Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

18/10/2022 - Considerazioni sistematiche sulla nozione di “azienda” ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro

argomento: Imposte sui trasferimenti e altri tributi - Giurisprudenza

La Suprema Corte, escluso l’utilizzo in chiave antielusiva dell’art. 20 TUR, esamina la nozione di “azienda” ai fini della individuazione del corretto regime impositivo da applicare ad un atto di conferimento in società, nell’ambito dell’imposta di registro, e valorizza, secondo un approccio sostanziale, l’attitudine del cespite ad inserirsi funzionalmente nel complesso produttivo dell’impresa.

» visualizza: il documento () scarica file

PAROLE CHIAVE: azienda - attività di impresa - imposta di registro


di Lorenzo Pennesi

1. L’individuazione del corretto regime impositivo, ai fini del tributo di registro, applicabile alle operazioni negoziali aventi ad oggetto la cessione o il conferimento di azienda è un tema che continua a generare una importante mole di pronunce, sia di merito che di legittimità, anche in ragione dei rilevanti e noti mutamenti intervenuti sull’art. 20 del d.p.r. 26 aprile 1986 n. 131 (TUR) circa l’interpretazione degli atti da sottoporre a registrazione.

L'ordinanza, 13 luglio 2021, n. 19866 della Corte di Cassazione, inserendosi nel solco di questo intenso dibattito, propone una interpretazione in chiave sostanziale della nozione di azienda, che appare aderente alle più consolidate ed autorevoli teorizzazioni sul tema (in specie, FEDELE, Struttura dell’impresa e vicende dell’azienda nell’Iva e nell’imposta di registro, in AA.VV., La struttura dell’impresa e l’imposizione fiscale. Atti del convegno di Sanremo 22-23 marzo 1980, Padova, 1981, 168 ss.; CARINCI, Il trasferimento di azienda ai fini Iva e registro: il problema della nozione di azienda ai fini fiscali, in Riv. Dir. Trib., 1996, II, 1177 ss.), valorizzando, a fini impositivi, la funzione economica complessiva dell’istituto.

2. Invero, nella fattispecie esaminata dalla Suprema Corte, la società ricorrente è risultata beneficiaria di un conferimento d’azienda, avente ad oggetto, oltre ad un fabbricato adibito a struttura alberghiera, anche un appartamento del socio conferente, previamente non destinato allo svolgimento di attività commerciale.

Nella ricostruzione dell’Amministrazione finanziaria, sulla scorta di un presunto intento elusivo perseguito dalle parti e volto ad abbattere il carico tributario dovuto, l’atto avente ad oggetto tale ultimo cespite avrebbe dovuto scontare l’imposta di registro in misura proporzionale, in luogo di quella fissa, trattandosi di un immobile non riconducibile alla sfera dell’impresa e, quindi, estraneo al regime impositivo, evidentemente più favorevole, previsto per il conferimento d’azienda.

Le conclusioni dell’Ufficio vengono tuttavia stigmatizzate dai giudici di legittimità, i quali non condividono né il fondamento giuridico dell’atto impositivo emesso, rappresentato dall’art. 20 TUR, né le argomentazioni afferenti alla asserita estraneità dell’appartamento al complesso aziendale trasferito.

Il presente commento si pone pertanto l’obiettivo di analizzare in maniera rigorosa la pronuncia, ripercorrendo, in chiave critica, l’iter argomentativo adottato dalla Suprema Corte.

3. In questa prospettiva, e con riferimento al primo motivo oggetto di esame, i giudici di legittimità affrontano l’applicabilità al caso di specie dell’art. 20 TUR che è, notoriamente, norma dal contenuto precettivo estremamente complesso e dibattuto, attorno alla quale si sono condensati orientamenti giurisprudenziali contrastanti, ben due interventi di interpretazione autentica, disposti dagli artt. 1, comma 87, della L. 27 dicembre 2017, n. 205 e 1, comma 1084, della L. 30 dicembre 2018, n. 145, nonché, da ultimo, altrettante pronunce della Corte Costituzionale, sentenze n. 158 del 2020 e n. 39 del 2021.

Invero, l’art. 20 TUR è stato storicamente utilizzato dall’Amministrazione finanziaria, con l’avallo dei giudici di legittimità, per attribuire rilevanza allo “scopo economico unitario” perseguito dai contribuenti con il compimento di una data operazione negoziale, definendo l’obbligazione tributaria alla luce della “causa concreta” sottesa all’atto da registrare (sul tema, TABET, L’applicazione dell’art. 20 T.U. Registro come norma di interpretazione e/o antielusiva, in Rass. Trib., 2016, 913 ss.; FEDELE, La Cassazione porta alla Corte Costituzionale la questione dei collegamenti negoziali ai fini dell’imposta di registro, in Riv. Dir. Trib., 2020, II, 14 ss.).

