argomento: IVA - Giurisprudenza
La sentenza della Corte di Giustizia, pur senza argomentare diffusamente sul punto, sviluppa il principio di buona amministrazione come corollario procedimentale di quello di neutralità. Nei procedimenti di rimborso Iva, imparzialità e accuratezza istruttoria, garantiscono, in definitiva che l’operatore rimanga indenne dal peso economico del tributo, bilanciando diritti e doveri del contribuente.
» visualizza: il documento (CGUE, 21 ottobre 2022, C-396/20 )PAROLE CHIAVE: rimborso Iva - neutralità - buona amministrazione - diritti del contribuente - buona fede
di Silvia Giorgi
L’occasione è offerta dal caso CHEP Equipment Pooling in cui una società belga, esercente attività di logistica e specializzata nella commercializzazione di pallet, aveva acquistato detti beni in Ungheria per poi noleggiarli alle proprie controllate. Conformemente al diritto europeo ed ungherese, la società CHEP aveva, quindi, presentato istanza di rimborso, corredandola di tutta la documentazione rilevante. Tuttavia, l’autorità ungherese, riscontrando alcune discrasie tra l’importo richiesto e quello risultante dalle fatture allegate, aveva richiesto informazioni aggiuntive, secondo la procedura di cui alla Direttiva n. 9/2008, recepita dal diritto ungherese. La contribuente aveva integrato la documentazione depositata, fornendo, sostanzialmente, all’Amministrazione Finanziaria tutti gli elementi utili ai fini dell’erogazione del rimborso, pur con qualche imprecisione nell’istanza originariamente presentata. Ciononostante, l’istanza veniva accolta solo parzialmente e, per quanto qui di interesse, là dove l’importo richiesto fosse inferiore a quello risultante dalle fatture prodotte, il rimborso era stato limitato fino a concorrenza dell’importo menzionato nella richiesta di rimborso. È, tuttavia, rilevante sottolineare che nel caso opposto – ossia nei casi in cui l’importo richiesto fosse maggiore di quello indicato nelle fatture a corredo – l’Amministrazione aveva disposto il rimborso basandosi sulle fatture prodotte.
Ne nasceva un contenzioso in cui, sinteticamente, la posizione dell’Amministrazione finanziaria era quella di qualificare qualsiasi integrazione o modifica all’istanza di rimborso originaria come “nuova domanda” presentata, dunque, fuori dal termine legislativamente previsto. Per contro, la società riteneva che detta impostazione si ponesse in contrasto con il principio di neutralità dell’Iva.
Il giudice del rinvio investiva, quindi, la Corte sui perimetri del potere dell’Amministrazione di richiedere informazioni aggiuntive, nel caso di discrepanza tra importo richiesto a rimborso e fatture a corredo e sulla possibilità di qualificare una integrazione siffatta quale nuova domanda ovvero rettifica, con le relative conseguenze sotto il profilo dei termini preclusivi. Il quesito si traduceva, quindi, nell’interrogativo circa l’interpretazione del diritto europeo e della compatibilità con esso della decisione con cui l’Amministrazione di uno Stato membro nel quale è stata presentata richiesta di rimborso da parte di un soggetto passivo stabilito in altro Stato membro ritenga di disporre o meno di elementi sufficienti per statuire sull’istanza, senza invitare il richiedente a fornire informazioni aggiuntive.
L’iter argomentativo del Giudice Europeo, pur non spingendosi a qualificare la condotta ungherese come abusiva, conclude che l’autorità ungherese non abbia impersonato i canoni della buona amministrazione, attraverso tre passaggi fondamentali. Dapprima, infatti, muove dalla motivazione meramente formalistica del diniego opposto dall’Amministrazione ungherese che si riteneva vincolata all’importo indicato nell’istanza (pur essendo palese la spettanza di un importo superiore e pur essendosi basata sull’importo indicato in fattura quando minore di quello richiesto a rimborso); poi, si allaccia alla prevalenza degli elementi sostanziali rispetto a quelli formali ai fini del riconoscimento tanto della detrazione quanto del rimborso; da ultimo salda principio di neutralità e diritto ad una buona amministrazione, costruendo il secondo come il corollario procedimentale della prima.
