argomento: Profili europei e Internazionali - Giurisprudenza
Con la sentenza del 27 gennaio 2022 (causa C-788/19) la Corte di Giustizia UE ha stabilito che la normativa spagnola sul monitoraggio fiscale reca un pregiudizio sproporzionato alla libera circolazione dei capitali nella misura in cui punisce l’inosservanza, da parte del contribuente fiscalmente residente in Spagna, degli obblighi di dichiarazione dei beni e diritti situati all’estero con una sanzione proporzionale al 150% dell’imposta, calcolata sulle somme corrispondenti al valore di tali beni e diritti, oltreché con sanzioni forfettarie. Le recenti statuizioni della Corte di Giustizia offrono lo spunto per svolgere alcune brevi considerazioni critiche sulla compatibilità comunitaria della disciplina italiana sul monitoraggio fiscale, che ha indubbiamente notevoli consonanze con l’impianto normativo spagnolo ritenuto in contrasto con il diritto dell’Unione Europea.
» visualizza: il documento (CGUE, 27 gennaio 2022, C-788/19 )PAROLE CHIAVE: libera circolazione dei capitali - monitoraggio fiscale - quadro RW
di Francesco Spinello
1. Con la sentenza del 27 gennaio 2022, relativa alla causa C-788/19 (Commissione Europea contro Regno di Spagna), la Corte di Giustizia ha stabilito che la disciplina spagnola sul monitoraggio fiscale – secondo cui i soggetti fiscalmente residenti in Spagna hanno l’obbligo di indicare nel “Modello 720” (corrispondente al “quadro RW” italiano) gli investimenti e le attività detenute all’estero – è contraria al diritto dell’Unione Europea in quanto non conforme al principio di proporzionalità.
La richiamata normativa, già ritenuta incompatibile dalla Commissione Europea (cfr. al riguardo il parere motivato del 15 febbraio 2017), prevede infatti rilevanti conseguenze sanzionatorie in caso di omessa, inesatta o tardiva presentazione del Modello 720; tali conseguenze consistono, in particolare, nella qualificazione degli attivi come plusvalenze patrimoniali non giustificate, con la loro integrazione nella base imponibile generale a prescindere dalla data di acquisto degli attivi interessati, nonché nell’irrogazione di una sanzione proporzionale del 150% e di sanzioni forfettarie più rigorose rispetto a quelle previste per violazioni delle stessa specie.
La sentenza in commento muove dall’assunto secondo cui l’obbligo di presentazione del Modello 720 e le sanzioni collegate all’inosservanza o all’adempimento inesatto o tardivo di tale obbligo, che non hanno equivalenti per quanto riguarda i beni o i diritti situati in Spagna, istituiscono una disparità di trattamento tra i residenti in tale Paese a seconda del luogo in cui si trovino i loro attivi. L’0bbligo in questione, difatti, è idoneo a dissuadere, impedire o limitare le possibilità dei residenti in Spagna di investire in altri Stati membri e per tale ragione costituisce una restrizione alla libertà di circolazione dei capitali in violazione dell’art. 63, par. 1 del TFUE e dell’art. 40 dell’accordo SEE (v. in tal senso, sentenze dell’11 giugno 2009, X e Passenheim-van Schoot, cause C-155/08 e 157/08, punti da 36 a 40) (sul punto cfr. anche giordano-merolle, Obblighi domestici di dichiarazione di asset esteri e libertà unionale di circolazione dei capitali – Il caso spagnolo all’esame della Corte di Giustizia, in Norme e Tributi Plus de IlSole24Ore, 31 gennaio 2022).
2. Ciò posto, con la sentenza del 27 gennaio 2022 la Corte di Giustizia ha stabilito che la Spagna è venuta meno agli obblighi su di essa incombenti in forza della libera circolazione dei capitali, avendo previsto, come conseguenza dell’inadempimento o dell’adempimento inesatto o tardivo dell’obbligo di informazione riguardo ai beni e ai diritti situati all’estero, la qualificazione di tali attivi come “plusvalenze patrimoniali non giustificate”, senza alcuna possibilità di eccepire la prescrizione (sul punto si vedano anche galimberti-vallefuoco, Il monitoraggio fiscale torna nel mirino dell’UE, in Norme e Tributi Plus de IlSole24Ore, 27 gennaio 2022).
