenire in un comparto della giurisdizione che, in qualche modo, aveva raggiunto un proprio equilibrio, riuscendo finanche a garantire, negli ultimi tempi, un’inusitata speditezza nella celebrazione dei gradi di merito. Ma l’insoddisfazione diffusa per un’alea giudiziale eccessivamente elevata, frutto di un governo non sempre adeguato della materia da parte di alcuni magistrati, e i tempi e le modalità di trattazione delle controversie approdate all’esame della Suprema corte hanno continuato ad alimentare quel fuoco sotto la cenere che la Commissione interministeriale per elaborare proposte di interventi in materia di giustizia tributaria ha intercettato e compiutamente analizzato e che il Governo, nel solco delle indicazioni della Commissione stessa e del PNRR, sta tentando adesso di spegnere con la più recente proposta del maggio 2022.
In effetti, si colgono chiaramente alcuni collegamenti tra la proposta di schema legislativo appena varata dal Governo e i lavori della Commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria, istituita con un decreto del Ministro della giustizia e del Ministro dell’economia e delle finanze il 14 aprile 2021 e che ha avuto il merito di restituire ad una ‘dimensione istituzionale’ il confronto sugli scenari ‘possibili’ della riforma del processo tributario. Nella sua relazione conclusiva del 30 giugno 2021, la Commissione presieduta da Giacinto Della Canamea ha chiarito quali fossero i propri compiti, rimarcandone la natura ricognitiva, propositiva in senso ampio, nonché precettiva, nel senso che avrebebe dovuto formulare proposte di disposizioni legislative che potessero essere incluse in atti del Governo o del Parlamento. Ha altresì posto in luce la palese divergenza di vedute, già sul profilo ordinamentale, tra la componente di derivazione accademico-professionale, favorevole al giudice professionale per concorso e ad un giudice onorario, monocratico, solo per le liti minori, e quella magistratuale, più conservativa, favorevole all’ipotesi di istituzione di sezioni specializzate nelle Commissioni tributarie regionali composte da giudici ordinari, amministrativi e contabili “fuori ruolo” a tempo limitato, da professori universitari di ruolo e da professionisti con più di 15 anni di effettivo esercizio della professione.
Sul versante dei profili procedimentali e processuali è stato invece proposto il mantenimento del reclamo/mediazione con l’ulteriore facoltà, per il giudice, di formulare proposte conciliative per le questioni di facile e pronta soluzione; la modifica delle discipline del contraddittorio pre-accertativo e dell’autotutela tributaria; la consacrazione del principio di inutilizzabilità degli elementi di prova acquisiti in violazione di diritti fondamentali; la possibilità per il giudice di autorizzare la prova testimoniale in forma scritta sulle dichiarazioni di terzi contenute in atti istruttori; la facoltà del giudice di disporre il rinvio pregiudiziale alla Suprema corte. L’ultima di queste proposte è espressione della componente magistraturale, le altre di quella accademico-professionale.
A poco meno di un anno dal deposito della relazione finale, nel corso del quale sono state rivolte non poche critiche all’atteggiamento conservativo sottostante le posizioni assunte da alcuni componenti la Commissione (si vedano, ad es., C. Glendi, Riforma della giustizia tributaria: così non va!, editoriale del 17 luglio 2021 del Quotidiano Ipsoa; A. Marcheselli, Aspettando Godot. Note minime e minoritarie a margine della proposta di riforma della Giustizia tributaria, in Giustiziainsieme.it, 12 Luglio 2021), il Governo si è dunque avvalso, almeno in parte, dei risultati di un lavoro che ha prospettato soluzioni ragionevoli e da tempo condivise in risposta alle criticità dell’attuale sistema.
Risulta recepita, su tutto, l’indicazione della necessità di istituire il magistrato tributario ‘professionale’. Infatti, intervenendo sul d.lgs. 545/1992, ovvero sulla vigente disciplina dell’ordinamento degli organi speciali di giurisdizione tributaria, e sostituendone l’art. 4 (rubricato ‘i giudici delle commissioni tributarie provinciali’), il Governo ha proposto che la nomina a magistrato tributario si consegua “mediante un concorso per esami bandito con cadenza di norma annuale in relazione ai posti vacanti e a quelli che si renderanno vacanti nel quadriennio successivo, per i quali può essere attivata la procedura di reclutamento”. In disparte ogni considerazione sulla disciplina delle prove concorsuali e sull’effettivo peso che, al suo interno, dovrà essere riconosciuto al diritto tributario sostanziale e processuale (soprattutto in ragione della composizione delle commissioni concorsuali, ancora una volta inopportunamente affidata alle cure del MEF, sia pure in base alle deliberazioni del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria), la scelta del reclutamento mediante apposito concorso di un Giudice a tempo pieno va nel solco delle soluzioni da più parti caldeggiate e, in particolare, è conforme alle indicazioni della Commissione interministeriale.