La Corte si “prepara il terreno” ricordando che sì è il soggetto passivo ad essere nella posizione istruttoria più congeniale a fondare i presupposti per il rimborso e, in particolare, ad indicare correttamente in fattura l’importo dell’IVA e l’aliquota applicabile; che, tuttavia, non è espressamente disciplinata la rettifica della richiesta di rimborso e che, in ogni caso, deve trovare applicazione il principio di buona amministrazione, applicabile anche ai procedimenti tributari, che si sostanzia nella necessità che l’amministrazione proceda ad un esame diligente ed imparziale di tutti gli aspetti pertinenti in modo da assicurarsi di disporre, al momento dell’adozione della sua decisione, degli elementi il più possibile completi ed affidabili a tal fine. Il diritto ad una buona amministrazione include, in sostanza, quello di imparzialità e di accuratezza istruttoria, che potremmo tradurre, in più ampia prospettiva, secondo i canoni nazionali del buon andamento, dell’efficacia e dell’efficienza dell’azione amministrativa.
Il punto, dunque, era che l’Amministrazione ungherese era perfettamente in grado di identificare l’importo corretto ai fini del rimborso tanto che, ad una prima richiesta di informazioni aggiuntive, non ne aveva fatte seguire altre (come pure avrebbe potuto sulla base dell’art. 20 par. 1 della Direttiva 2008/9) ritenendosi sufficientemente edotta. Nonostante le lacune contenute nell’istanza originaria del contribuente, pertanto, l’Amministrazione aveva ritenuto, a seguito dell’integrazione, di essere nella disponibilità di tutti gli elementi utili ai fini della decisione, pur essendosi accorta della discrepanza tra quanto richiesto e quanto risultante nelle fatture. Il principio di buona amministrazione avrebbe imposto – a fronte della certezza circa la correttezza dell’importo da rifondere – di invitare il contribuente a correggere la propria istanza, al fine di darne un seguito favorevole. Tale negligenza procedimentale, oltre ad essere espressiva di cattiva amministrazione, ha arrecato un pregiudizio sproporzionato al principio di neutralità, lasciando a carico dell’operatore l’IVA non rimborsata.
Nei procedimenti tributari, infatti, a quanto, consta, il diritto ad una buona amministrazione è stato richiamato maggiormente dalla giurisprudenza europea a tutela del contribuente a fronte di interessi oppostivi (per tutte le declinazioni, anche alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia, si veda l’opera collettanea già citata, AA.VV. Il diritto ad una buona amministrazione nei procedimenti tributari, a cura di Pierro, Milano, 2019; a livello europeo menziona, di fatto, il solo diritto al contraddittorio e il diritto di accesso, nello specifico contesto della Direttiva sulla risoluzione delle controversi fiscali, KOKOTT, European Union Taxpayers’ Rights, in European Taxation, 2020, Volume 60, No. 1) ovvero per valorizzare i doveri di informazione e trasparenza dell’amministrazione finanziaria (PIERRO, Il dovere di informazione dell’Amministrazione Finanziaria, Torino, 2013, p. 114), fino alla controversa problematica dell’accesso agli atti tributari. L’innovatività, nel caso di specie, si appunta, tra l’altro nel valorizzare la completezza e l’accuratezza dell’istruttoria, a fronte di interessi pretensivi del contribuente, per tutelarne il pieno soddisfacimento anche attraverso l’efficienza dell’Amministrazione nel valutare gli elementi a disposizione e, se del caso, richiederne di ulteriori. Il diritto ad un trattamento imparziale ed equo – che l’art. 41 proclama in modo generalizzato rivolgendosi a istituzioni, organi ed organismi dell’Unione – implica, infatti, per giurisprudenza consolidata e risalente, che siano presi in considerazione tutti gli elementi di fatto e di diritto disponibili al momento dell’adozione dell’atto, al fine di predisporre la decisione “con tutta la diligenza richiesta e di adottarla prendendo a fondamento tutti i dati idonei ad incidere sul risultato” (cfr. Tribunale UE, sentenza 19 marzo 1997, T- 73/95, Oliveira c. Commissione, punto 32).