E’ bensì vero, secondo i giudici comunitari, che una presunzione di percezione di “plusvalenze patrimoniali non giustificate” quale quella istituita dal legislatore spagnolo non appare sproporzionata rispetto agli obiettivi di garanzia dell’efficacia dei controlli fiscali e di lotta contro l’evasione e l’elusione fiscale se e nella misura in cui possa essere confutata dal contribuente. Tuttavia, le scelte operate dal governo spagnolo in materia di prescrizione risultano sproporzionate rispetto ai summenzionati obiettivi, in quanto consentono – secondo il combinato disposto di cui agli articoli 39, paragrafo 2 della Legge relativa all’imposta sul reddito delle persone fisiche e 121, paragrafo 6 della Legge relativa all’imposta sulle società – all’Amministrazione Finanziaria di procedere senza limiti di tempo alla rettifica dell’imposta dovuta per le somme corrispondenti al valore dei beni o dei diritti situati all’estero e non dichiarati, o dichiarati in modo inesatto o tardivo mediante il Modello 720.
In altri termini, il disposto normativo adottato dal legislatore iberico, oltre a comportare effetti di imprescrittibilità, consente persino all’Amministrazione Finanziaria di rimettere in discussione la prescrizione già maturata in favore del contribuente, il che pregiudica la fondamentale esigenza di garantire la certezza del diritto.
Secondo la Corte, pertanto, il legislatore spagnolo, prevedendo conseguenze così onerose rispetto all’inosservanza dell’obbligo dichiarativo de quo, ha ecceduto quanto necessario al fine di garantire l’efficacia dei controlli fiscali e per contrastare l’evasione e l’elusione fiscale.
3. Con la sentenza in commento la Corte di Giustizia ha inoltre stabilito che la Spagna è venuta meno agli obblighi su di essa incombenti in forza della libera circolazione dei capitali, avendo previsto, come conseguenza dell’inadempimento o dell’adempimento inesatto o tardivo dell’obbligo di informazione in questione, l’irrogazione di una sanzione proporzionale del 150% dell’imposta calcolata sulle somme corrispondenti al valore dei beni o dei diritti detenuti all’estero, cumulabile con sanzioni forfettarie che si applicano a ciascun dato o a ciascuna categoria di dati mancanti, incompleti o inesatti che devono essere indicati nel Modello 720.
A tal fine occorre infatti osservare che, se da un lato, in assenza di armonizzazione nel diritto dell’Unione Europea, gli Stati membri possono comminare le sanzioni che ritengono più appropriate in caso di inosservanza degli obblighi previsti delle singole normative nazionali in materia di imposte dirette, dall’altro, gli stessi Stati sono comunque tenuti ad esercitare tale competenza in conformità ai principi generali dei rispettivi ordinamenti e, quindi, nel rispetto del principio di proporzionalità (v. in tal senso, sentenza del 16 dicembre 1992, Commissione contro Grecia, causa C-210/91, punto 19; sentenza del 26 ottobre 1995, Siesse, causa C-36/94, punto 21; sentenza del 7 dicembre 2000, De Andrade, causa C-213/99, punto 20; sentenza del 12 luglio 2001, Louloudakis, causa C-262/99, punto 67) (per un’esaustiva ricostruzione del principio di proporzionalità si veda buccico, L’applicazione del principio di proporzionalità alle sanzioni tributarie, in Dir. Prat. Trib. Int., 2020, 3 pp. 933 ss; sul punto cfr. anche salvati, Principio di proporzionalità e sanzioni da ritardo nell’adempimento dell’obbligazione tributaria, in Rassegna Tributaria, 2013, 3, pp. 572 ss.).
