Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

26/06/2022 - Il rapporto tra la bancarotta fraudolenta documentale e l’occultamento o distruzione delle scritture contabili: ne bis in idem?

argomento: Sanzioni e contenzioso - Giurisprudenza

  La Corte di Cassazione V sez. penale (sentenza n. 7557/2022) si è pronunciata sul rapporto tra i reati tributari, di cui al D.Lgs. 74/2000, e il reato di bancarotta fraudolenta documentale disciplinato dal codice della crisi d’impresa. Si prospetta però  la possibile violazione del principio del ne bis in idem alla luce dei criteri stabiliti dalla Corte costituzionale secondo cui la verifica circa il bis in idem, pur dovendo attingere il fatto materiale e non già la fattispecie astratta, impone di riguardarlo comunque individuando, nel comportamento sub iudice, gli elementi di sovrapponibilità fattuale rispetto alla struttura della fattispecie come prevista dal legislatore

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PAROLE CHIAVE: reati tributari - bancarotta fraudolenta - ne bis in idem


di Francesco Martin

1. La normativa che regola i reati tributari, il D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, si è in varie occasioni confrontata e rapportata con le disposizioni del Codice penale, ovvero con altre leggi speciali che intervengono in materia penale.

Proprio per la loro peculiarità tali delitti hanno dato origini a numerosi dibattiti in dottrina e giurisprudenza tra cui, è opportuno ricordare, circa l’eventuale concorso di reati o assorbimento della norma generale in quella speciale, ovvero la combinazione delle norme di cui al D.Lgs. 74/200 con alcuni istituti disciplinati dal codice di procedura penale, con speciale riferimento ai provvedimenti cautelari reali.

Di particolare interesse, anche perché ritornato in auge a seguito dell’introduzione dei reati tributari nel novero dei reati presupposto per fondare la responsabilità della persona giuridica, è la possibile violazione del principio del ne bis in idem.

Il presente articolo vuole quindi soffermarsi su un aspetto, recentemente affrontato dalla Corte di Cassazione, che concerne l’assenza di deleghe ad alcuno dei componenti del Consiglio di Amministrazione di una società e la conseguente responsabilità per gli illeciti deliberati o posti essere dal consiglio di amministrazione gravante su tutti i consiglieri, da riferirsi solidalmente a ciascuno di essi.

In particolare, si evidenzierà il rapporto tra il delitto di bancarotta fraudolenta documentale e quello di occultamento o distruzione di documenti contabili, rispettivamente ex art. 216, comma 1, n. 2, L. F. e art. 10, D.Lgs. 74/2000.

 

 

  1. Appare quindi utile, al fine di inquadrare meglio la tematica sottesa alla pronuncia in esame, esaminare gli elementi costitutivi dei reati di bancarotta.

La bancarotta ha origini storiche profondamente radicate nel contesto imprenditoriale e sociale che caratterizzava già l’epoca medievale; in tale contesto storico al banchiere divenuto insolvente veniva spezzato il tavolo e la panca, da cui l’odierno termine.

I reati di bancarotta erano originariamente contemplati all’interno della Legge Fallimentare, il Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267, in seguito riscritta dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, anche se la novella non toccava le disposizioni penali di cui al Titolo VI, dedicato, per l’appunto, anche ai reati di bancarotta.

La principale distinzione all’interno della bancarotta era tra bancarotta semplice (artt. 217 e 224, L. Fall.) e bancarotta fraudolenta (artt. 216 e 223, L. Fall.), relativa ad una differente intensità della gravità oggettiva e soggettiva.

La disciplina dei reati di bancarotta è stata rimodellata a seguito della pubblicazione del D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, recante il “Codice della crisi di impresa e dell'insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155”, avente l'obiettivo di riformare in modo organico la disciplina delle procedure concorsuali, con le principali finalità di consentire una diagnosi precoce dello stato di difficoltà delle imprese e salvaguardare la capacità imprenditoriale di coloro che vanno incontro a un fallimento di impresa dovuto a particolari contingenze.

Per effetto di tale intervento normativo, la disciplina della bancarotta e degli altri reati fallimentari viene ricondotta all'interno del Titolo IX del nuovo Codice, dedicato alle “Disposizioni penali” (artt. 322-347), senza che questo comporti alcuna abrogazione della normativa contenuta all'interno della legge fallimentare, così come delle disposizioni penali sulla bancarotta (F. MARTIN, Bancarotta fraudolenta per distrazione e peculato: concorso o assorbimento?, in Rivista Penale, n. 9, 2021).