L’esaustività dell’istruttoria è, quindi, strumentale all’imparzialità delle decisioni e all’equità delle medesime, sia sotto il profilo sostanziale, sia sotto quello procedurale che implica inevitabilmente il rispetto delle garanzie di cui al comma 2° del medesimo art. 41 da parte dell’Autorità procedente (contraddittorio, difesa, motivazione accesso ai documenti…). Ed esige, nell’intendimento della Corte, anche che l’Amministrazione si faccia carico di una sorta di “extra” istruttoria, sollecitando il contraddittorio con il contribuente secondo le modalità di cui alla Direttiva n. 9/2008, affinché fornisca eventuali integrazioni o precisazioni, rispetto alle istanze e ai documenti prodotti nella propria istanza di rimborso.
Il punto critico, semmai, è comprendere quando l’Amministrazione debba diligentemente approfondire la propria attività conoscitiva sollecitando la partecipazione del contribuente e quando, invece, detto obbligo non sussista, a fronte del generale dovere del soggetto passivo, in ragione al principio di prossimità della prova (“il soggetto passivo è nella posizione migliore per conoscere in concreto il contenuto delle operazioni”, testualmente nella sentenza), di predisporre domande di rimborso in cui si evinca la propria ottemperanza alla disciplina dell’Iva, con particolare riferimento agli elementi riportati in fattura essenziali ad identificare l’operazione. Il dovere di diligenza è, quindi, bilanciato tra le parti: il contribuente deve, infatti, ottemperare agli obblighi derivanti dal sistema dell’Iva e soggiacere ai relativi termini, purché fissati secondo i noti parametri dell’equivalenza e dell’effettività (Corte di Giustizia, 21 marzo 2018, C- 533-16). Eventuali errori non possono, dunque, essere lamentati in caso di negligenza o tardività imputabile al contribuente medesimo, salvo il criterio di confine dell’errore “di manifesta evidenza”, che fa scattare lo speculare dovere di diligenza gravante sull’Amministrazione, responsabilizzandola e chiamandola ad un risultato utile (sull’Amministrazione di risultato in materia tributaria, DEL FEDERICO, L’evoluzione del procedimento nell’azione impositiva: verso l’amministrazione di risultato, in Riv. trim. dir. pub., 2013, 4, p. 851), sollecitando, se necessario, il contraddittorio con il contribuente. Il dovere ad una buona amministrazione è, dunque, al contempo baluardo efficientistico e garantistico, ergendosi anche a corollario del generale principio di buona fede e collaborazione Fisco- contribuente. Per quanto non esplicitato dalla Corte è chiaro che il criterio dell’errore manifesto, evincibile ictu oculi, segna il confine della buona fede dell’Amministrazione finanziaria: l’autorità ungherese, infatti, si era avveduta della discrepanza tra l’importo richiesto e il maggior ammontare indicato in fattura, e, dunque, “sapeva” (così letteralmente in sentenza) che l’importo spettante era proprio quest’ultimo. Come anticipato, il Giudice europeo mira a “sanzionare” un caso non solo di cattiva amministrazione ma di conclamata mala fede.
Invero, ad una più attenta riflessione, il secondo si atteggia a corollario procedimentale del primo.
Nel sistema dell’Iva, infatti, pur nella polivalenza del principio e nelle sue diverse declinazioni (DE LA FERIA, The Eu Vat System and the Internal Market, Amsterdam, 2009, p. 263), la neutralità si sintetizza giuridicamente nel divieto di discriminazione tra soggetti e attività, nonché tra diverse tipologie di beni o servizi scambiati, al fine di rimuovere gli ostacoli di ordine economico, che altererebbero la concorrenza. Di tal che la limitazione, l’annullamento o l’applicazione discriminatoria del diritto di detrazione o di quello di rimborso, possono implicare una lesione del principio di neutralità e, con essa, la parità di trattamento tra operatori economici in concorrenza tra loro sul mercato (MONTANARI, Le operazioni esenti nel sistema dell’Iva, Torino, 2013, p. 67 anche per gli ampi riferimenti bibliografici).
Sul versante procedimentale, come visto, il principio di buona amministrazione garantisce, fra l’altro, imparzialità ed equità delle decisioni amministrative e, nel sistema dell’Iva – secondo quanto solo confusamente adombrato dalla pronuncia in commento – la non discriminazione giuridica ed economica tra gli operatori, garantendo che non rimangano gravati dell’Iva di cui abbiano, invece, diritto ad ottenere il rimborso.