Secondo la costante giurisprudenza comunitaria, infatti, le misure amministrative o repressive “non devono esulare dai limiti di quanto è strettamente necessario agli obiettivi perseguiti e una sanzione non deve essere così sproporzionata rispetto alla gravità dell'infrazione da risolversi in un ostacolo alle libertà sancite dal TFUE” (v., in tal senso, sentenza 16 dicembre 1992, Commissione contro Grecia, causa C-201/91, punto 20; sentenza del 12 luglio 2001, Louloudakis, causa C-262/99, punto 67).
La Corte ha altresì rilevato che l’aliquota molto elevata di tale sanzione conferisce a quest’ultima un carattere estremamente repressivo, e che il cumulo di tale sanzione con le sanzioni forfettarie ulteriormente previste produce, in numerose fattispecie, l’effetto di aumentare l’importo complessivo delle somme dovute dal contribuente di oltre il 100% rispetto al valore dei beni o dei diritti detenuti all’estero.
Con la sentenza in commento, infine, la Corte di Giustizia ha stabilito che il legislatore spagnolo ha ulteriormente violato gli obblighi su di esso incombenti in forza della libera circolazione dei capitali, avendo previsto, come conseguenza dell’inadempimento o dell’adempimento inesatto o tardivo dell’obbligo di informazione riguardo ai beni e ai diritti situati all’estero, l’irrogazione di sanzioni forfettarie molto elevate, il cui importo non è commisurato alle sanzioni previste per infrazioni simili in un contesto puramente nazionale e per il cui importo complessivo non è previsto un limite massimo. Tali caratteristiche, secondo i giudici comunitari, sono sufficienti per dimostrare che anche le richiamate sanzioni forfettarie istituiscono una restrizione sproporzionata alla libera circolazione dei capitali.
4. Il chiaro percorso argomentativo seguito dalla Corte di Giustizia con la sentenza in commento ingenera il dubbio di una corrispondente incompatibilità comunitaria della disciplina italiana sul monitoraggio fiscale, che presenta notevoli consonanze con l’impianto normativo spagnolo ritenuto in contrasto con il diritto dell’Unione Europea.
L’esistenza di una potenziale restrizione dei movimenti di capitale rilevante ai fini dell’applicazione del TFUE può essere ravvisata, in via preliminare, nell’eccessiva onerosità degli adempimenti imposti dall’art. 4 del D.L. n. 167/1990, che appaiono piuttosto gravosi rispetto alle esigenze di accertamento dei redditi prodotti all’estero (sul punto cfr. anche cimaz-piazza, Il censimento dell’RW duplica lo scambio di informazioni, in IlSole24Ore del 1o gennaio 2020, p. 22).
In questo senso, la Commissione Europea con il caso EU Pilot n. 1711/11/Taxu aveva già avanzato nei confronti del nostro Paese alcune richieste di semplificazione degli obblighi dichiarativi in questione, tra cui quella di eliminare la Sezione III del quadro RW, riservata all’indicazione dei trasferimenti da e verso l’estero (sul punto cfr. anche d’agostino, La nuova disciplina sanzionatoria del monitoraggio fiscale tra limiti eurounitari e controlimiti costituzionali: la parola alla Corte di Giustizia, in Diritto e Pratica Tributaria internazionale, 2017, pp. 957 ss.).
Il legislatore nazionale, invero, aveva dato seguito alla richiesta della Commissione Europea, eliminando gli obblighi dichiarativi relativi alle Sezioni I e III del quadro RW (in tal senso cfr. l’. art. 9 della Legge 6 agosto 2013, n. 97 (c.d. “Legge europea 2013”)) (per ulteriori approfondimenti sul punto cfr. piazza, Denuncia dell’AIDC alla Commissione UE sul quadro RW, in Il Fisco, 2020, 9, pp. 849 ss).