Come noto il legislatore ha previsto due macro-ipotesi di bancarotta: quella semplice e quella fraudolenta punita in maniera più grave.

Elemento comune ad entrambe è la sentenza di fallimento da cui decorre il termine di prescrizione e che assume la connotazione di causa obiettiva di punibilità.

Per quanto attiene la presente analisi, ci si soffermerà solamente sulla bancarotta fraudolenta con particolare riferimento a quella documentale, con un breve digressione su quella per distrazione a titolo di confronto.

La bancarotta distrattiva si configura quando l'imprenditore o l'amministratore della società sottrae, distrae, nasconde o distrugge beni e risorse finanziarie dal proprio patrimonio o da quello collettivo per arricchire sé stesso, privando nel contempo i creditori di qualsiasi forma di garanzia patrimoniale su cui soddisfarsi (E. DE MARTINO, A. D’AVIRRO, La bancarotta fraudolenta, Giuffrè, 2018).

L’oggetto materiale del reato è costituito dai beni dell’imprenditore soggetto a dichiarazione giudiziale o il patrimonio, inteso come il complesso dei rapporti giuridici economicamente valutabili facenti capo all'imprenditore medesimo (G. CASAROLI, Qualche riflessione sull’oggetto materiale del delitto di bancarotta, in Riv. Trim. Dir. Pen. Econ., 1991, 403).

Le modalità in cui può esplicarsi la condotta consistono nella dissimulazione, distruzione dissipazione o occultamento dei beni facenti capo all’impresa.

Per quanto attiene l’elemento soggettivo questo consiste nel dolo specifico anche se, secondo un certo orientamento giurisprudenziale, il dolo specifico sarebbe configurabile solo nell’ipotesi di esposizione o riconoscimento di passività inesistenti, mentre nei casi di occultamento, distrazione, sarebbe sufficiente il dolo generico (G.L. SOANA, I reati fallimentari, Giuffrè, 2020).

 

 

2.1. L’art. 216 L.F., 1 comma, n. 2, punisce con la stessa pena prevista per la bancarotta fraudolenta patrimoniale (da tre a dieci anni di reclusione) la condotta di chi “ha sottratto, distrutto o falsificato, in tutto o in parte, con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizi ai creditori, i libri o le altre scritture contabili o li ha tenuti in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari”. L’apparente unitarietà della formulazione del reato cela due distinte fattispecie (E. AMATI, N. MAZZACUVA, Diritto penale dell’economia, Milano, 2021, p.  226; G. CRISTOFORI, La bancarotta fraudolenta documentale, in A. CADOPPI, S. CANESTRARI, A. MANNA, M. PAPA (a cura di), Diritto penale dell’economia, Milano, 2019, p. 2175), anche se e ben vedere risultano accomunate unicamente dall’oggetto del reato, per entrambe consistenti dai libri e dalle scritture contabili, ancorché non obbligatorie, purché utili alla ricostruzione dell’andamento aziendale, mentre differiscono sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo.

A differenza della bancarotta documentale semplice, il cui oggetto può essere costituito solo e soltanto dai libri e dalle scritture obbligatorie in relazione all’impresa oggetto di fallimento, nelle fattispecie fraudolente rilevano anche le condotte commesse su libri e contabilità meramente facoltative, purché idonee a ricostruire attività e passività aziendali.

La prima, c.d. specifica, enuclea una serie di condotte materiali (sottrazione, distruzione, falsificazione, anche solo parziali) aventi ad oggetto contabilità e libri aziendali, accomunate dal dolo specifico consistente nel procurare a sé o ad altro ingiusto profitto o recare pregiudizio ai creditori. Trattasi, dunque, di reato di mera condotta e a dolo specifico (F. M. MAGNELLI, Bancarotta documentale specifica, generica o semplice? La Cassazione alla ricerca degli “indici di fraudolenza” perduti in caso di omessa tenuta della contabilità, in Giurisprudenza Penale, n.10, 2021).

Sul versante soggettivo, le condotte fraudolente devono essere orientate a recare pregiudizio ai creditori o a conseguire ingiusto profitto.

