argomento: IRAP e tributi locali - Giurisprudenza
In discontinuità rispetto alle precedenti ordinanze, i Giudici di vertice, mediante un’interpretazione costituzionalmente orientata del secondo comma dell’art. 13 del d.l. n. 201/2011, stabiliscono che può essere accordata un’unica esenzione ai fini IMU con riferimento alla singola abitazione principale, anche qualora si verifichi una disgregazione del nucleo familiare (ad esempio per esigenze professionali). Tuttavia, il beneficio in parola può essere riconosciuto a condizione che il nucleo familiare, inteso come un’unità distinta e autonoma rispetto ai suoi singoli componenti, dimostri di avere la dimora abituale presso quell’immobile. Sulla questione è, poi, intervenuto il legislatore, con l’art. 5-decies del d.l. n. 146/2021, nonché la Corte costituzionale, con la recente ordinanza n. 94/2022, che ha sollevato dinnanzi a sé la questione di legittimità costituzionale del secondo comma dell’art. 13 del d.l. n. 201/2011, in riferimento agli artt. 3, 31 e 53, primo comma, Cost.
» visualizza: il documento ()PAROLE CHIAVE: esenzione - abitazione principale - nucleo familiare
di Nicolò Treglia
Nel mutare orientamento la Corte ha statuito che sia la lettera che la ratio della norma inducono a ritenere che possa essere accordata un’unica agevolazione con riferimento alla singola abitazione principale, anche nell’ipotesi di una ‘diaspora’ del nucleo familiare, a condizione però che si accerti «in quale di questi immobili si realizzi l’abitazione principale del nucleo familiare, riconoscendo l’esenzione solo allo stesso». Questa ragionevole impostazione consente di attribuire una nuova centralità in ambito tributario al nucleo familiare e permette di declinare l’agevolazione in un’ottica di promozione e valorizzazione della famiglia (cfr. G. Marini, Ricchezza immobiliare e imposizione patrimoniale, in Corr. Trib., n. 38, 2013, p. 2976), come centro unitario preordinato alla soddisfazione delle esigenze dei membri della collettività (a questo riguardo si vedano gli spunti di riflessione di F. Farri, Punti fermi e profili di irrazionalità nel regime fiscale della famiglia, in Riv. dir. trib., n. 1, 2016, p. 145).
Si ravvisava, poi, un’ulteriore incoerenza nell’iter argomentativo della Corte allorché ometteva di considerare l’impianto complessivo del secondo comma del citato art. 13. Infatti quest’ultimo, al secondo periodo, prevede che «nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile». Viene, dunque, dettata una particolare disciplina, intrinsecamente antielusiva, per l’ipotesi in cui i componenti del nucleo familiare localizzino la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi ubicati nel territorio dello stesso Comune.
Pur riconoscendosi l’astratta possibilità che la disposizione in questione si presti ad un’applicazione strumentale mediante la dichiarazione di ‘residenze fittizie’ («il legislatore ha inteso così porre termine alla prassi spesso seguita, secondo la quale i due componenti del nucleo familiare dichiaravano residenze diverse (su diversi immobili di proprietà) per beneficiare doppiamente dell’esclusione da tassazione. Era il caso, ad esempio, del marito che dichiarava come abitazione principale quella della famiglia e della moglie che invece individuava come abitazione principale la seconda casa in montagna (appartenente ai medesimi coniugi)»: M. Greggi, La nuova imposta municipale propria, in Studium iuris, n. 6, 2020, p. 800), deve comunque osservarsi l’esistenza di puntuali cautele assunte sul piano legislativo ove è vi è espressa previsione della contestuale presenza di due requisiti. La residenza anagrafica, quale requisito di ordine formale, è attestabile dal certificato di residenza rilasciato dal Comune mentre la dimora abituale individua il requisito di ordine sostanziale (cfr. L. Lovecchio, L’introduzione dell’IMU sperimentale, in Aa.Vv, Manuale dei tributi locali, Santarcangelo di Romagna (Rn), 2014, p. 106; A. Turchi, La famiglia nell’ordinamento tributario. Tra favore e limiti del sistema, Torino, 2015, p. 139). Tali circostanze apparivano scarsamente apprezzate dai Giudici di legittimità che si limitavano a rilevare la diversità del Comune di residenza anagrafica del primo coniuge con quello di dimora abituale dell’altro.