Neutralità e buona amministrazione si saldano così, concorrendo a garantire la parità di trattamento tra gli operatori, rispettivamente, sul versante sostanziale e procedimentale, entrambi declinati in chiave anti-formalistica. Non a caso, il diniego opposto dal Fisco ungherese si era arroccato sull’elemento formalistico della tardività dell’integrazione rispetto ai termini preclusivi (rispettati, tuttavia, al momento di presentazione della domanda iniziale) e sull’impossibilità di erogare quanto indicato in fattura, in quanto non conforme a quanto indicato nell’istanza di rimborso. Argomenti chiaramente di stampo formalistico agilmente smontati dalla Corte, incline solitamente a svalutare elementi e adempimenti meramente formali, a fronte della conclamata sussistenza del diritto di detrazione (Corte di giustizia, sentenza 8 novembre 2018, causa C-495/17), con considerazioni applicabili anche al diritto al rimborso. In questi termini, il diritto ad una buona amministrazione si avvantaggia di quell’impronta antiformalistica – qui tratteggiata anche come schermo rispetto alla mala fede del Fisco ungherese – tipica della giurisprudenza della Corte a presidio dell’effettività di detrazione e rimborso per preservare la neutralità del sistema impositivo (BASILAVECCHIA, La neutralità dell’Iva tra effettività e cautele, in Rass. trib., 2016, p. 905).
Il messaggio del Giudice Europeo – laddove lo si voglia enfatizzare come una sorta di orientamento che trascende il caso in commento – offre innumerevoli spunti sia rispetto all’avvento della digitalizzazione dei procedimenti amministrativi e tributari anche a livello europeo, sia rispetto al tema della tax compliance e della proliferazione della produzione legislativa europea in tale direzione. È chiaro che non si possa trarre alcun monito dal caso annotato, ma certamente induce a sviluppare talune riflessioni di più ampio respiro.
Con riferimento alla digitalizzazione dell’Amministrazione finanziarie e dei relativi procedimenti, si pone il tema del diritto ad una buona amministrazione digitale, all’imparzialità e all’equità delle decisioni anche rispetto all’utilizzo di algoritmi e strumenti di intelligenza artificiale nei procedimenti tributari (cfr. in generale AA.VV. Il diritto dell’Amministrazione pubblica digitale, a cura di CAVALLO PERIN - GALETTA, Torino 2020 e AA.VV. (a cura di DORIGO, Il ragionamento giuridico nell’era dell’intelligenza artificiale, Pisa, 2020). Senza poter trattare esaustivamente temi di così ampia portata e limitandosi a valorizzare quanto emerso dalla pronuncia, la Corte pone le fondamenta per la costruzione di un procedimento tributario digitale con contrappesi tra diritti e doveri, responsabilizzando l’Amministrazione allorché, ad esempio, dalla mera applicazione di procedure digitali emergano esiti manifestamenti errati o iniqui o l’esigenza di integrare tali esiti con un momento partecipativo del contribuente o un supplemento istruttorio (in generale, sulle criticità sollevate dall’applicazione dei sistemi di intelligenza artificiale nei procedimenti tributari, SERRANO ANTÓN, Artificial Intelligence and Tax Administration: Strategy, Applications and Implications, with Special Reference to the Tax Inspection Procedure, in World Tax Journal, 2021, Volume 13, No. 4).
Rispetto, invece, allo sviluppo della tax compliance, in un contesto di sempre maggior responsabilizzazione del contribuente e accresciuta mole degli adempimenti collaborativi (basti, ad esempio, rammentare le obbligazioni reportistiche di cui alla c.d. DAC 6), si delinea un meccanismo di contrappesi a cristallizzare la soglia di diligenza esigibile dal contribuente, chiamando, anche l’Amministrazione finanziaria ad uno speculare dovere di diligenza, efficienza e collaborazione. Per quanto, infatti, l’evoluzione della tax compliance abbia sovvertito il ruolo del contribuente – da controllato a parte attiva e diligente – le basi di una collaborazione efficace non possono che poggiare sul bilanciamento di diritti e responsabilità, secondo quanto profilato dalla Corte nel caso in commento.