Apparentemente, tali finalità sono alternative; tuttavia, parte della dottrina (E. AMATI, N. MAZZACUVA, Op.cit.) le interpreta sostanzialmente come una sorta di endiadi, essendo difficile ipotizzare la volontà di danneggiare i creditori senza, al contempo, voler conseguire un ingiusto profitto; tale rilievo implica che tali obiettivi debbano essere perseguiti cumulativamente.

La bancarotta fraudolenta documentale c.d. generica, reato d’evento a dolo generico, costituisce invece la forma alternativa rispetto a quella sorretta dal dolo specifico, e consiste nel tenere i libri e le scritture contabili in guisa da rendere – relativamente – impossibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari (U. GIULIANI BALESTRINO, La bancarotta e gli altri reati concorsuali, Milano, 2006, p. 101)

La norma, più che alternativa, ha portata residuale e generale rispetto alla specifica, nel senso che mira a sanzionare tutte quelle condotte – in qualunque modo esse si concretino – il cui risultato sia quello di ostacolare concretamente l’operato della curatela fallimentare a prescindere dai fini concretamente perseguiti dal fallito

Si tratta di un reato proprio che può essere commesso solamente dai soggetti che rivesto la specifica qualifica prevista dal legislatore.

Per il reato di bancarotta sono prevista delle specifiche circostanze aggravanti che sono ora previste all’interno dell’art. 326 del nuovo codice della crisi di impresa.

Una prima circostanza aggravante, disciplinata dal primo comma della norma, consiste nel caso in cui i fatti previsti negli artt. 322, 323 e 325 del medesimo codice abbiano cagionato un danno patrimoniale di rilevante gravità (A. PERINI, D. DAWAN, La bancarotta fraudolenta, Cedam, 2001).

L’entità del danno va valutata in relazione al pregiudizio arrecato alla massa dei creditori, non dalla liquidazione giudiziale, bensì dalla bancarotta; ovviamente, nel caso di più fatti di bancarotta, occorre far riferimento al danno arrecato nel complesso.

Un’ulteriore circostanza aggravante si configura se il colpevole ha commesso più fatti tra quelli previsti in ciascuno dei summenzionati articoli; deve trattarsi di una molteplicità di azioni criminose, indifferentemente relative alla medesima ipotesi di reato realizzata più volte, o a distinte ipotesi o al cumulo tra la reiterazione di singole ipotesi e l’attuazione di ipotesi diverse.

Anche nel caso in cui il soggetto attivo per divieto di legge non poteva esercitare un'impresa commerciale verrà applicato un aumento di pena.

Dal punto di vista delle circostanze attenuanti, è prevista solamente quella del danno di particolare tenuità che comporta una diminuzione di un terzo della pena.

 

 

  1. Evidenziato il primo dei reati oggetto della sentenza in esame, è ora opportuno delineare i tratti essenziali del secondo.

Il reato di occultamento o distruzione delle scritture contabili è disciplinato dall’art. 10, D.Lgs. 74/2000 e punisce, a seguito delle modifiche introdotte dal D.L. 26 ottobre 2019, n. 124, con la reclusione da tre a sette anni, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di consentire l'evasione a terzi, occulta o distrugge in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari.

Per quanto concerne l’elemento oggettivo, l’occultamento consiste nel celare materialmente le scritture, mentre il rifiuto della consegna delle scritture, ove non si traduca in un loro mancato rinvenimento, resta sanzionato solo in via amministrativa.

Così anche la conservazione delle scritture in luogo diverso da quello indicato all’amministrazione ai sensi dell’art. 35 D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633, non assume di regola rilevanza, a meno che le scritture siano portate in luoghi che ne escludono il ritrovamento così da determinare in sostanza il loro occultamento.

La distruzione consiste invece nell’eliminazione fisica, in tutto o in parte, delle scritture, ovvero nel renderla illeggibile e quindi non idonea all’uso tramite abrasioni, cancellature o altro.

L’oggetto materiale della condotta di reato è costituita dalle scritture contabili e documenti di cui è obbligatoria la conservazione secondo la normativa fiscale o civilistica di cui all’art. 2214 c.c., che distingue tra libri assolutamente obbligatori (libro giornale, degli inventari, originali delle lettere dei telegrammi e delle fatture ricevute nonché copie delle lettere dei telegrammi delle fatture spedite) e scritture relativamente obbligatorie, quali quelle che siano richieste dalle dimensioni della singola impresa (C. BIANCONI, Occultamento o distruzione di documenti contabili, in Giurisprudenza Penale, n. 7-8, 2017).