La vicenda in commento avrebbe anche potuto giovare dell’apporto interpretativo del Ministero dell’Economia e delle Finanze che, con la circolare n. 3/DF del 18 maggio 2012, aveva già avuto occasione di chiarire che «il legislatore non ha, però, stabilito la medesima limitazione nel caso in cui gli immobili destinati ad abitazione principale siano ubicati in comuni diversi, poiché in tale ipotesi il rischio di elusione della norma è bilanciato da effettive necessità di dover trasferire la residenza anagrafica e la dimora abituale in un altro comune, ad esempio, per esigenze lavorative». Nel suo autorevole indirizzo applicativo, il Ministero aveva, così, dedotto che nessun limite è previsto qualora gli immobili siano situati in Comuni diversi, non avendo il legislatore stabilito alcuna previsione in tal senso. Peraltro, nella risposta all’interrogazione n. 5-06286, svolta durante i lavori della VI Commissione permanente Finanze della Camera dei Deputati del 23 giugno 2021, il Dipartimento delle Finanze ha confermato tale impostazione. Infatti, dopo aver rilevato che nell’ipotesi di coniugi residenti in distinti immobili nel territorio comunale la disciplina positiva riconosce l’agevolazione per un solo immobile, è stato osservato come emerga «in tal modo la volontà del legislatore di dare alla norma un’impronta espressamente restrittiva, che costituisce l’eccezione rispetto alla regola secondo cui le agevolazioni possano essere riconosciute per tutti gli immobili, nel caso in cui siano ubicati in comuni diversi» (in tal senso si sono espressi anche G. Marini, (Postilla) Sull’illegittimità della tassazione ai fini IMU dell’abitazione principale dei coniugi residenti in Comuni diversi, in Riv. trim. dir. trib., n. 3, 2021, p. 726; A. Turchi, La famiglia nell’ordinamento tributario. Tra favore e limiti del sistema, cit., p. 124; L. Lovecchio, L’introduzione dell’IMU sperimentale, in Aa.Vv, Manuale dei tributi locali, cit., p. 107).
Inoltre, nel condividere la precedente tesi della Suprema Corte si perverrebbe a soluzioni a tratti irragionevoli che finirebbero per penalizzare i nuclei familiari più numerosi in relazione ai quali vi è certamente una maggiore probabilità che emergano esigenze lavorative o di studio, comportanti la disgregazione del rapporto di convivenza (in controtendenza, dunque, rispetto a quanto sostenuto da E. De Mita, Interesse fiscale e tutela del contribuente. Le garanzie costituzionali, Milano, 1995, p. 325, secondo cui «la forma tecnica dell’agevolazione costituzionalmente più plausibile, secondo me, è quella che la commisura all’ampiezza del nucleo familiare (la Repubblica agevola la formazione della famiglia anche con misure economiche e altre provvidenze, art. 31)».). Tra le possibili fattispecie potenzialmente verificabili nell’esperienza concreta, si pensi all’ipotesi, non infrequente, di un figlio maggiorenne che trasferisce la propria residenza da un immobile di proprietà in cui risiedono i genitori ad un altro da lui condotto in locazione. In tal caso la scissione del nucleo familiare tra ‘abitazione di proprietà’ e ‘abitazione in locazione’ si atteggerebbe ad elemento ostativo alla concessione dell’esenzione IMU sull’immobile di proprietà. Si tratterebbe, a ben vedere, di una soluzione non in linea con le finalità della legge, con conseguenze a dir poco paradossali poiché si configurerebbe un vero e proprio disincentivo per i giovani che intendano allontanarsi dalla ‘casa di famiglia’ per intraprendere un autonomo percorso di vita (Sul punto sia consentito rinviare a N. Treglia, L’esenzione IMU per l’abitazione principale dei coniugi residenti in comuni diversi: problematiche interpretative e spunti di riflessione, in Riv. trim. dir. trib., n. 3, 2021, p. 721).