Un giudizio positivo può esprimersi anche sulla prospettata istituzione del giudice monocratico, in primo grado, per le controversie di valore non superiore a tremila euro, sebbene a tale opzione corrispondano discutibili limitazioni dell’impugnazione delle sue sentenze (cd. appello critico) di cui a breve si dirà.
Si prevede, inoltre, la rimodulazione dell’organico della magistratura tributaria (450 magistrati in primo grado e 126 in secondo) ed un regime transitorio in base al quale, fino al completamento del percorso di reclutamento dei giudici professionali, gli attuali giudici tributari onorari resteranno in servizio (ruolo ad esaurimento), ma fino al compimento dei 70 anni di età, anziché agli attuali 75. Tale ultima previsione prelude a difficoltà organizzative non trascurabili, dovute alla attuale presidenza delle commissioni tributarie che è spesso affidata a giudici di età compresa tra i 70 e i 75 anni.
Il vero ‘neo’ della proposta di riforma, però, consiste nella scelta, per nulla condivisibile, di lasciare immutato l’attuale impianto normativo, più volte criticato negli anni, che affida la gestione e l’organizzazione della giustizia tributaria al Ministero dell’Economia e delle Finanze (su questi temi, su tutti, A.F. Uricchio, Atti e poteri del giudice tributario. Tra principi del «giusto processo» estensione della giurisdizione tributaria, Bari, 2007). La conferma di tale impianto genera evidenti e gravi problemi di dipendenza e terzietà del “nuovo” magistrato tributario proprio perché comunque dipendente da una delle parti in causa. Se da un lato appaiono eccessivi i timori di chi, da tempo, sostiene che tale assetto possa incidere sulla sua autonomia valutativa, dall’altro è innegabile che la mancata previsione del passaggio del Giudice tributario allee dipendenze del Ministro di grazia giustizia o, quantomeno, della Presidenza del Consiglio dei ministri, ne precluderà l’accesso alla Corte di Cassazione, con il paradosso che proprio ai giudici fortemente specializzati sarà esclusa la possibilità di appartenere ai ranghi dei giudici di legittimità. Si prevede, dunque, un giudice tributario che non concorrerà a garantire l’interpretazione uniforme della legge e che non parteciperà alla definizione degli orientamenti giurisprudenziali e alla soluzione delle questioni di particolare rilevanza, su cui di norma decidono le sezioni della Corte.
E’, dunque, innegabile che la conservazione della dipendenza dal Ministero dell’Economia e delle Finanze costituisce l’aspetto più fragile e meno condivisibile del progetto di riforma, preludendo all’istituzione di una magistratura “minore”, in quanto esposta a limiti oggettivi ed al rischio di una duplice dipendenza culturale che fa dubitare della possibilità di un reale progresso del diritto tributario. Questa soluzione, incomprensibilmente, si atteggia a vizio logico della stessa proposta di riforma, perché inibisce il naturale afflusso al giudizio di legittimità delle competenze e dell’esperienza che il nuovo togato maturarà nelle Corti di merito. Si rischia, in questo modo, di perdere un’occasione preziosa per rendere più efficiente, equilibrato e ‘giusto’ il processo tributario nel suo complesso e, dunque, per rimuovere il ‘collo di bottiglia’ oggi rappresentato dal procedimento in cassazione (esattamnte nel solco delle indicazioni del PNRR), il cui parallelo percorso di riforma, a dir poco frastagliato, punta a deflazionare i ruoli e a smaltire l’arretrato con discutibili soluzioni emergenziali, anziché a recuperare quella funzione nomofilattica ‘sostanziale’ che solo un giudice esperto della materia può autorevolmente assolvere.