Il delitto si perfeziona nel momento in cui, per effetto della distruzione o dell’occultamento, diviene impossibile la ricostruzione dei redditi o volume di affari.

La distruzione dà luogo ad un reato istantaneo mentre l’occultamento ad un reato permanente, e quindi la prescrizione, in questo secondo caso, inizierà a decorrere dal momento della cessazione della permanenza, che si ritiene conseguente all’accertamento fiscale.

L’impossibilità di ricostruire il reddito, proprio perché prevista in tutto o in parte, è da intendersi in termini di impossibilità anche solo relativa, quando cioè la ricostruzione del reddito o volume degli affari sia notevolmente difficoltosa o comunque richieda particolare diligenza, per esempio rendono necessari controlli incrociati.

Si tratta di un reato a dolo specifico, perché caratterizzato dalla finalità cui deve tendere il volere del soggetto agente, il fine di evadere o di consentire l’evasione a terzi.

 

 

  1. Se dunque si sono evidenziate le caratteristiche principali dei delitti in parola è necessario analizzare la pronuncia della Corte di Cassazione (Cass. Pen. Sez. V, 02.03.2022, n.7557).

La sentenza origina dal ricorso presentato dai difensori degli imputati nei confronti della decisione emessa dalla Corte d’Appello, che aveva riformato parzialmente la pronuncia del Tribunale con la quale gli imputati erano stati condannati per il delitto di bancarotta fraudolenta documentale.

La riforma in appello è consistita nella rimodulazione in mitius della durata delle pene accessorie di cui all’art. 216 L.F. a seguito della sentenza n. 222 del 2018 della Corte costituzionale e nell'applicazione, due di questi, della pena accessoria dell'interdizione dai Pubblici Uffici per anni cinque, omessa dal collegio di prime cure.

Il gravame si basava sulla violazione di legge, il vizio di motivazione e, per uno dei soggetti, sulla violazione del principio di ne bis in idem tra la bancarotta fraudolenta documentale ed il reato di cui all’art.10 D.Lgs. 74/2000.

Come evidenziato i tre amministratori erano stati condannati per bancarotta fraudolenta documentale; tuttavia, ad uno di loro, veniva contestata l’ipotesi di sottrazione delle scritture contabili, mentre gli altri due, precedentemente in carica, sono stati ritenuti responsabili di aver tenuto le predette scritture in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari.

A bene vedere, il primo imputato era già stato processato, con sentenza definitiva di assoluzione per insussistenza del fatto, per il reato di occultamento o distruzione di documenti contabili, sempre con riferimento alla stessa società; da qui la possibile violazione del ne bis in idem.

Nell’esaminare la questione sottoposta alla loro attenzione, i giudici prendono le mosse dalla nota sentenza della Corte costituzionale (Cort. Cost., n. 200/2016) che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p., nella parte in cui, secondo il diritto vivente, escludeva che il fatto fosse il medesimo per la sola circostanza che sussistesse un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza irrevocabile e il reato per cui era iniziato il nuovo procedimento penale.

La pronunzia della Consulta ha indicato all'interprete quale debba essere il percorso di verifica dell'identità del fatto che può condurre alla sentenza di improcedibilità ex art. 649 c.p.p.

A questo riguardo, la Corte Costituzionale ha sostenuto che il fatto storico-naturalistico che rileva, ai fini del divieto di bis in idem da leggersi in chiave convenzionale, è: «L'accadimento materiale, certamente affrancato dal giogo dell'inquadramento giuridico, ma pur sempre frutto di un'addizione di elementi la cui selezione è condotta secondo criteri normativi; criteri normativi che ricomprendono non solo l'azione o l'omissione, ma anche l'oggetto fisico su cui cade il gesto ovvero l'evento naturalistico che ne è conseguito, ovvero la modificazione della realtà indotta dal comportamento dell'agente, secondo una dimensione empirica, così come accertata nel primo giudizio».

Tale concetto non è estraneo all'esegesi, della Corte di Cassazione, sull'art. 649 c.p.p., laddove vengono  valorizzati, quali indicatori della medesimezza del fatto richiesta dal legislatore, tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale).