La pronuncia, dopo aver ripercorso l’iter normativo in tema di agevolazioni sull’abitazione principale (prima ICI, poi IMU), ha affermato che quest’ultima «deve essere costituita da una sola unità immobiliare iscritta o iscrivibile in catasto, a prescindere dalla circostanza che sia utilizzata come abitazione principale più di una unità immobiliare distintamente iscritta in catasto». Viene quindi postulata l’unicità dell’abitazione principale per ciascun nucleo familiare, «inteso come unità distinta e autonoma rispetto ai suoi singoli componenti» (già un decennio fa M. Greggi, Abitazione principale e requisito di residenza a confronto nella disciplina tributaria di agevolazione del nucleo familiare, in Famiglia e diritto, n. 3, 2010, p. 241 ss. aveva osservato come «il “concetto di abitazione” principale va necessariamente correlato al nucleo familiare in sé e per sé considerato, a nulla rilevando il fatto che la residenza anagrafica di uno dei coniugi non sia coincidente con questo: dal punto di vista fiscale, infatti, l’abitazione principale è ravvisabile là ove il nucleo è stabilmente collocato». Più genericamente F. Farri, Punti fermi e profili di irrazionalità nel regime fiscale della famiglia, cit., p. 107 rileva come «appare, quindi, giuridicamente incontestabile, oltre che sociologicamente evidente, che per le persone che compongono una famiglia sia la famiglia stessa, e non tanto i singoli, a rappresentare il centro cui si riferisce il potere di disporre di beni e servizi in una prospettiva complessiva di acquisti, consumi e investimenti»). La famiglia è, pertanto, considerata unitariamente quale sistema organico valoriale, per cui appare di dubbia utilità domandarsi da chi sia composta e dove siano localizzati i singoli componenti. Si tratta, a ben vedere, di uno di quei rari casi in cui la legge tributaria attribuisce rilevanza al nucleo familiare, atteso che, allo stato, la famiglia non è considerata come un autonomo centro di imputazione dell’obbligazione di imposta (per approfondimenti si rinvia a A. Giovannini, Famiglia e capacità contributiva, in Riv. dir. trib., n. 1, 2013, p. 221 ss.; e a A. Contrino, Sulla riforma della fiscalità della famiglia: una proposta strutturale e articolata, che va oltre il c.d. assegno unico, tra ineludibili moniti del Giudice delle leggi ed eliminabili effetti collaterali in punto di disincentivo al lavoro femminile, in Riv. dir. trib., supplemento online, 31 dicembre 2020). Di conseguenza, il nucleo familiare resta unico anche qualora i coniugi dovessero dimorare in differenti immobili. La modalità esegetica della Suprema Corte si innesta sul concetto civilistico di abitazione principale: luogo di ubicazione della casa coniugale all’interno del quale si esplicano i legami affettivi e i rapporti familiari. Seguendo un orientamento giurisprudenziale piuttosto consolidato (cfr. Cass., 26 giugno 1992, n. 8019; Cass., 5 maggio 1999, n. 4492; Cass., 24 aprile 2001, n. 6012; Cass., 15 giugno 2010, n. 1438), è stato infatti richiamato il tradizionale concetto di residenza della famiglia contenuto nell’art. 144 c.c., primo comma («I coniugi concordano tra loro l’indirizzo della famiglia e fissano la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa»), finalizzato non tanto a fissare un dovere di coabitazione quanto piuttosto a valorizzare il prevalente interesse della famiglia su quello dei coniugi uti singuli.
Muovendo da tale premessa, i Giudici distinguono due ipotesi di disgregazione del nucleo familiare. Nella prima, quest’ultimo resta integro, nonostante il temporaneo allontanamento di un componente per ragioni di lavoro o studio, e può quindi fruire dell’esenzione IMU unicamente per la propria abitazione principale. La seconda ipotesi, invece, si riferisce ad una frattura del rapporto di convivenza (definita da Cass., 17 maggio 2018, n. 12050 e da Cass., 7 giugno 2019, n. 15439 come «situazione di fatto consistente nella inconciliabilità della prosecuzione della coesistenza, sotto lo stesso tetto, delle persone legate dal rapporto coniugale, con conseguente superamento delle presunzioni di coincidenza tra casa coniugale e abitazione principale») tra i coniugi (c.d. separazione di fatto): dalla lettura della decisione pare di intendere che il regime agevolativo in parola non sia fruibile in questo caso per nessuno degli immobili in cui rispettivamente dimorano i coniugi. Difatti in tale evenienza – benché siano solo sospesi gli effetti civili del matrimonio – in applicazione dell’impostazione della Corte è ragionevole ritenere che sia venuto meno in sostanza il presupposto fondamentale della nozione di famiglia. In ogni caso, queste ipotesi di disgregazione del nucleo familiare costituiscono circostanze eccezionali, delle quali è necessario fornire idonea dimostrazione; va infatti sempre tenuto presente che, come sottolineato dall’ordinanza, occorre «impedire che la fittizia assunzione della dimora o della residenza in altro luogo da parte di uno dei coniugi crei la possibilità per il medesimo nucleo familiare di godere due volte dei benefici per l’abitazione principale».