Ma prima ancora di soffermarsi sui perduranti limiti del giudizio di legittimità, evidentemente non risolti dalla recente proposta del Governo, conviene completarne l’esame ed individuarne altre possibili lacune, in funzione di una auspicabile correzione in sede parlamentare: a latere di un apprezzabile generale potenziamento della giustizia tributaria attraverso il reclutamento di nuovo personale addetto anche alle funzioni amministrative delle commissioni tributarie e l’istituzione di nuovi servizi del Consiglio di presidenza della Giustizia tributaria (ufficio ispettivo ed ufficio del massimario nazionale), il Governo si presenta eccessivamente timido anche in relazione al tema, fortemente segnalato dalla Commissione interministeriale, dell’accesso generalizzato al precedente giurisprudenziale, in linea con il dibattito e il crescente interesse per la c.d. giustizia predittiva. A tale riguardo, mentre la Commissione di esperti aveva denunciato i gravi ‘limiti informativi’ riguardanti la giurisprudenza di merito, in quanto non facilmente accessibile ai cittadini e ai loro difensori, il Governo ha proposto una soluzione che non convince appieno, affidando il compito di riequilibrare le fonti di scienza delle parti in giudizio al nuovo ufficio del massimario nazionale che dovrebbe essere disciplinato dall’art. 24-bis del d.lgs. 545/92. Secondo questa disposizione, il nuovo ufficio del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria dovrà “rilevare, classificare e ordinare in massime le decisioni delle Commissioni tributarie regionali e le più significative tra quelle emesse dalle Commissioni tributarie provinciali”, così alimentando una banca dati della giurisprudenza di merito che resterà gestita, tuttavia, dal Ministero dell’economia e delle finanze, ovvero da una parte necessaria della maggior parte dei giudizi tributari. Si tratta di indicazioni abbastanza generiche, soprattutto in ordine ai tempi del completamento e dell’entrata in funzione di questa banca dati, così rischiando di restare elusa la raccomandazione della Commissione Della Canamea che ben avrebbe potuto essere raccolta con l’apertura ai difensori dei contribuenti del sistema di accesso al precedente giurisprudenziale attualmente utilizzato dai magistrati tributari e dall’Amministrazione finanziaria.
Ci si limita, da ultimo, a segnalare le innovazioni del rito contenute nella proposta governativa, considerato che ciascuna di esse merita un più ampio ed accurato esame sul possibile impatto di carattere sistematico nello svolgimento processuale. Le novità attengono, in primis, la previsione dei già accennati limiti all’impugnabilità in appello delle sentenze della del Giudice monocratico, che verrebbe ammessa solo per violazione delle norme sul procedimento, per violazione di norme costituzionali o di diritto dell’Unione europea, ovvero di principi regolatori della materia. Al di là delle incertezze che l’ampiezza di siffatte espressioni può determinare, questa scelta può tradursi in una palese violazione dell’articolo 24 della Costituzione che tutela l’incomprimibile ed inviolabile diritto di ogni cittadino-contribuente ad una piena ed effettiva tutela giurisdizionale “in ogni stato e grado del procedimento”. A ciò si aggiunga che le controversie di valore fino a tremila euro non possono essere annoverate tra le cd. “cause bagatellari”, dal momento che, ai sensi dell’articolo 12, comma 2, del decreto legislativo n. 546 del 1992, per “valore della lite” si intende, infatti, il solo “importo del tributo al netto degli interessi e delle eventuali sanzioni irrogate con l’atto impugnato”. Un atto impositivo recante una pretesa, per soli tributi, di tremila euro, esprime quasi sempre una correlata pretesa sanzionatoria e per interessi superiore al valore della sola imposta, oltre che un riflesso quasi scontato su numerose e gemelle ulteriori annualità (soprattutto quando si tratti di tributi locali).
Per nulla condivisibile, nella dimensione del giurista, è l’ipotesi di deflazionare il contenzioso con istituti ‘grezzi’ e scarsamente equi quale il c.d. ‘caro giustizia’. Ai sensi dell’articolo 2, comma 3, dello schema legislativo, tuttavia, si prevede un generalizzato incremento del contributo unificato tributario che rende inevitabilmente più gravosa la difesa e l’azionamento di un rimedio processuale che, a differenza degli altri, reagisce ad un atto unilateralmente formato dall’ente impositore ma che, a prescindere dalla sua legittimità, ove non impugnato, modificherebbe irrimediabilmente la sfera giuridica del contribuente. Peraltro, all’incremento in termini assoluti del CUT si aggiunge il raddoppio del contributo unificato in caso di inammissibilità o rigetto integrale del ricorso anche nei gradi tributari di merito.
La proposta del Governo prevede, inoltre, la possibile formazione di una prova testimoniale scritta, ma solo nell’ipotesi in cui sia necessario contrastare un atto pubblico: in disparte ogni considerazione sull’opportunità di annoverare tale prova tra quelle ammesse nel giudizio in materia di tributi, una simile limitazione non appare rispondente ai principi declamati dai sostenitori della prova testimoniale, per i quali non può prescindersi da una ricostruzione diretta dei fatti da parte del giudice con tutti i mezzi possibili e, quindi, senza limitazioni nello strumentario probatorio. In tale contesto, viene spesso evocato l’orientamento prevalente della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo la quale ritiene che la prova testimoniale possa essere ammessa senza limitazioni di caso o di materia, seppur in seguito ad attenta valutazione da parte del giudice. Ci si limita ad osservare che, all’esito dei propri lavori, la Commissione interministeriale aveva proposto un differente perimetro applicativo della prova testimoniale, suggerendone l’impiego sulle sole circostanze oggetto di dichiarazioni di terzi contenute in atti istruttori. Non è del tutto chiaro se le due previsioni coincidano, ferma restando la necessità di chiarire, nella proposta governativa, il rapporto tra il nuovo istituto e la querela per falso.