L’Agenzia delle Entrate, tuttavia, nel dare attuazione alle suddette modifiche normative con il Provvedimento del 18 dicembre, ha espressamente chiarito che nella rinnovata versione del quadro RW il contribuente deve determinare e indicare, anche in un apposito prospetto, il periodo di possesso delle attività detenute all’estero (sul punto cfr. anche i chiarimenti interpretativi forniti dall’Agenzia delle Entrate con la Circolare n. 38/E del 23 dicembre 2013).
Sul piano pratico, l’originario adempimento consistente nell’indicazione dei trasferimenti da e verso l’estero in un apposito quadro della dichiarazione è stato pertanto sostituito da adempimenti ben più gravosi per il contribuente: come rilevato dall’Associazione Italiana dei Dottori Commercialisti con la denuncia n. 14 del 12 dicembre 2019, infatti, la modulistica vigente esige che per ogni attività detenuta all’estero sia analiticamente determinato il “periodo di possesso”, espresso in giorni in relazione ai valori mobiliari, e in mesi con riferimento ai beni immobili.
Gli obblighi dichiarativi de quo si pongono dunque in contrasto con il principio di libera circolazione dei capitali di cui all’articolo 63, paragrafo 1 del TFUE, il quale, come enunciato dalla Corte di Giustizia in relazione alla normativa spagnola sul monitoraggio fiscale, vieta l’imposizione da parte di uno Stato membro di misure idonee a dissuadere, impedire, o a limitare le possibilità degli investitori residenti di investire in altri Paesi. Pur considerando l’esigenza di assicurare l’accertamento di violazioni tributarie, le misure adottate nei singoli Stati non debbono infatti superare quanto necessario al fine di raggiungere tali obiettivi, così come impone il principio di proporzionalità.
Nell’applicare tale principio, invero, si deve tener presente come da diverse sentenze della Corte di Giustizia emerga che gli ostacoli motivati dall’esigenza di garantire l’efficacia dei controlli tributari non sono giustificati quando esistono con l’altro Stato (specie se si tratta di uno Stato membro) efficaci sistemi di scambio d’informazione su richiesta, specie se in combinazione con sistemi di scambio automatico che consentano alle autorità fiscali di innescare tempestive indagini (v. in tal senso, sentenze dell’11 giugno 2009, X e Passenheim-van Schoot, cause C-155/08 e 157/08, punti 62 e ss.; sentenza del 9 ottobre 2014, Van Caster, causa C-326/12, punto 55).
Ne consegue che la disciplina nazionale in tema di monitoraggio fiscale si pone contrasto anche con il principio di proporzionalità allorquando impone ai contribuenti italiani adempimenti eccessivamente gravosi rispetto alla necessità di garantire l’efficacia dei controlli fiscali, a maggior ragione laddove i dati richiesti a tal fine risultano già in possesso dell’Amministrazione Finanziaria mediante i vari sistemi di scambio di informazioni di cui l’Italia è parte (ci si riferisce, in particolare, allo scambio di informazioni automatico con il Paesi europei previsto dall’art. 8, commi 1 e 3-ter della Direttiva 2011/16/UE del Consiglio relativa alla cooperazione amministrativa nel settore fiscale, al sistema Common reporting standard dell’OCSE e al sistema FACTA).
5. Il percorso argomentativo seguito dalla Corte di Giustizia con la sentenza in commento contribuisce anche a riaprire il dibattito sull’incompatibilità comunitaria delle disposizioni di contrasto ai paradisi fiscali introdotte con l’art. 12 del D.L. 1 luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla Legge 3 agosto 2009, n. 102 e, in particolare, della disciplina relativa al raddoppio dei termini di accertamento (art. 12, comma 2-bis) ovvero dei termini per la constatazione delle violazione degli obblighi di monitoraggio (art. 12, comma 2-ter) (per un’esaustiva ricostruzione della disciplina nazionale sul raddoppio dei termini si veda mastellone, Raddoppio dei termini da quadro RW tra violazione dei principi nazionali e incompatibilità con il diritto europeo, in Dir. Prat. Trib, 2018, 4, pp. 1469 ss); e ancora mastellone, La tenuta del raddoppio dei termini da Quadro RW tra violazioni del diritto europeo c.d. primario e recenti (condivisibili approdi della Corte di Cassazione), in Riv. Trim. Dir. Trib., 2018, I, pp. 207 ss.).