In conclusione, secondo la Cassazione l’esenzione può essere applicata per un unico immobile per ciascun nucleo familiare, salvo il caso in cui distinte unità siano state precedentemente accatastate unitariamente. Si tratta della c.d. unificazione fiscale, prospettata in tema di agevolazioni ‘prima casa’ previste dall’art. 1, nota II-bis, d.p.r. n. 131/1986, Tariffa, parte I, e che la Corte ritiene applicabile anche ai fini IMU, in virtù del fatto che a seguito dell’accorpamento viene costituita una nuova ed unica unità immobiliare (cfr. B. Ianniello, La prevalenza della effettività della fusione di due unità contigue sul dato catastale ai fini delle agevolazioni “prima casa”, in Dir. e prat. trib., n. 3, 2021, p. 1414 ss. Sul punto si veda anche la Circolare n. 27/E del 13 giugno 2016 dell’Agenzia delle Entrate, pp. 10-11).
Con riferimento alle fatture per utenze domestiche, la Cassazione ha già avuto modo di affermare che «il consumo non esiguo di importi per utenze costituisce elemento rilevante al fine della prova della residenza abituale nell’immobile» (Ordinanza, 15 febbraio 2019, n. 4584. Nello stesso senso, e forse ancor più esplicitamente, anche Cass., 28 marzo 2019, n. 8627 che, nell’attribuire rilevo giuridico alla documentazione fornita dalla contribuente, afferma che quest’ultima «ha inteso fornire la dimostrazione della ricorrenza dei requisiti richiesti per il sorgere del diritto alla particolare “detrazione” cui si riferisce la pretesa fiscale dedotta in giudizio, attraverso la produzione di documenti, quali le bollette delle utenze relative alla rete idrica, elettrica e del gas, in quanto direttamente riferibili ai soggetti interessati, e poiché la normativa sopra richiamata non prevede alcuna limitazione circa la prova dell’utilizzo del bene che incombe sul contribuente, non essendo la stessa alcun modo tipizzata, tale prova può essere offerta, contrariamente a quanto sembra ritenere il giudice di merito, con qualsiasi mezzo all’uopo idoneo, secondo le regole generali». Da ultimo, Cass., 22 ottobre 2021, n. 29505 ha statuito «che l’elemento presuntivo dei bassi consumi elettrici nel triennio, debitamente riscontrata dal Comune, fosse una sufficiente fonte di convincimento … in quanto elemento sintomatico di una presenza nell’abitazione oggetto d’imposizione non abituale»). Dunque, i consumi idrici, elettrici e del gas rilevano in quanto circostanze oggettive nell’attestazione della dimora poiché creano un ragionevole nesso di collegamento tra i soggetti interessati e l’immobile. Detti consumi devono essere compatibili con una presenza costante del nucleo familiare all’interno dell’abitazione, in caso contrario se ne desume, infatti, che quest’ultima non è stata utilizzata costantemente nel corso dell’anno. Quanto alle dichiarazioni di terzi, dottrina (si rinvia a F. Menti, L’utilizzo delle dichiarazioni di terzi nell’accertamento dei redditi e dell’Iva, in Dir. e prat. trib., n. 2, 2002, p. 20956 ss.; A. Marcheselli, Diritto alla prova e parità delle armi nel processo tributario, in Dir. e prat. trib., n. 2, 2003, p. 443 ss.; F. Pistolesi, L’efficacia probatoria delle informazioni rese da terzi nel processo tributario, in Corr. trib., n. 29, 2007, p. 2360 ss.; A.E. La