argomento: Profili europei e Internazionali - Giurisprudenza
La sentenza, che affronta il caso della compatibilità europea di alcune misure concesse ai lavoratori a favore delle loro famiglie dalla Repubblica d’Austria in funzione della residenza dei figli, offre l’occasione per riflettere sul requisito della residenza del soggetto istante che è previsto dall’innovativo meccanismo dell’Assegno Unico Universale (AUU) operativo dal 1° marzo del 2022 e che, al momento, è oggetto di riflessione da parte dell’ente erogatore, l’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale (INPS)
» visualizza: il documento (Corte di Giustizia UE, sent. 16 giugno 2022, causa C-328/20)PAROLE CHIAVE: tassazione della famiglia - residenza fiscale - diritto tributario dellUnione Europea
di Annalisa Pace
1. La Corte di Giustizia con la sentenza in commento ha esaminato la compatibilità europea di talune misure istituite dall’Austria in favore delle famiglie. Con decorrenza 1° gennaio 2019 la Repubblica austriaca ha introdotto un meccanismo di adeguamento del calcolo degli assegni familiari e di altri vantaggi fiscali che vengono concessi ai lavoratori i cui figli risiedono all’estero in modo permanente.
I vantaggi fiscali in questione sono: il credito d’imposta per figli a carico, il bonus famiglia Plus, il credito d’imposta per famiglie monoreddito, il credito d’imposta per nucleo familiare monoparentale e il credito d’imposta per gli assegni alimentari. Con il meccanismo introdotto le citate misure vengono adeguate in funzione del luogo di residenza del figlio e l’adeguamento può essere sia al rialzo che al ribasso a seconda del livello generale dei prezzi nello Stato membro interessato. La Commissione, fin dalla istituzione del meccanismo di adeguamento, ha sollevato talune perplessità chiedendo all’Austria chiarimenti che, sebbene intervenuti prontamente, non l’hanno soddisfatta inducendola a rivolgersi al giudice europeo. In particolare, la Commissione ha ritenuto che l’Austria fosse venuta meno, tra l’altro, agli obblighi su di essa incombenti in forza del principio della parità di trattamento di cui all’art. 4 del Regolamento n. 883/2004 (relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale), e all’art. 7, par. 2, del Regolamento n. 492/2011 (relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione) sull’abolizione delle clausole di residenza. La stessa ha osservato che il meccanismo di adeguamento riguarda essenzialmente i lavoratori migranti (solitamente di nazionalità non austriaca) i cui figli risiedono in paesi esteri, con espressa esclusione dei figli dei funzionari austriaci distaccati all’estero. Inoltre, la Commissione ha segnalato che le prestazioni in questione non sono calcolate in funzione dell’effettivo livello dei prezzi del luogo di residenza del figlio e che il loro importo (che nella sostanza è un forfait) rimane, invece, lo stesso su tutto il territorio austriaco a dispetto della rilevante disparità in termini di potere d’acquisto tra le varie regioni, disparità che avrebbe giustificato l’introduzione di un’analoga misura.
In definitiva, ciò che viene sottolineato è che proprio quelle ragioni che avrebbero indotto l’Austria ad adottare lo strumento dell’adeguamento (in particolare la differenza di potere d’acquisto della moneta nei vari Stati di residenza dei figli dei lavoratori) non sembrano rilevanti all’interno dello stesso territorio austriaco, determinando, così, un’ingiustificata diversità di trattamento tra i lavoratori i cui figli risiedono nello stesso Stato membro ed i lavoratori migranti (quasi sempre di nazionalità non austriaca) i cui figli risiedono all’estero.
2. Nella sentenza in esame la Corte, richiamando la sua stessa giurisprudenza (C-802/18; C - 85/96 ), conferma, innanzitutto, che le misure in esame sono prestazioni familiari (assegni familiari e credito d’imposta per figli a carico) e vantaggi sociali (oltre alla due già richiamate, il bonus famiglia PLUS, il credito d’imposta per famiglie monoreddito, il credito d’imposta per nucleo familiare monoparentale e il credito d’imposta per gli assegni alimentari) che per l’effetto devono soddisfare il principio della parità di trattamento enunciato all’art. 45 TFUE. La stessa rammenta altresì la propria costante giurisprudenza che parifica le forme di discriminazione indiretta, fondate sulla residenza, alle forme di discriminazione diretta, fondate sulla nazionalità: le distinzioni in base alle residenza sono idonee ad operare maggiormente a sfavore dei cittadini di altri Stati membri “in quanto i residenti sono più frequentemente cittadini non nazionali” e ciò “costituisce una discriminazione indiretta fondata sulla cittadinanza, ammissibile soltanto a condizione di essere oggettivamente giustificata” (C-328/20, punto 99); ebbene, i giudici europei non possono non osservare che il meccanismo di adeguamento in contestazione opera in relazione al potere di acquisto del paese di residenza dei figli che, per definizione, è sempre diverso dall’Austria, sicché “il legame diretto con lo Stato di residenza dei figli non può essere contestato” (C-328/20, punto 100).