Lo schema legislativo non sembra aver preso in alcuna considerazione, invece, i contenuti del contributo offerto dal CNEL a valle completamento dei lavori della Commissione interministeriale, con il suo atto d’iniziativa legislativa presentato il 28 ottobre 2021 a firma dei proff. Treu, Gallo e De Stefano che aveva prospettato una differente delega per la “riforma dell’ordinamento della giustizia tributaria e del contenzioso tributario” ed una parallela integrazione dello Statuto dei diritti del contribuente. All’egida del mantenimento della giurisdizione speciale tributaria, veniva poposta, in questo caso, un’inedita “conciliazione amministrativa” (lettera n del comma 1 dell’art. 1), riconoscendo al Procuratore generale presso la Corte di Cassazione (lettere v) e w) dello stesso comma) la facoltà di richiedere la fissazione urgente di cause seriali o di rilevante importanza e di sottoporre, su richiesta del giudice di merito, un quesito pregiudiziale alla S.C., con la sospensione automatica della causa fino all’esito del procedimento incidentale (su questa proposta erano state manifestate, del resto, alcune perplessità, in buona parte fondate su un carattere eccessivamente ‘autoritario’ del nuovo modello processuale, da C. Glendi, La giustizia tributaria si riforma dal basso e dall’alto, editoriale del 20 novembre 2021 del Quotidiano Ipsoa).
In disparte le già osservate premesse dell’anelito riformatore contenuto nel PNRR, che suggerisce di intervenire sul giudizio di merito per migliorare l’efficienza di quello di legittimità - ritenuto a ragione il principale fattore di diniego di giustizia in virtù dei suoi tempi e, sia consentito dirlo, molte volte della qualità delle sue decisioni - qualsiasi serio intervento sugli istituti processuali tributari andrebbe accuratamente raccordato con l’ulteriore, parallelo e per molti aspetti ‘autoportante’ anelito riformatore del procedimento in cassazione che, a differenza di ciò che si è appena visto per il giudizio tributario di merito, ha subito e continua a subire un’alluvione di innesti legislativi e che è adesso destinato a risentire anche delle conseguenze della recentissima approvazione (25 novembre 2021) del disegno di legge 1662/2020 recante la delega al Governo di ‘efficientamento’ del processo civile. Ancora una volta, infatti, si dispone la revisione di istituti introdotti con logica ‘emergenziale’ (es. la “sezione filtro”, di cui si prevede adesso la soppressione) che concorrono a destare preoccupazione sulla complessiva “tenuta” del canone del giusto processo tributario a fronte di scenari così incerti per la riforma del giudizio di merito e di una continua, incessante e per molti versi inopportuna stratificazione di meccanismi di ‘alleggerimento’ dei ruoli dei Giudici Supremi.
La Cassazione, in fondo, non costituisce un mondo a sé, un sistema processuale “chiuso”: essa integra, piuttosto, l’esercizio della funzione giurisdizionale globalmente intesa, concorre ad assicurare che nell’intero giudizio le leggi ricevano corretta applicazione e persegue, assieme allo scrutinio del merito affidato alle Commissioni tributarie, l’interesse delle parti ad ottenere giustizia in tempi ragionevoli. Ha poco senso, allora, sforzarsi di apprezzare le singole regole all’egida delle statuizioni della copiosa giurisprudenza formatasi sugli articoli 101 e 111 della Costituzione italiana o sull’effettiva portata dell’art. 6 della Carta Europea dei diritti dell’Uomo. Il “giusto processo tributario” non è il giusto processo di legittimità, né soltanto quello del merito (cfr. L. Del Federico, Tutela del contribuente e integrazione giuridica europea, Milano, 2010, passim; A. Di Pietro, Giusto processo (voce), in Cassese (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, III, 2006, pag. 2809, ss.). Esso riflette un valore di civiltà giuridica di carattere ampio che deve filtrare già nell’instaurazione del giudizio e pervaderlo nell’intero suo svolgimento, fino all’adozione di una sentenza non più impugnabile.
Il processo tributario, a differenza di altri, ha carattere impugnatorio ed ha quasi sempre ad oggetto atti di cui è immanente il carattere esecutorio; esso è reso impervio dalla necessità, per il contribuente soccombente in appello, di versare le intere somme pretese prima ancora del vaglio di legittimità del giudice Supremo; è ritardato, nell’immediatezza della tutela, dal rimedio preventivo del reclamo-mediazione; è connotato, nella celebrazione del suo I e II grado, da speditezza, concentrazione e documentalità; più di qualsiasi altro giudizio è affetto dal contagioso virus della disapplicazione del principio della soccombenza virtuale. Di modo che non può darsi per scontato, come spesso accade, che l’analisi e la validazione delle novità che interessano il giudizio di legittimità nella prospettiva dei cultori del diritto processuale civile possano valere anche per lo studioso del diritto tributario.