Scala, Prova testimoniale, diritto di difesa e giusto processo tributario, in Rass. trib., n. 1, 2012, p. 90 ss.) e giurisprudenza (Cass., 4 luglio 2014, n. 15331; Cass., 3 novembre 2017, n. 26140; Cass., 19 novembre 2018, n. 29757; Cass., 3 novembre 2020, n. 24294) concordano ormai nel ritenerle pacificamente ammissibili nell’ambito del processo tributario, anche se con la valenza probatoria di semplici indizi che necessitano di ulteriori elementi per concorrere a formare il libero convincimento del giudice (in questo senso la sentenza della Corte costituzionale 21 gennaio 2000, n. 18, in Giur. it., 2000, p. 1075 ss., che ha evidenziato la differenza tra le dichiarazioni di terzi e la prova testimoniale. Quest’ultima, infatti, è espressamente vietata nel processo tributario, ai sensi dell’art. 7, comma 4, del d.lgs n. 546/1992). In ossequio al principio di parità delle armi poi, la facoltà di produrre in giudizio dichiarazioni scritte di terzi deve essere riconosciuta sia all’Amministrazione finanziaria sia al contribuente, anche attraverso una dichiarazione sostitutiva di atto notorio (cfr. L. Tosi, “Testimonianza orale” e “testimonianza scritta” nel processo tributario, in A.a.V.v., Studi in onore di Enrico De Mita, vol. II, Napoli, 2012, p. 974 ss.; G. Melis, Manuale di diritto tributario, Torino, 2019, pp. 333-334; F. Tesauro, Manuale del processo tributario, Torino, 2020, pp. 168-169; A. Colli Vignarelli, Valore probatorio delle dichiarazioni del contribuente e dei terzi, in Riv. dir. trib., supplemento online, 4 giugno 2021. In giurisprudenza v. Cass., 30 settembre 2011, n. 20032; Cass., 21 gennaio 2015, n. 960; Cass., 4 novembre 2016, n. 22413; Cass., 16 marzo 2018, n. 6616; Cass., 2 ottobre 2019, n. 24531; Cass., 15 gennaio 2021, n. 592).
È di tutta evidenza, dunque, come le fatture per utenze domestiche e le dichiarazioni di terzi possano costituire un’efficace fonte di prova che consenta, attraverso un approccio sostanzialistico (sul punto si veda F. Montanari, La prevalenza della sostanza sulla forma come criterio di effettività e di rilevanza nei rapporti tributari, in Riv. dir. trib., n. 5, 2019, p. 518 ss.), di dimostrare l’abitualità della dimora del nucleo familiare presso la propria abitazione principale.
Preme a questo punto rilevare che la Commissione tributaria regionale della Liguria (Ordinanze 23 settembre 2020 e 9 marzo 2021, in Gazzetta ufficiale n. 28 del 14 luglio 2021) e la Commissione tributaria provinciale di Napoli (Ordinanza, 22 novembre 2021, n. 2985, in Gazzetta ufficiale n. 4 del 26 gennaio 2022) hanno sollevato una questione di legittimità costituzionale relativamente all’impianto normativo dell’IMU, nella parte in cui non prevede l’esenzione dall’imposta per l’abitazione adibita a dimora principale del nucleo familiare nel caso in cui uno dei suoi componenti sia residente in un immobile ubicato in un altro Comune. Ad avviso dei Giudici remittenti, infatti, il diritto all’esenzione dovrebbe sorgere sia qualora il nucleo familiare sia dislocato in più immobili nel medesimo Comune sia qualora un componente risieda o dimori in un Comune diverso, emergendo altrimenti profili di illegittimità costituzionali in relazione agli artt. 3, 29, 31, 47 e 53 Cost.