3. La difesa dell’Austria, basata essenzialmente sull’argomento che il “meccanismo di adeguamento garantirebbe che situazioni diverse siano trattate in modo diverso, a causa dalle differenze nel livello dei prezzi con gli Stati interessati”, è messa in crisi dall’osservazione che sia le prestazioni familiari che i vantaggi sociali in contestazione “non sono stabiliti in funzione dei costi reali sostenuti per il mantenimento dei figli” considerato che sono quantificati con un meccanismo forfetario che tiene conto del numero e dell’età dei figli, ma non delle loro reali esigenze.
Né miglior sorte ha avuto l’altra giustificazione addotta dallo Stato austriaco secondo cui il citato adeguamento avrebbe dovuto garantire una funzione di sostegno e di equità del sistema sociale evitando di mettere a rischio l’equilibrio finanziario del sistema medesimo. Un simile rischio, osservano i giudici europei, è contraddetto dalle cifre: viene segnalato, infatti, che i versamenti ai lavoratori i cui figli risiedono all’estero costituisce una percentuale risibile: appena il 6% delle spese per prestazioni familiari.
Le conclusioni della Corte sono state, pertanto, di pieno accoglimento della censura sollevata dalla Commissione e di condanna della Repubblica d’Austria per aver violato i principi europei ed essersi sottratta, così, agli obblighi su di essa gravanti in forza della normativa dell’Unione.
4. Ebbene, proprio prendendo spunto dalla sentenza appena esaminata, e pur tenendo conto delle inevitabili differenze, può essere interessante avviare una breve riflessione sulla compatibilità europea del nuovo regime dell’assegno unico universale (AUU) che, come noto, è stato introdotto a decorrere dal 1° marzo 2022 con il decreto Legislativo 29 dicembre 2021, n. 230 (di recente modificato con il D.L. 21 giugno 2022, n. 73); si tratta di un innovativo meccanismo che ha sostituito le misure di sostegno (assegni familiari, detrazioni per carichi di famiglia, bonus bebè, ecc.) con le quali, in precedenza, venivano aiutate economicamente le famiglie con figli a carico, e di cui si può beneficiare per ogni figlio a carico fino al compimento del ventunesimo anno di età (al ricorrere di certe condizioni) e senza limiti di età per i figli disabili.
La prima questione che va affrontata è se esso rientri o meno nell’ambito di applicazione del Regolamento n. 883/2004. Il citato regolamento ha ad oggetto il coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale e trova applicazione, ratione materiae (cfr. art. 3), alle prestazioni familiari che, così come dallo stesso definite, sono: “tutte le prestazioni in natura o in denaro destinate a compensare i carichi familiari”(art. 1, lett. z). Alla luce di ciò e tenuto conto della giurisprudenza della Corte di Giustizia ( C-802/18; C-85/96) non sembra che possa essere messa in discussione l’applicabilità del regolamento in questione all’assegno unico universale (AUU). Sulla compatibilità europea della innovativa misura italiana, in verità, l’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale (INPS), che è l’organo deputato alla sua erogazione, ha già avviato una riflessione: nella circolare n. 23 del 9 febbraio 2022 l’INPS segnala che la questione è oggetto di uno specifico approfondimento (punto n. 3.3). Essa, come emerge dal passo della circolare appena citato, nasce dalla circostanza che la norma istitutiva della misura tra i requisiti soggettivi chiede la residenza e il domicilio del soggetto istante al momento della domanda e per tutta la durata della prestazione, per cui l’INPS ritiene che la “valutazione in merito alla eventuale applicabilità alla nuova misura di accordi bilaterali e multilaterali stipulati dall’Italia in tema di sicurezza sociale, nonché delle regole dettate dal regolamento (CE) n. 883/2004” debbano essere oggetto di un approfondimento specifico, concludendo che, per il momento, la disciplina del nuovo assegno unico e universale trovi “applicazione limitatamente ai richiedenti residenti in Italia per i figli che fanno parte del nucleo ISEE” (sulla richiesta del requisito della residenza si è espresso assai criticamente, quando il decreto legislativo era ancora bozza, E. TRAVERSA, L’assegno unico per i figli discrimina i cittadini UE con il requisito di residenza, in il Sole 24Ore 8 dicembre 2021, p. 32).
5. Il citato regolamento europeo, nell’ottica di garantire la libertà di circolazione all’interno dell’Unione, ha la finalità di coordinare i sistemi sociali dei vari Stati membri in modo da garantire alle persone che si spostano all’interno dell’Unione, nonché ai loro aventi diritto e ai superstiti, il mantenimento dei diritti e dei vantaggi acquisiti o in corso d’acquisizione. A tal fine l’art. 7 (rubricato Abolizione delle clausole di residenza) sancisce, che: “le prestazioni in denaro dovute a titolo della legislazione di uno o più Stati membri o del presente regolamento non sono soggette ad alcuna riduzione, modifica, sospensione, soppressione o confisca per il fatto che il beneficiario o i familiari risiedono in uno Stato membro diverso da quello in cui si trova l'istituzione debitrice”.