L’intervento legislativo del 2017 e 2018, tuttavia, si è prefisso l’obiettivo di riconciliare tale norma con la natura giuridica dell’imposta di registro che, notoriamente, è una “imposta d’atto”, il cui presupposto è rappresentato dagli effetti giuridici che promanano immediatamente dall’atto e non già dal più vasto programma negoziale in cui esso va ad inserirsi.

Nelle intenzioni della novella legislativa, lo “scopo economico unitario” dell’operazione e la “causa concreta” sono divenuti – expressis verbis - profili del tutto irrilevanti ai fini della interpretazione (e, quindi, tassazione) dell’atto, atteso che essi afferiscono alla diversa area dell’abuso del diritto e soggiacciono alla specifica disciplina di cui all’art. 10-bis della L. 27 luglio 2000, n. 212 (come peraltro già evidenziato, prima del novellato art. 20 TUR, da MASTROIACOVO, Abuso del diritto o elusione nell’imposta di registro e negli altri tributi indiretti, in AA.VV., Abuso del diritto ed elusione fiscale, Torino, 2016, 243 ss.).

Il duplice intervento della Consulta ha poi consolidato, in via definitiva, questa ricostruzione, privilegiando una interpretazione dell’art. 20 TUR che risulta perfettamente aderente all’ontologia dell’imposta di registro, potendosi (e dovendosi) riqualificare l’atto sulla scorta dei soli dati direttamente ritraibili dalla lettera del negozio, al netto di qualsivoglia elemento extra-testuale o della volontà concreta manifestata dalle parti negoziali (MELIS, Art. 20 del Registro, ultimo atto: tra giudici piccati e pifferi di montagna, la Consulta scrive il lieto fine. Nota a sentenza Corte Costituzionale 21 luglio 2020, n. 158, in Dir. Prat. Trib., 2021, 252 ss.; in giurisprudenza ex multis Corte Cass., Sez. V, 01 aprile 2021, n. 9065; Corte Cass., Sez. V, 26 aprile 2022, n. 13008).

4. La sentenza in commento, facendo proprie le considerazioni sviluppate sia dalla Corte Costituzionale, che dalla giurisprudenza di legittimità più recente, esclude così, in maniera tranchant, che l’imposta di registro applicata all’atto di conferimento di azienda possa essere rideterminata in misura maggiore nei termini prospettati dall’Ufficio, ossia valorizzando la presunta volontà delle parti di conseguire un “risparmio fiscale” tramite la cessione di un immobile estraneo all’impresa unitamente ad un complesso aziendale, trattandosi di una valutazione che involge la sfera della volizione intima delle parti (i.d. l’obiettivo perseguito) e che non è pertanto indagabile mediante lo strumento offerto dall’art. 20 TUR.

In sostanza, nella prospettiva adottata dalla Suprema Corte, le argomentazioni spese dall’Amministrazione finanziaria non appaiono dotate di pregio giacché sono fondate su di una applicazione dell’art. 20 TUR in chiave prettamente antielusiva, mediante una interpretazione dell’atto che valorizza profili esterni allo schema negoziale, ossia la presunta volontà delle parti, trascurando, al contrario, gli elementi direttamente desumibili dal negozio e, in specie, la nozione di “azienda”, che appaiono invece risolutivi per determinarne l’esatto regime fiscale da applicare al caso di specie.

5. Pertanto, seguendo l’iter logico della sentenza annotata, è proprio l’esame di questo istituto, e dei suoi riflessi nella materia tributaria, a fungere da criterio solutore della res litigiosa.

Invero, preme evidenziare che l’art. 2555 c.c. si limita a definire l’azienda come «il complesso dei beni organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa», fornendo una nozione, poi mutuata dal diritto tributario, oltremodo concisa, sulla quale gli interpreti si sono lungamente interrogati al fine di metterne in risalto i tratti distintivi.