Come si è detto, l’ordinanza della Cassazione in commento risolve la questione mediante un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 13, comma 2, del d.l. n. 201/2011. Secondo i Giudici remittenti, siffatta esegesi sarebbe preclusa in ragione: i) dell’univoco tenore letterale della disposizione, che secondo la giurisprudenza costituzionale costituisce un limite insuperabile all’adeguamento interpretativo (Corte cost., 20 giugno 2008, n. 219; Corte cost., 28 gennaio, 2010, n. 26; Corte cost., 5 aprile 2012, 78; Corte cost., 22 ottobre 2014, n. 240; Corte cost., 26 marzo 2015, n. 49; Corte cost., 19 febbraio 2016, n. 36; Corte cost., 13 aprile 2017, n. 82); ii) della presenza di un univoco indirizzo interpretativo che dà luogo ad un c.d. diritto vivente (Corte cost., 20 luglio 1994, n. 326; Corte cost., 7 giugno 1996, n. 187).
Con riguardo al primo aspetto, la questione è «stabilire la “soglia” oltre il quale la flessibilità della lettera della legge – presupposto concettuale, ancor prima che giuridico, dell’interpretazione adeguatrice – si trasforma in “occupazione”, da parte della Consulta o degli altri operatori del diritto, del campo proprio del legislatore» (in questi termini A. Giovannini, L’interpretazione secundum costitutionem come strumento di riforma del processo tributario, in Dir. e prat. trib., n. 5, 2013, p. 11057 ss.). Ebbene, con riferimento al caso di specie, la scelta ermeneutica della Cassazione, secondo la quale il nucleo familiare si deve intendere come unità distinta e autonoma rispetto ai singoli componenti, pare cogliere il senso della norma e riporta coerenza e razionalità nel sistema, evitando che interpretazioni formalistiche si pongano come ostative alla fruizione del beneficio per ciascun nucleo familiare.
Con riguardo al secondo aspetto, è di tutta evidenza come l’ordinanza della CTP di Napoli ometta di considerare la pronuncia in commento, che ammette, alle condizioni di cui si è detto, il beneficio per l’unica abitazione principale, a differenza delle precedenti pronunce che invece lo disconoscevano per entrambi gli immobili. Anzi, a ben vedere, successivamente all’ordinanza in epigrafe, la Suprema Corte con una tanto inaspettata quanto paradossale inversione di rotta è tornata nuovamente a privilegiare il precedente orientamento; di qui la dimostrazione di repentine oscillazioni sul piano esegetico giurisprudenziale (cfr. Cass., 25 novembre 2021, n. 36676; Cass., 29 novembre 2021, n. 37169; Cass., 6 dicembre 2021, n. 38672).
In seguito all’ordinanza di rimessione della CTP di Napoli si è espressa la Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 94/2022 depositata il 12 aprile 2022, sollevando dinnanzi a sé la questione di legittimità costituzionale del quarto periodo del secondo comma dell’art. 13 del d.l. n. 201/2011 «nella parte in cui, ai fini del riconoscimento della relativa agevolazione, definisce quale abitazione principale quella in cui si realizza la contestuale sussistenza del duplice requisito delle residenza anagrafica e della dimora abituale non solo del possessore, ma anche del suo nucleo familiare, in riferimento agli artt. 3, 31 e 53, primo comma, della Costituzione» (si precisa che, invece, la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla CTR della Liguria è stata ritenuta manifestamente inammissibile «perché formulata in modo oscuro e contraddittorio, con conseguenti ripercussioni in termini di ambiguità del petitum»: così C. cost. n. 107/2022, depositata il 28 aprile 2022).
Si osserva, dunque, come la Corte non risolva la questione sottoposta dal giudice a quo, concernente quella disposizione che, così come spesso interpretata dalla giurisprudenza, tende a negare l’esenzione per entrambi i coniugi residenti in immobili ubicati in Comuni diversi. Viene, infatti, affrontata la più ampia e pregiudiziale questione relativa all’impianto generale dell’art. 13 secondo comma, con particolare riguardo alla nozione di abitazione principale, ritenuta di dubbia legittimità costituzionale in relazione agli artt. 3, 31 e 53, primo comma, Cost.