Le recenti statuizioni dei giudici comunitari inducono infatti a ritenere che la disciplina nazionale sul raddoppio dei termini, al pari di quella spagnola, possa essere considerata non conforme al diritto unionale nella misura in cui consente all’Amministrazione Finanziaria di utilizzare un termine di accertamento raddoppiato rispetto a quello ordinario in relazione a fattispecie in cui questa abbia a disposizione i dati o gli indizi necessari per porre in essere un accertamento (ad esempio, nel caso in cui gli asset rilevanti siano detenuti in Stati aderenti al Common reporting standard dell’OCSE) o possa attivare una specifica procedura di scambio di informazioni. In assenza di qualsivoglia indizio e/o possibilità di attivare una specifica procedura di scambio di informazioni, di contro, l’utilizzo di un termine di accertamento più ampio dovrebbe essere considerato legittimo (sul punto cfr. anche PATTI, Illegittimo il termine di accertamento sproporzionato di attività detenute all’estero, in Eutekne.info, 14 marzo 2022).
Inoltre, sulla base della costante giurisprudenza della Corte di Giustizia, la disciplina nazionale in materia di raddoppio dei termini dovrebbe considerarsi discriminatoria, in quanto comporta un’evidente disparità di trattamento fondata sul luogo di detenzione degli asset: nel nostro ordinamento, infatti, il raddoppio dei termini di accertamento e di contestazione delle violazioni degli obblighi di monitoraggio, disposto dall’art. 12, comma 2-bis e ter del D.L. n. 78/2009, opera soltanto in relazione alle attività e agli investimenti detenuti in Paesi black list e non anche in relazione agli assets localizzati nel territorio dello Stato.
Risultano pertanto confermati i dubbi sulla compatibilità comunitaria della richiamata disciplina che erano già emersi a margine delle sentenze rese dalla Corte di Giustizia in relazione alla corrispondente normativa olandese che estendeva da cinque a dodici anni il termine di decadenza per la rettifica della dichiarazione relativa alle imposte sui redditi in relazione ad elementi imponibili detenuti o generati all'estero (v. in tal senso sentenze dell’11 giugno 2009, X e Passenheim-van Schoot, cause C-155/08 e 157/08; sentenza del 15 febbraio 2017, causa C-317/15, X contro Staatssecretaris van Financiën) (sul punto si vedano tito-giusti, Il raddoppio dei termini per l’accertamento della detenzione di attività finanziarie all’estero, in Corr. Trib., 2017, 17, pp. 1376 ss.)
Infine, si evidenzia che la normativa nazionale di contrasto ai paradisi fiscali, al pari di quella spagnola oggetto della sentenza in commento, appare eccessivamente afflittiva nei confronti dei contribuenti (sul punto cfr. anche giordano-merolle, Obblighi domestici di dichiarazione di asset esteri e libertà unionale di circolazione dei capitali – Il caso spagnolo all’esame della Corte di Giustizia, in Norme e Tributi Plus de IlSole24Ore, 31 gennaio 2022).
Basti pensare, infatti, che per effetto del combinato disposto degli artt. 12, comma 2, del D.L. n. 78/2009 e 5, comma 2, del D.L. n. 167/1990, la mancata esposizione nel quadro RW degli asset detenuti in Paesi black list comporta l’irrogazione di una sanzione compresa tra il 6 ed il 30 per cento degli imponibili non indicati, oltre ad una sanzione compresa tra il 180 ed il 360 per cento della maggior imposta di cui si presume l'evasione in ragione di tale mancata esposizione; nell'ipotesi di omessa dichiarazione, la sanzione applicabile risulterebbe invece compresa tra il 240 ed il 480 per cento dell'imposta dovuta. Tali caratteristiche sono sufficienti per ritenere che le richiamate sanzioni istituiscano una restrizione sproporzionata rispetto alla libera circolazione dei capitali.