Ed è proprio questa la ragione che induce a soffermarsi sugli assetti del procedimento in cassazione, anche in ragione del fatto che la proposta governativa di riforma del processo tributario appena tratteggiata rischia di influenzarne la struttura in modo non del tutto coerente con i suoi più recenti lineamenti evolutivi.
L’assenza del giudice professionale nei precedenti gradi di merito costituisce, probabilmente, la principale e mai affrontata emergenza anche del rito di legittimità ove tale anomalia si traduce in una qualità non sempre eccelsa dell’alluvione di ordinanze e sentenze in materia tributaria. In compenso, il legislatore non ha fino ad oggi lesinato interventi finalizzati ad una ‘ruvida’ accelerazione del giudizio per cassazione che hanno colpito, inevitabilmente, la materia dei tributi più di quanto non abbiano colpito altre materie. Tali riforme meritano di essere affrontate in una prospettiva che non trascuri le finalità proprie e le specificità della tutela giurisdizionale a fronte dell’atto impositivo che si assuma illegittimo.
Le ragioni che hanno indotto a trascurare i ‘limiti strutturali’ della sezione tributaria (ovvero il suo deficit relativo di competenza specialistica) possono desumersi dalla fredda lettura dei “numeri” della crisi. La Relazione del primo Presidente della Cassazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2020 ha confermato il grande affanno del Giudice di legittimità: in ordine alle (sole) nuove iscrizioni a ruolo, il settore tributario registra un incremento del 3,2% rispetto al 2019. In questo modo, nel 2020, la materia tributaria rappresenta “il 30,2% dei ricorsi iscritti con un aumento rispetto alla percentuale del 24,6% del 2019”. In ordine alle pendenze del Settore civile, complessivamente pari a 120.473 ricorsi, la relazione evidenzia che il 44% attiene la materia tributaria.
E’ del tutto evidente, quindi, che i ripetuti interventi legislativi volti a prevenire nuovo contenzioso hanno sortito deludenti conseguenze. Tra di essi si annoverano, in primis, alcuni cambiamenti volti a responsabilizzare le decisioni del ricorrente. Taluni di essi promanavano, per vero, da più ampi interventi sul processo civile, come nel caso dell’aggravio delle spese di giustizia, sia sotto il profilo quantitativo, sia in ragione del meccanismo di determinazione riformato ad opera dell’art. 1, co. 17, della L. 24/12/2012, n. 228, che ne ha disposto il raddoppio allorquando l’impugnazione, anche incidentale, sia respinta integralmente o dichiarata inammissibile o improcedibile.
Altri hanno avuto riguardo al rito, come nel caso della sfortunata previsione dell’obbligo di formulare i “quesiti di diritto” (art. 366 bis c.p.c.), oggi soppressa. Si è trattato di un aggravio non lieve per le parti ricorrenti che ha determinato ripetute censure da parte dei Giudici supremi sfociate in declaratorie di inammissibilità da più parti collocate ben oltre il limite della pretestuosità. All’abrogazione di questo controverso orpello processuale ha fatto poi seguito l’introduzione del c.d. “filtro” affidato alla VI Sezione, appositamente istituita senza oneri a carico del bilancio pubblico e senza ulteriore personale. Ed ancora, la modifica dell’art. 360, co. 1, n. 5 (motivi di ricorso per cassazione), ad opera del D.l. 22/06/2012, n. 83, che ha precisato e delimitato l’oggetto del giudizio di legittimità passando dall’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio al più circoscritto e puntuale controllo sull’eventuale omissione, da parte del giudice de quo, dell’esame di un fatto decisivo per il giudizio che sia stato comunque oggetto di discussione tra le parti.
Ciascuno di questi istituti ha contribuito a circoscrivere i presupposti e le condizioni di accesso al vaglio di legittimità delle sentenze tributarie, rendendo meno scontato quel sistematico ed a volte pretestuoso ‘travaso’ delle questioni controverse da Commissioni tributarie sempre più spedite ed efficienti, quantomeno sul piano temporale, ad un Collegio che, ancora oggi, impiega mediamente più di quattro anni per la decisione della causa e che mantiene in tal modo viva la speranza dell’avvento di un provvedimento di definizione agevolata dei ruoli o delle controversie che, in alcuni casi, costituisce probabilmente il principale, se non esclusivo, motivo ispiratore della prosecuzione del giudizio.
Ma l’impatto più significativo, probabilmente, è quello del D.l. 31/08/2016, n. 168, recante nuove misure urgenti per la definizione del contenzioso presso la Corte di cassazione, per l’efficienza degli uffici giudiziari, nonché per la giustizia amministrativa. Per inciso, la novella del 2016 non promana solamente dal D.l. n. 168/2016. A latere della nuova disciplina legislativa si collocano, infatti, documenti programmatici, decreti del primo Presidente della Corte Suprema e protocolli d’intesa tra la Cassazione stessa, l’Avvocatura di Stato e il Consiglio nazionale forense, tutti di parallela e pressoché contestuale emanazione e comunque destinati ad incidere su ulteriori e non meno rilevanti profili di carattere procedimentale e sostanziale qual è la tecnica di stesura della motivazione dei provvedimenti.