In altri termini, la verifica circa il bis in idem, pur dovendo attingere il fatto materiale e non già la fattispecie astratta, impone di riguardarlo comunque individuando, nel comportamento sub iudice, gli elementi di sovrapponibilità fattuale rispetto alla struttura della fattispecie come prevista dal legislatore.

Difatti secondo la Corte costituzionale: «Il fatto va apprezzato secondo l'accezione che gli conferisce l'ordinamento, ma ad avere carattere giuridico è la sola indicazione dei segmenti dell'accadimento naturalistico che l'interprete è tenuto a prendere in considerazione per valutare la medesimezza del fatto».

Orbene, per verificare se vi sia bis in idem, il raffronto deve essere tra la prima contestazione, per come si è sviluppata nel processo, e il fatto posto a base della nuova iniziativa del pubblico ministero, secondo una prospettiva concreta e non legata alla struttura delle fattispecie, ma pur sempre inquadrando gli accadimenti storici secondo la griglia normativa condotta-nesso causale-evento; nell'effettuare detta operazione, si deve tuttavia prescindere dalla risoluzione dell'ulteriore interrogativo - estraneo al tema del bis in idem processuale in chiave convenzionale - se tra i due reati possa esservi concorso formale e, quindi, prescindere dai vari criteri interpretativi su questo distinto tema.

Nel caso de quo la Suprema Corte ritiene che non vi sia stato bis in idem in quanto non vi è una completa sovrapposizione tra le condotte oggetto dei due procedimenti.

 Nel processo in corso, il capo d’imputazione si riferisce alla sottrazione di tutte le scritture fino alla data del fallimento, mentre, nel processo per la violazione dell’art. 10 D.Lgs. 74/2000, i fatti erano anteriori alla data dell'accertamento effettuato dalla Guardia di Finanza.

Ne consegue che le due condotte non coincidono quanto all'oggetto del reato che, nella vicenda sub iudice, concerne una più ampia piattaforma documentale, comprensiva anche delle scritture non fornite alla curatela fallimentare; questo segna una differenza tra le due condotte, che costituisce un primo ostacolo all'invocata improcedibilità.

Il secondo momento di differenziazione concerne la natura delle scritture che, nel caso del reato fallimentare, sono tutte quelle obbligatorie e quelle facoltative richieste dalle dimensioni dell'impresa, come sancito dall'art. 2214, commi 1 e 2, c.c. mentre, quanto al reato tributario, sono costituite solo da quelle obbligatorie ai fini fiscali.

L’art. 10 D.Lgs. 74/2000 indica quale oggetto della condotta le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione ai fini fiscali, che comprendono non solo quelle formalmente istituite in ossequio a specifico dettato normativo, ma anche quelle obbligatorie in relazione alla natura ed alle dimensioni dell'impresa, nonché la corrispondenza posta in essere nel corso dei singoli affari.

La bancarotta fraudolenta documentale, invece, ha ad oggetto i libri previsti obbligatoriamente dall'art. 2214 c.c., nonché le scritture contabili richieste dalla natura e dalle dimensioni dell'impresa - indipendentemente dall'obbligo di conservazione fiscale - che consentano, tuttavia, la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari.

Ciò posto, la Corte rileva come nel caso in esame la censura risenta del difetto di allegazione del ricorrente e, pertanto, occorra rifarsi alla sola contestazione operata dal Pubblico ministero, ove si parla di: «documenti contabili e fiscali di cui era obbligatoria la conservazione».

In assenza, pertanto, di una circoscrizione dell’oggetto materiale del reato contestato, non potrebbe esservi una sovrapposizione circa la tipologia di scritture contabili oggetto di sottrazione.

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibili i ricorsi di due imputati condannandoli al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende, mentre ha rigettato il ricorso del terzo, condannandolo al pagamento delle spese processuali.

 

 

 

 

  1. Dovendo trarre le conclusioni del ragionamento seguito dalla Suprema Corte, in rapporto alle due fattispecie in evidenza, appare interessante rilevare che sempre di più i reati tributari previsti dal D.Lgs. 74/2000 hanno una natura fluida e multiforme che si adatta e concorre con altri delitti non solo disciplinati dal codice penale, ma anche da leggi speciali.

La possibile violazione del principio del ne bis in idem in riferimento ai reati tributari ha, con notevole costanza, interessato la giurisprudenza nazionale e comunitaria con particolare riferimento al D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231.