Quanto all’art. 31, la previsione secondo cui nella definizione di abitazione principale occorre tener conto della residenza/dimora sia possessore che del suo nucleo familiare potrebbe determinare un’ingiustificata differenza di trattamento tra differenti regimi di convivenza: da un lato quello di chi decide di formalizzare il rapporto nel matrimonio o nell’unione civile, dall’altro quello di chi intraprenda invece una relazione affettiva al di fuori di qualunque modello legale. Nel primo caso non si avrebbe, infatti, diritto all’esenzione sull’abitazione principale mentre nel secondo entrambi i partner potrebbero fruire del regime in parola. Quanto all’art. 53, la Consulta dubita della sussistenza di una maggiore capacità contributiva del nucleo familiare rispetto ai singoli soggetti, richiamando la nota sentenza n. 179/1976 della stessa Corte, secondo la quale non è dimostrato né dimostrabile che per effetto del matrimonio «si abbia un aumento della capacità contributiva dei due soggetti insieme considerati».
In definitiva, sembra che i Giudici costituzionali ritengano inconferente il riferimento al nucleo familiare contenuto nella definizione di abitazione principale, atteso che «la possibilità di accesso all’agevolazione per ciascun possessore dell’immobile adibito ad abitazione principale viene meno al verificarsi della mera costituzione del nucleo familiare, nonostante effettive esigenze possano condurre i suoi componenti a stabilire residenze e dimore abituali differenti». Quindi, il nucleo familiare ben potrebbe costituire un elemento di ostacolo all’esenzione per ciascun componente della famiglia che abbia residenza anagrafica ed effettiva dimora abituale in un diverso immobile.
In sostanza, ciascun nucleo familiare può fruire dell’esenzione ai fini IMU per un solo immobile, indipendentemente dalla circostanza che l’altro immobile in cui eventualmente risiedono o dimorano gli ulteriori componenti sia ubicato nello stesso Comune del primo o in un Comune diverso. Tuttavia, nell’accogliere l’interpretazione fornita dalla Suprema Corte con la pronuncia in epigrafe, la novella desta qualche perplessità laddove prevede che debba essere il contribuente a scegliere l’immobile da qualificare come abitazione principale del nucleo familiare. In tal modo, infatti, vi è il rischio di svalutare la ratio agevolatrice della norma – ridurre il carico impositivo sulla casa di abitazione in quanto bene costituzionalmente protetto – poiché la scelta potrebbe essere verosimilmente condizionata da una mera valutazione di carattere economico. In altri termini, una disposizione di questo tenore, pur agevolando innegabilmente l’attività accertativa dei Comuni, induce il nucleo familiare a fissare la propria abitazione principale presso quell’immobile che genera un’imposta superiore, prescindendo dal luogo dove effettivamente si costruiscono nella ritualità i legami affettivi e i rapporti familiari.
Peraltro non si può fare a meno di rilevare come anche la nuova disposizione poggi sul concetto di nucleo familiare, il cui riferimento nell’ambito della definizione di abitazione principale è stato ritenuto dalla Consulta di dubbia legittimità costituzionale proprio nell’ordinanza di autorimessione del 12 aprile 2022. Se all’esito del nuovo giudizio, la Corte dovesse dichiarare l’illegittimità del criterio generale della sussistenza nel medesimo immobile della residenza e dimora di tutti i membri del nucleo familiare, occorrerà un nuovo intervento del legislatore volto a ‘riscrivere’ la nozione di abitazione principale. Invero, un’ulteriore soluzione potrebbe essere rappresentata da una sentenza di accoglimento c.d. manipolativa, con la quale sarebbe la stessa Corte a risolvere direttamente la vexata quaestio, eliminando il riferimento al nucleo familiare.