Su tutto spicca, per importanza, la generalizzata “cameralizzazione” della trattazione dei ricorsi civili in sezione semplice e, dunque, anche di quelli tributari, voluta dal legislatore del 2016. La configurazione dell’udienza pubblica quale “eccezione rispetto alla regola” s’impernia sulle modifiche apportate all’art. 375 c.p.c. il quale, già nella sua precedente versione, prevedeva che la Corte, sia a sezioni unite che a sezione semplice, si pronunciasse con ordinanza in camera di consiglio nelle ampie e tutt’altro che infrequenti ipotesi in cui ritenesse di dover “dichiarare l'inammissibilità del ricorso principale e di quello incidentale eventualmente proposto, anche per mancanza dei motivi previsti dall'articolo 360”, nonché di poter “accogliere o rigettare il ricorso principale e l'eventuale ricorso incidentale per manifesta fondatezza o infondatezza”. Adesso però, con l’innesto del suo comma finale ad opera dell’art. 1-bis del D.l. 168/2016, la disposizione codicistica adotta un criterio generale per i procedimenti affidati alle sezioni semplici, stabilendo che la trattazione in pubblica udienza non sia più prevista, salvo che la questione di diritto sia considerata di particolare rilevanza (Cfr. Cfr. Costantino G., Note sulle «misure urgenti per la definizione del contenzioso presso la Corte di cassazione», in Dalfino (a cura di) Il nuovo procedimento in cassazione, Torino, 2017, pag. 11, ss.).
Parallelamente, il Primo Presidente della Cassazione, con il suo decreto del 14/09/2016, rubricato “la motivazione dei provvedimenti civili: in particolare, la motivazione sintetica”, ha previsto che in sede di deliberazione della decisione i provvedimenti che attengano allo ius constitutionis siano distinti dagli altri ed affrontati con “tecniche più snelle di redazione motivazionale”, anche con l’impiego di appositi moduli, da elaborare con l’apporto del Ced, per specifiche questioni su cui la giurisprudenza della Corte “risulti consolidata”.
Si configura, in questo modo, un “doppio binario” che tiene distinte le controversie a valenza nomofilattica, per le quali è prevista l’udienza pubblica e la stesura di una ben motivata sentenza, da tutte le altre, ovvero la maggior parte del contenzioso pendente e dei nuovi ricorsi per cassazione, adesso destinate ad una più spedita definizione fondata sul rito camerale e sulla più asciutta motivazione dell’ordinanza.
Dunque, giudizi che potrebbero essere iniziati alcuni lustri addietro e che, cionondimeno, nei gradi di merito hanno già vincolato il contraddittorio processuale nei margini più angusti eretti dai principi di concentrazione, oralità e speditezza che informano il processo tributario, si trovano improvvisamente ad affrontare il vaglio di legittimità col serio rischio di essere definiti senza alcuna trattazione in pubblica udienza e senza nemmeno l’adozione di una motivazione esaustiva della decisione dei Giudici.
Non possono nascondersi perplessità che, tuttavia, non attengono il vaglio di compatibilità “formale” dei nuovi assetti con il canone del giusto processo e con il principio contenuto nell’art. 111 Cost., co. 2, prima parte, secondo cui “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità”. Del resto, non può porsi in dubbio che il riformato procedimento in cassazione continui a tutelare l’imprescindibile valore del contraddittorio processuale, poiché la forma documentale della “partecipazione” delle parti all’udienza non determina, ex se, un vulnus dei valori del giusto processo. I nuovi artt. 380 bis e 380-bis.1 c.p.c., infatti, contribuiscono a realizzare un differente bilanciamento degli interessi in gioco che, almeno in prospettiva, vorrebbe compensare il sacrificio della pubblica udienza con la più ragionevole durata di un processo il cui contraddittorio è adesso articolato in proposte, conclusioni, memorie e repliche.
Eppure, su un piano più squisitamente “sostanziale” ci si deve chiedere fino a che punto queste innovazioni abbiano influenzato le modalità di esercizio del diritto di difesa esponendo le parti, a prescindere dal livello di complessità della controversia e dal suo valore, al rischio di una frettolosa trattazione in una camera di consiglio chiamata a decidere, nello stesso giorno, un numero di ricorsi talmente elevato dal poter compromettere la serenità o l’adeguatezza del vaglio di questioni tecniche da parte di un giudice che, lo si ripete per un’ultima volta, non si è formato sull’applicazione del diritto tributario. Il segreto della camera di consiglio è imperscrutabile e non consente al difensore dalla parte di cogliere le sfumature della relazione, il livello di attenzione del Collegio, né consente allo stesso Collegio di rivolgere quesiti specifici alle parti in causa utili ad inquadrare la fattispecie in modo più chiaro di quanto non possa evincersi dagli scritti processuali. Su tutto, rischia di sottrarre il procedimento di formazione della decisione al controllo pubblico.