Tutto ciò premesso, la questione che appare centrale è proprio quella del requisito della residenza in Italia prevista per soggetto richiedente. In definitiva, ci si deve interrogare se il criterio richiesto sia idoneo o meno a determinare una discriminazione indiretta fondata sulla cittadinanza considerato che “essa [ndr la residenza] è idonea ad operare maggiormente a sfavore dei cittadini di altri Stati membri in quanto i non residenti sono più frequentemente cittadini non nazionali”. Come noto, la giurisprudenza della Corte ritiene che le distinzioni in base alla residenza sono ammissibili solo a condizione che siano oggettivamente giustificate.
6. Ad ogni modo è innegabile che la previsione costituisca un deciso passo indietro rispetto alla norma per “i residenti Schumacker” che solo qualche anno fa era stata inserita nell’art. 24 del T.U. II.DD. Il legislatore italiano, dopo una serie di interventi estemporanei, con la previsione contenuta nel comma 3-bis dell’articolo citato aveva messo a sistema la regola codificata dalla Corte di Giustizia nella c.d. dottrina Schumacker estendendo anche ai non residenti le deduzioni e le detrazioni d’imposta valide per i residenti in Italia, a condizione che avessero prodotto almeno il 75% cento del proprio reddito totale nello Stato italiano e che non godessero di analoghe misure nello Stato di provenienza. La previsione recepiva correttamente l’orientamento della Corte di Giustizia e poneva il sistema al riparo dai contrasti con quella libertà di circolazione che il giudice europeo aveva utilizzato per garantire la parità di trattamento tra i lavoratori nazionali e i lavoratori non nazionali dei vari Stati membri (sul punto si consenta di rinviare al mio La famiglia transnazionale: profili fiscali, Milano, 2021).
D’altro canto, benché il D. Leg.vo n. 230/2021 esiga che il soggetto richiedente sia residente in Italia, non chiude le porte ad una famiglia che operi oltre i confini nazionali. Esso, infatti, rinvia alla nozione di nucleo familiare così come definita dalla normativa ISEE la quale consente di prendere in considerazione anche soggetti che siano al di fuori dei confini nazionali. L’art. 3 (rubricato Nucleo familiare) del DPCM 5 dicembre 2013, n. 159, che è il regolamento concernente la revisione delle modalità di determinazione e i campi di applicazione dell'ISEE, laddove precisa che anche nel caso in cui i coniugi abbiano diversa residenza anagrafica essi fanno parte dello stesso nucleo familiare, precisa che “Il coniuge iscritto nelle anagrafi dei cittadini italiani residenti all’estero (AIRE) […] è attratto ai fini del presente decreto nel nucleo anagrafico dell’altro coniuge”. Inoltre, mentre il figlio minore di 18 anni fa parte del nucleo familiare con il quale convive, per il maggiorenne la convivenza non è richiesta. In definitiva, a un residente nel territorio italiano che corrisponde le imposte nel territorio italiano anche se ha i familiari (il coniuge e i figli) residenti in un altro Stato membro non può essere negato il beneficio in questione.
Diversa, invece, appare la conclusione per la maggiorazione che la normativa riserva al caso in cui entrambi i coniugi siano titolari di reddito (art. 4, co. 8, D. lgv.n. 230/2021). La disposizione prevede, nel caso in cui entrambi i genitori siano titolari di reddito da lavoro, una maggiorazione fino a 30 euro mensili per ciascun figlio minore. Tale importo spetta in misura piena per un ISEE pari o inferiore a 15.000 euro. Per livelli di ISEE superiori si riduce gradualmente (secondo un ben noto sistema che garantisce la corretta applicazione del principio costituzionale di progressività) fino ad annullarsi in corrispondenza di un ISEE pari a 40.000 euro. Per livelli di ISEE superiori a 40.000 euro la maggiorazione non spetta.
Ebbene, nel caso in cui uno dei due coniugi risieda all’estero, la maggiorazione trova applicazione solo se il coniuge che lavora all’estero mantiene anch’egli la residenza in Italia dove deve versare le imposte. Anche una siffatta situazione, che è stata oggetto di una specifica risposta da parte dell’Istituto Nazionale di Previdenza in una della FAQ pubblicate sul portale informativo e poi confermata nel messaggio n. 1714 del 20 aprile 2022, solleva qualche criticità se si considera che il regolamento n. 883/2004 esige sempre una “rigorosa” equivalenza tra gli importi per le prestazioni erogate da uno Stato membro ai lavoratori i cui familiari risiedono in tale Stato membro e a quelli i cui familiari risiedono in un altro Stato membro secondo disposizioni che, come la Corte di Giustizia più volte ha sottolineato, “mirano a impedire che uno Stato membro possa subordinare la concessione o l’importo delle prestazioni familiari alla residenza dei familiari del lavoratore nello Stato membro che eroga le prestazioni (così, oltre alla sentenza in commento, C-372/20 e C-321/93).