La dottrina civilistica, che per prima si è confrontata con la citata norma, ha così evidenziato come l’azienda, quale complesso eterogeneo di beni materiali ed immateriali, esista in funzione della “organizzazione” che viene impressa dall’imprenditore sulle singole res che la compongono, le quali risultano tra sé teleologicamente collegate per lo svolgimento di un obiettivo comune, rappresentato dall’attività d’impresa (si veda COLOMBO, L'azienda, in Tratt. dir. comm. Galgano, III, Padova, 1979, 26 ss.; AULETTA, Azienda (diritto commerciale), in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988).

Il carattere distintivo della nozione di azienda è quindi costituito dalla reductio ad unum delle varie componenti dell’azienda in un unico complesso funzionalmente organizzato, al punto da poter divenire «un’unica fattispecie dal punto di vista negoziale», rilevante tanto ai fini civilistici quanto fiscali (in questi termini, COTTINO, L’azienda e la sua circolazione, in Trattato di diritto commerciale, Padova, 2001, 607 ss.).

Le teorizzazioni sviluppate dalla dottrina civilistica in ordine alla natura unitaria dell’azienda hanno quindi esercitato una influenza diretta sul regime fiscale ad essa applicabile, permettendo di individuare non solo la base imponibile ma anche il perimetro dei beni riconducibili all’istituto, rilevante ai fini della sentenza qui annotata.

Invero, l’azienda, pur essendo composta da una pluralità di beni, rappresenta, una singola ed autonoma vicenda negoziale a fini impositivi, in quanto il complesso di beni e diritti che vengono ceduti o conferiti soggiacciono ad un unico prelievo tributario, la cui intensità è parametrata al valore globale manifestato dal complesso aziendale (si pensi, ad esempio, al disposto dell’art. 51 TUR, comma 4, nell’ambito dell’imposta di registro).

In sostanza, ai fini della individuazione dell’esatta nozione di “azienda”, e dei confini di questo istituto, rileva la funzionalizzazione dei beni allo scopo di impresa, che ne attua la coesione sul piano giuridico e fiscale, annullando l’eterogeneità delle singole res, così da attrarle verso il medesimo regime impositivo (si vedano LA ROSA, Cessione d’azienda e cessione di beni, tra imposta di registro ed IVA, in Rass. Trib., 1990, 307 ss.; SALVATI, Sfumature definitorie della nozione di azienda nel contesto del negozio di cessione, in Riv. Dir. Trib. Online, 2020).

Il collegamento teleologico tra i beni dell’azienda e lo scopo d’impresa, nei termini sin qui prospettati, è stato confermato anche in numerosi documenti di prassi dell’Amministrazione finanziaria, ove si legge che l’azienda è individuabile sulla scorta del collegamento impresso sui beni dall’imprenditore, i quali devono essere potenzialmente idonei «a realizzare un'attività d'impresa, anche se il complesso aziendale sia momentaneamente inutilizzato» (così Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 99/E del 03 luglio 2001; Risposta ad interpello dell’Agenzia delle Entrate n. 33/E del 10 aprile 2012).

Da ultimo, anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia, in tema di tributi armonizzati, ha avallato questa ricostruzione, avendo chiarito come la cessione di azienda rappresenti un trasferimento d’impresa, o di parte di essa, che deve essere apprezzata alla luce della idoneità del complesso aziendale e dei singoli beni che ne fanno parte, su di un piano sostanziale e non meramente formale, allo svolgimento di una medesima attività economica (in questi termini Corte di Giustizia CE, sentenza 27 febbraio 2003, causa C-373/00 e Corte di Giustizia UE, sentenza 10 novembre 2011, causa C-444/10; si veda anche FRANSONI, Osservazioni sulla nozione di azienda nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, in Riv. Dir. Trib. Online, 2017).

6. Sulla scorta di queste considerazioni, la sentenza qui in commento rileva che la nozione di azienda è da reputarsi cruciale per stabilire la legittimità del recupero fiscale attuato dall’Ufficio, non essendo ammissibile che un dato cespite - sic et simpliciter – sia escluso dal perimetro dell’azienda (e, quindi, dal prelievo in misura fissa) solo perché questo non è stato previamente inserito all’interno di un complesso aziendale, ovvero non risulta attualmente impiegato a fini produttivi.

Invero, le argomentazioni spese dalla Suprema Corte si fondano su di un rigoroso sillogismo logico: (a) se l’azienda è una unità funzionale di beni destinati ad uno specifico fine d’impresa e (b) se l’imprenditore imprime su tali beni il collegamento necessario per renderli coesi e unitari in ragione di una finalità produttiva, (c) allora rientrano nell’azienda tutte le res che siano oggettivamente idonee ad essere utilizzate dall’imprenditore in funzione di tale scopo.