Rischio che assume massima evidenza allorquando si pensi che, intervenendo anche sul testo dell’art. 375 c.p.c., il legislatore ha soppresso la facoltà dei difensori di chiedere di essere “sentiti” in camera di consiglio, introdotta nel rito camerale grazie all’art. 1, L. 89/2001, e mantenuta ferma nelle successive riforme del 2006 e 2009.
In questo declamato riequilibrio dei valori costituzionali in considerazione del supremo interesse di evitare un’eccessiva durata del processo e, dunque, un sostanziale diniego di giustizia, non sembrano affatto considerati i profili di criticità di tale scelta: sia la Consulta che la Corte EDU hanno già avuto occasione di chiarire le condizioni legittimanti la soppressione del diritto alla pubblica udienza. La sintesi di tali statuizioni può essere attinta da un passaggio della sentenza 11/03/2011, n. 80, della Corte costituzionale, secondo cui: “i giudizi di impugnazione dedicati esclusivamente alla trattazione di questioni di diritto possono soddisfare i requisiti di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione, nonostante la mancata previsione di una pubblica udienza davanti alle corti di appello o alla corte di cassazione. La valenza del controllo immediato del quisque de populo sullo svolgimento delle attività processuali, reso possibile dal libero accesso all’aula di udienza – uno degli strumenti di garanzia della correttezza dell’amministrazione della giustizia – si apprezza, difatti, secondo un classico, risalente ed acquisito principio, in modo specifico quando il giudice sia chiamato ad assumere prove, specialmente orali-rappresentative, e comunque ad accertare o ricostruire fatti; mentre si attenua grandemente allorché al giudice competa soltanto risolvere questioni interpretative di disposizioni normative”. Ciò che conta, secondo i Giudici costituzionali, è che il diritto alla pubblica udienza sia garantito, quantomeno, nei gradi di merito.
Ma queste rinunce, lo si ripete, costituiscono comunque vicende eccezionali che possono essere giustificata solo in ragione di un bilanciamento con altri valori costituzionali, allorquando cioè, per suo tramite, sia possibile addivenire ad una riduzione dei tempi di giustizia. Cosa che, evidentemente, non è fino ad oggi avvenuta nei giudizi di legittimità in materia di tributi.
Non è quindi sufficiente che le parti del giudizio partecipino ad un contraddittorio processuale, scritto o orale che sia, di natura meramente formale: è invece indispensabile che il contraddittorio sia effettivo, si celebri in modo adeguato alle specificità della questione controversa, offra al ricorrente ed al controricorrente la possibilità di esprimere compiutamente le proprie ragioni e repliche, dosando e finalizzando argomenti e concetti che, complice il canone dell’autosufficienza dei motivi di ricorso per cassazione, rischierebbero altrimenti di diluirsi nell’insieme delle questioni a vario titolo affrontate dalle parti in causa anche nei precedenti gradi del merito.
Ma non è finita. Dopo aver rinunciato, non certo per scelta, all’oralità della trattazione dell’udienza, la parte parzialmente o interamente soccombente nel giudizio di legittimità dovrà comunque recuperare una cieca fiducia nei confronti del giudice ed “allontanare qualsiasi sospetto di parzialità” (espressione attinta dalla giurisprudenza costituzionale) senza nemmeno poter ricevere, nella maggior parte dei casi, una motivazione esaustiva e accurata delle ragioni che abbiano indotto il Collegio a decidere in tal senso. L’ “atto di fede” diviene necessario con l’adozione delle linee guida per il funzionamento della VI Sezione civile della Suprema corte, ovvero con il documento programmatico che ha introdotto, tra l’altro, la “motivazione semplificata” delle ordinanze e delle sentenze, ivi comprese, naturalmente, quelle in materia di tributi. È sufficiente soffermarsi su alcuni passaggi di tale documento per coglierne una portata non meramente “organizzativa”: quanto all’illustrazione dei “motivi del ricorso”, l’indicazione non si esaurisce alla “non necessità” di “riportarne il contenuto nella relazione e poi nell’ordinanza, neanche per sintesi” ma, addirittura, “incentiva” “l’accorpamento dei motivi di ricorso”; ancora, per ciò che attiene le ipotesi in cui il ricorso sia da dichiarare manifestamente fondato o infondato, in presenza di giurisprudenza della Corte, sarà sufficiente, una volta individuata la questione, “richiamare anche solo gli estremi della giurisprudenza di riferimento"; da ultimo, si richiede al Ced della Cassazione di individuare “modelli motivazionali standard, attinenti a questioni ricorrenti, processuali e di merito, previa creazione di cartelle condivise riservate ai componenti della sezione e/o trasversali tra le sottosezioni”.