Sul piano temporale la novella acquista efficacia il 21 dicembre 2021 (la legge di conversione è stata, infatti, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 301 del 20 dicembre 2021): non è, dunque, applicabile per i periodi di imposta antecedenti al 2022, in quanto si tratta di una norma sostanziale per la quale «vale il principio secondo cui si applicano quelle vigenti nel momento in cui si verifica il presupposto d’imposta» (in questi termini G. Melis, Manuale di diritto tributario, cit., p. 86. Sul punto si veda anche F. Paparella, Lezioni di diritto tributario. Parte generale, Milano, 2021, p. 94 ss.: «tra le norme sostanziali e quelle procedimentali esiste una differenza di notevole rilievo pratico sul piano della successione delle leggi nel tempo e della possibile applicazione retroattiva (infra al par. 4) in quanto alle prime si applica il criterio del “factum praeteritum” (e, dunque, non influiscono sugli effetti della norma anteriore perché dispongono solo per il futuro) mentre alle seconde il principio “tempus regit actum” che attribuisce alla norma successiva un’efficacia estesa al periodo precedente alla sua entrata in vigore (ovvero una sorta di retroattività)»). Inoltre, pur ritenendo che con disposizione de qua il legislatore si sia limitato ad attribuire alla norma il significato che le doveva essere assegnato sin dall’origine, si osserva come essa non possa essere qualificata come norma di interpretazione autentica (sul punto v. A. Amatucci, L’interpretazione della legge tributaria, in Idem (diretto da), Trattato di diritto tributario, cit., p. 597 ss.; G. Melis, L’interpretazione nel diritto tributario, cit., p. 455 ss.; F. Amatucci, L’efficacia nel tempo della norma tributaria, Milano, 2005, p. 27 ss.; R. Fanelli, Tra norme interpretative e norme retroattive, in Corr. trib., n. 8-9, 2019, p. 817 ss.), in relazione alla quale l’art. 1, comma 2, e l’art. 3, comma 1, dello Statuto dei diritti del contribuente ammettono la retroattività. Ben potrebbe essere ricondotta tra le c.d. disposizioni integrative, definite da autorevole dottrina come quelle che hanno «per fondamento il presupposto che il testo da integrare sia un testo di significato univoco, da cui è estraibile una sola norma; suppone, però, che il testo sia monco, formulato in modo inadeguato. Suppone che il legislatore minus dixit quam voluit; la disposizione integrativa rende esplicito ciò che nel testo c’è già, ma era implicito, non espresso, o espresso male; essa adegua la forma (il testo) al contenuto (la norma)» (così F. Tesauro, Sulla distinzione tra disposizioni interpretative, integrative, correttive e modificative nella legislazione tributaria delegata, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1990, II, p. 13, che in tal modo supera la tradizionale distinzione tra norme interpretative e norme integrative. Cfr. anche G.M. Cipolla, La giurisprudenza tributaria, le modifiche normative e le controversie in corso, in Rass. trib., 1994, p. 408 ss., che sottolinea come «il rischio che altrimenti si corre, allorché ci si ponga nell’ottica tradizionale, è quello di accentuare piuttosto che semplificare le antinomie del sistema e di introdurre (anziché limitare) le ipotesi di illegittimità costituzionale delle norme vecchie»). Nell’attesa che la Corte costituzionale si pronunci nuovamente sulla questione, l’attività accertativa degli Uffici e le controversie pendenti dovranno avere come riferimento sempre la norma previgente, che però, come si è visto, qualora venga interpretata secundum costitutionem potrebbe condurre nella stessa direzione della nuova disposizione. Tuttavia nell’ipotesi in cui la Suprema Corte, mediante un’esegesi restrittiva, continui a negare il beneficio ad entrambi gli immobili candidati a fruirne emergono profili di irragionevolezza che forse avrebbero dovuto indurre il legislatore a propendere per una norma di interpretazione autentica.
Tirando le fila del discorso, si osserva, poi, come la disposizione, nel demandare al contribuente la scelta dell’immobile su cui applicare il regime agevolativo, creerà non poche difficoltà ai Comuni, che soltanto in sede di dichiarazione IMU conosceranno se il possessore avrà optato per l’esenzione sull’immobile ubicato nel proprio territorio. Se da un lato, dunque, la novella esalta l’affidamento dei cittadini nella sicurezza delle posizioni giuridiche di vantaggio, dall’altro potrebbe generare incertezza negli enti locali, in termini di prevedibilità ex ante di un’entrata tributaria (cfr. F. Farri, Le (in)certezze nel diritto tributario, in Dir. e prat. trib., n. 2, 2021, p. 720 ss. il quale osserva come «la certezza del diritto, intesa come ragionevole prevedibilità delle conseguenze giuridiche delle proprie azioni, costituisce invero valore strutturale indefettibile per il comparto della finanza pubblica, nella misura in cui validi meccanismi previsionali sono strumenti indispensabili per consentire l’indirizzamento delle pubbliche spese da parte della collettività e un’ordinata gestione contabile (viepiù necessaria dopo il fiscal compact)»).