Difatti, in estrema sintesi e solamente per inquadrare la questione, la duplice applicazione all’ente delle sanzioni tributarie ex D.Lgs. 74/2000 e di quelle di cui al D.Lgs. 231/2001, comporta l’irrogazione di un doppio trattamento sanzionatorio per un medesimo fatto, traducendosi in una possibile violazione del principio del ne bis in idem.

L’estensione agli enti della responsabilità per i reati tributari può porsi in contrasto con il principio del ne bis in idem: com’è stato efficacemente affermato da alcuni autori, «è ben possibile che da una medesima condotta delittuosa possano derivare due diverse tipologie di sanzione nei confronti del medesimo soggetto ovvero la persona giuridica: infatti, con riferimento agli illeciti richiamati nella previsione di cui all’art. 25-quinquiesdecies la società avvantaggiata dall’evasione fiscale posta in essere nel suo interesse dall’amministratore potrà essere sanzionata tanto in sede fiscale che in sede penale secondo quanto dispone il d.lgs. n. 231 del 2001» (C. SANTORIELLO, Riforma tributaria una prima riflessione sulla responsabilità degli enti, in Rivista231, n. 1, 2020, p. 92-93).

Ebbene, per ovviare a questa criticità esistono due strade, che tuttavia propongono una soluzione meramente provvisoria e non definitiva.

Da un lato, è possibile aderire all’interpretazione giurisprudenziale e dare applicazione ai principi di diritto stabiliti in tema di ne bis in idem dalla copiosa giurisprudenza della Corte EDU, della Corte di Giustizia UE, della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione.

Dall’altro lato, si può prospettare una questione di legittimità costituzionale dell’art. 187-terdecies, D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, come modificato dall’art. 4, comma 17, D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 107, nella parte in cui non è applicabile alla responsabilità degli enti.

Occorre evidenziare come, alla luce di una storica sentenza della Corte di Giustizia (Corte di Giustizia UE, 5 aprile 2017, causa C-217/15 e C-350/15), siano ormai superate le tesi secondo cui, in caso di parallelo svolgimento di procedimento amministrativo per le sanzioni amministrative tributarie nei confronti dell’ente personificato e di procedimento penale nei confronti dell’amministratore o del legale rappresentante, sussisterebbero i presupposti per censurare la violazione del principio del ne bis in idem.

Ciò in quanto la Corte di Giustizia ha chiaramente evidenziato come né la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea né la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo prevedono la rilevabilità di un ne bis in idem qualora la sanzione amministrativa e quella penale colpiscano soggetti giuridici differenti.

Con tale sentenza si è – di fatto – depotenziata la portata del divieto di ne bis in idem, riconoscendosi, a certe condizioni, la legittimità delle discipline che contemplano meccanismi sanzionatoli amministrativi e penali di tipo parallelo o, eventualmente, consecutivi.

La Corte, infatti, ha chiarito che la nozione di idem factum rilevante nel quadro del principio del ne bis in idem convenzionale richiede uno scrutinio in ordine alla connessione, in modo sufficientemente stretto, sotto il profilo sostanziale e cronologico, dei due procedimenti – quello amministrativo e quello penale.

Solo qualora tale ultima condizione non sia ravvisabile la complessiva risposta punitiva si paleserebbe censurabile per violazione del principio del ne bis in idem.

Ecco, dunque, che il tema del divieto di ne bis in idem ed il rapporto con i reati tributari è spesso foriero notevoli contrasti si dal punto di vista della dottrina sia della giurisprudenza.

Quello che appare di maggiore interesse, a differenza di quanto esposto in merito al rapporto con il D.Lgs. 231/2001 è che, nella sentenza in esame, la Corte di Cassazione non esclude a priori e in via generale la violazione del bis in idem tra il delitto di bancarotta fraudolenta documentale e quello di occultamento o distruzione delle scritture contabili, ma solamente evidenzia l’assenza di tale violazione, alla luce delle risultanze istruttorie circa la non perfetta sovrapponibilità dei fatti contestati nei diversi procedimenti.

Occorre, così come evidenziato dalla Corte costituzionale, che nel singolo caso vi sia la verifica circa il bis in idem, avendo cura di esaminare il fatto non in astratto, ma in concreto individuando, nel comportamento sub iudice, gli elementi di sovrapponibilità fattuale rispetto alla struttura della fattispecie così come prevista dal legislatore.