Orbene, già su un piano meramente fattuale non può non tenersi conto dell’ontologica incompatibilità tra una motivazione talmente semplificata (mera enunciazione del precedente, senza neanche specificarne i motivi di effettiva corrispondenza) e le complicate questioni di diritto in materia tributaria, soprattutto quando la decisione si proponga di assolvere a quel ruolo di precedente-guida delle future scelte dei contribuenti e degli uffici. Più dell’art. 111 Cost., co. 6, che impone la motivazione di ogni provvedimento giurisdizionale senza aggiungere alcunché sul suo contenuto, entrano così in crisi i canoni enunciati dalla CEDU cha ha ripetutamente sottolineato che, al di là di assicurare l’esercizio del diritto di difesa nelle ipotesi in cui la sentenza possa essere ancora impugnata, la motivazione, per di più e soprattutto, assolve l’ulteriore finalità di coltivare il rapporto di fiducia tra il cittadino e l'amministrazione della giustizia.
Ecco, allora, che il giusto processo riferito al rito di legittimità entra irrimediabilmente in crisi allorquando tali canoni vengano declinati in riferimento non ad una singola innovazione (o aberrazione) del procedimento in cassazione, ma al loro insieme, al loro congiunto operare che descrive un sistema a tratti surreale in cui i provvedimenti emergenziali si trasformano, gradualmente, nello standard di riferimento e, dunque, nel substrato di successivi interventi, anche non legislativi, di natura ugualmente emergenziale. L’insieme di queste novità, la loro vicinanza nel tempo, la svalutazione dell’analisi delle conseguenze del loro congiunto operare in ambito tributario non tradiscono soltanto insoddisfazione per le antecedenti soluzioni ma, piuttosto, descrivono un metodo “emergenziale” di risposta ad un problema, di cui non è possibile verificare la chiarezza degli obiettivi e di cui risulta a dir poco dubbia l’adeguatezza degli strumenti.
Tant’è che, sempre sul fronte del giudizio di legittimità, risultano naufragate anche le misure introdotte dall’art. 1, commi 962 – 980, della L. 27/12/2017, n. 205, che ha previsto, tra l’altro, l’arruolamento dei c.d. “ausiliari rottamatori a forfait” (L’espressione è di C. Glendi, Sui recenti provvedimenti legislativi per arginare lo speciale “disordine” della sezione tributaria nell’ordinaria “crisi” della suprema corte di cassazione, in Nuove leggi civili, 2018, pag. 1166), e si registra, adesso un ripensamento sulla “Sezione filtro” che il Governo vorrebbe sopprimere appannaggio di un trasferimento delle sue funzioni a ciascuna delle Sezioni semplici (ci si riferisce alle novità portate dal già ricordato Ddl n. 1662/2020 di “efficientamento” del processo civile, di recentissima approvazione).
Appaiono più nitide, in questo modo, le ragioni di una relativa insoddisfazione per il più recente e accreditato proposito di riforma del processo tributario che, meritoriamente, affronta l’annoso problema del carattere onorario e della non scontata preparazione tecnica del magistrato tributario ma, al tempo stesso ed incomprensibilmente, non ammette che la professionalizzazione del (nuovo) giudice dei tributi investa ogni grado della giurisdizione. Lasciare il giudice tributario di ruolo alle dipendenze del Ministero dell’economia e delle finanze non è solo ‘antiestetico’: è anche, e soprattutto, irrazionale, perché impedisce l’afflusso delle esperienze e delle competenze alla Corte cui spetta l’esercizio della funzione nomofilattica; perché tradisce le aspettative di carriera di un magistrato assunto per concorso; perché, infine, sul versante del ricorrente, confina ai gradi di merito l’aspettativa di giustizia in una materia così complessa e tecnica qual è la nostra.
A ciò si aggunge l’assenza, nella proposta governativa, di una misura straordinaria, adeguata all’emergenza in atto nella Suprema corte, che pure potrebbe semplificare ed accelerare, su basi volontarie, la definizione delle troppe liti pendenti e di un arretrato fino ad oggi affrontato con inappaganti interventi, anch’essi di natura emergenziale. A diferenza dell’ultima “pace fiscale” voluta dal d.l. 119/18, una simile misura, almeno questa volta, risulterebbe sincronizzata con il tentativo di riqualificazione della giustizia tributaria e con il rcupero di fiducia nel valore e nell’importanza di un giudizio dalla cui celebrazione “in senso sostanziale” le parti si sentono sempre più estromesse.