Pertanto, rileva la Suprema Corte, nell’ambito dell’imposta di registro, è possibile ricondurre un dato cespite all’azienda se questo è, almeno in potenza, idoneo ad essere stabilmente inserito nel complesso produttivo dell’impresa con atto dell’imprenditore, così da divenire parte integrante dell’organizzazione produttiva, essendo invece del tutto irrilevante la sua condizione, attuale o passata, di estraneità all’attività economica (in maniera analoga, anche TUNDO, Profili tributari della cessione di azienda, in Dir. Prat. Trib., 1996, I, 940 ss.; si veda anche FICARI, Azienda e avviamento tra accertamento, “prezzi” e “autonomia” del contribuente, in Riv. Dir. Trib., 2012, 209 per il quale il collegamento di una res all’azienda «potrà senza dubbio essere attivato e sviluppato dal cessionario»).

Gli insegnamenti della dottrina e della giurisprudenza in tema di azienda, nonché i documenti di prassi dell’Amministrazione finanziaria, non contemplano infatti il contingente utilizzo di una data res in funzione produttiva e/o commerciale quale presupposto essenziale per la riconducibilità del cespite all’azienda, essendo al contrario essenziale indagare in ordine alla sua oggettiva ed astratta idoneità ad inserirsi, pro futuro, in un compendio aziendale (lo afferma chiaramente TASSANI, Cessione onerosa di beni e contratti d’impresa nell’imposizione indiretta, in Rass. Trib., 2009, 1673 ss.).

Appaiono quindi condivisibili, poiché coerenti con le più moderne teorizzazioni sul tema, le parole della Suprema Corte, per la quale, affinché un bene possa essere ricondotto nel perimetro di un complesso aziendale e, quindi, essere assoggettato al più vantaggioso regime impositivo ai fini del registro, rileva non già l’uso del bene al momento del confezionamento dell’atto da registrare ma la sua idoneità, apprezzabile in chiave sostanziale, ad essere utilizzato dall’imprenditore cessionario, a fini produttivi, nell’ambito dell’attività d’impresa.

7. Sulla scorta di queste considerazioni, nel caso di specie, appare evidente che il cespite immobiliare conferito in favore di una società di ricezione turistica, congiuntamente ad un albergo, palesi, in re ipsa, una intrinseca capacità ad inserirsi funzionalmente nel complesso aziendale dell’impresa, ben potendo tale immobile essere utilizzato per il futuro soggiorno degli ospiti della struttura, così da potenziarne la capacità ricettiva.

In questa prospettiva, diviene del tutto irrilevante il precedente utilizzo del cespite immobiliare quale ordinaria abitazione privata.

Difatti l’imprenditore conferitario (società alberghiera) possiede la capacità di organizzare funzionalmente l’immobile conferito allo svolgimento di una attività economica e ciò, per l’effetto, ne garantisce l’accesso al perimetro aziendale, influendo sul regime impositivo del relativo atto, il quale non potrà scontare l’imposta di registro in misura proporzionale, ma quella fissa, prevista per i conferimenti di aziende.

8. La pronuncia annotata si connota, in definitiva, per un iter argomentativo che appare condivisibile e razionale poiché coordina in maniera rigorosa l’interpretazione attuale (ma consolidata) dell’art. 20 TUR, evitando che possa essere sfruttato in chiave antielusiva per indagare l’intima volontà delle parti in relazione all’operazione negoziale posta in essere, con la moderna nozione di azienda, di cui viene valorizzato, ai fini della individuazione del corretto regime impositivo, il collegamento potenziale del cespite immobiliare al compendio aziendale dell’impresa conferitaria.

La Suprema Corte sembra quindi confermare un approccio sostanziale al fenomeno della “circolazione” dell’azienda nell’ambito dell’imposta di registro che, già manifestato da oltre un decennio (si vedano, ad esempio, le considerazioni svolte da Corte Cass., Sez. V, 16 aprile 2010, n. 9163 con commento di BUSANI, Imposta di registro e “spezzatino d’azienda”, in GT – Rivista di Giurisprudenza Tributaria, 2010, 591 ss.), perviene ora ad una più completa maturazione, mettendo in debito risalto l’attitudine della singola res ad inserirsi nel coacervo di fattori produttivi utilizzati dall’imprenditore, con un apprezzamento che, dall’ambito fenomenico ed extra-fiscale, diviene cruciale anche a fini impositivi.