argomento: Profili europei e Internazionali - Giurisprudenza
La sentenza in commento si pronuncia sui riflessi, in materia tributaria, della libertà di religione e di culto riconosciuta dal combinato disposto degli artt. 9 e 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Intervenendo sull’esenzione da imposte sui redditi, in vigore nella Regione di Bruxelles-Capitale, prevista per gli edifici di culto delle sole religioni riconosciute, la decisione ritiene che tale limitazione sia in linea di principio legittima e proporzionata allo scopo di evitare abusi in caso di credo religiosi fittizi, non potendo la Corte intervenire sulle scelte operate dai singoli ordinamenti. Tuttavia, nella fattispecie ricorre una discriminazione perché il procedimento finalizzato al riconoscimento della confessione religiosa, non essendo predeterminato da disposizioni normative o regolamentari, non offre garanzie di legalità e trasparenza, rimettendo all’autorità una valutazione sostanzialmente discrezionale, che si riflette sulla concreta possibilità di fruire dell’esenzione fiscale.
» visualizza: il documento (CEDU, sent. 5 luglio 2022, Arrét Assemblée Chrétienne des Témoins de Jéhovah d'Anderlecht et Autres c. Belgique)PAROLE CHIAVE: imposizione fondiaria - edifici di culto - esenzione - religioni riconosciute - libertà di religione
di Andrea Quattrocchi
1. Con una legge del 2001, l’ordinamento tributario belga ha previsto che la gestione e il gettito dell’imposta fondiaria – applicata sul reddito di terreni e fabbricati – fosse attribuita alle singole regioni, che avrebbero potuto adottare specifiche disposizioni valevoli nell’ambito del proprio territorio. La regione di Bruxelles Capitale ha emanato tali norme solo il 23 novembre 2017, con decorrenza dal periodo d’imposta successivo, di talché fino a tale data la regolamentazione applicabile era quella prevista dalla legislazione nazionale. La norma federale prevedeva l’esenzione da imposta per gli immobili o parti di essi, destinati, senza scopo di lucro, all’esercizio pubblico di un culto (oltre che per attività meritevoli di tutela quali quella d’insegnamento, ospedaliera, etc.) fosse applicata senza distinzione a tutte le confessioni religiose. A partire dal 2018, viceversa, la norma applicabile nella sola regione di Bruxelles-Capitale ha stabilito che l’esonero da imposta fondiaria, oltre che ad una istanza del contribuente, fosse subordinato ad alcune condizioni cumulative: i) che il bene fosse utilizzato esclusivamente come luogo di pratica dell’esercizio pubblico del culto di una religione riconosciuta (o per l’assistenza morale secondo una concezione filosofica non confessionale); ii) fosse accessibile al pubblico; iii) fosse utilizzato con frequenza per finalità di culto; iv) fosse gestito da una istituzione locale riconosciuta dall’autorità competente; v) non si trattasse di abitazioni. Dai lavori preparatori relativi alle nuove disposizioni, si trae che la scelta di riservare l’esenzione alle sole confessioni riconosciute è volta al contrasto delle frodi, per evitare che possano avvalersi dell’agevolazione culti oggettivamente non radicati o comunque fittizi. Inoltre, dal testo della sentenza emerge che il 19 giugno 2017 la Sezione legislativa del Consiglio di Stato belga avesse sottolineato la necessità di giustificare adeguatamente il differente trattamento fondato sul riconoscimento o meno del culto da parte dello Stato, onde evitare che la norma potesse collidere sia con i precetti costituzionali in materia di libertà religiosa, sia con le pertinenti disposizioni della Convenzione Europea dei Diritti Umani [sul differente approccio degli Stati europei in tema di edifici di culto, in particolare in Germania, Francia e Spagna, v. i contributi di P. Valdrini, H. Pree e A. Castro Jover in D. Persano (a cura di), Gli edifici di culto tra Stato e confessioni religiose, Milano, 2008].
2. A seguito dell’entrata in vigore della disposizione, i Testimoni di Geova, confessione non riconosciuta in Belgio, non hanno più potuto fruire dell’esenzione da imposta fondiaria per i beni siti nella regione interessata, continuando invece a goderne per quelli collocati in altre regioni del territorio dello Stato. Di conseguenza, hanno proposto un ricorso diretto alla Corte costituzionale, lamentando che la norma, in quanto discriminatoria, fosse in contrasto, quanto al disposto della Costituzione belga, con i principi di legalità e di non discriminazione (artt. 10 e 11), con l’art. 19 Cost. in materia di libertà di culto e con l’art. 172 relativo all’uguaglianza dei contribuenti rispetto alla legge tributaria, tutto ciò in combinato disposto con gli articoli della CEDU, in particolare l’art. 14 (secondo cui il godimento dei diritti e delle libertà deve essere riconosciuto senza distinzione di religione); l’art. 9, che riconosce la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti (libertà che comprende anche il cambio di religione o credo); l’art. 11, che introduce la libertà di riunione pacifica e di associazione, nonché l’art. 1 del protocollo I, concernente la tutela della proprietà (sulla libertà religiosa nel quadro europeo V. D. Durisotto, Istituzioni europee e libertà religiosa. CEDU e UE tra processi di integrazione europea e rispetto delle specificità nazionali, Napoli, 2016). La Corte costituzionale ha rigettato il ricorso ritenendo che il riconoscimento fosse un criterio oggettivo e pertinente per contrastare le frodi fiscali e che la soggezione ad imposta non fosse tale da generare criticità di gestione dell’organizzazione. Il criterio era giudicato anche proporzionato perché la confessione religiosa interessata avrebbe richiedere il riconoscimento. Esauriti i rimedi giurisdizionali interni, i Testimoni d Geova adivano dunque Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
3. Il primo quesito ad essere risolto dalla Corte possiede carattere preliminare ed attiene alla possibilità che gli articoli 9 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali possano essere applicati ad una misura fiscale. Affinché una questione tributaria possa rilevare nella prospettiva della libertà religiosa, occorre anzitutto verificare se il legislatore nazionale abbia introdotto una disparità di trattamento tra situazioni comparabili. Situazioni uguali tra loro vanno infatti disciplinate uniformemente e se sono introdotte distinzioni, queste devono essere giustificate sotto il profilo oggettivo, della ragionevolezza e della proporzionalità tra mezzi impiegati e fini perseguiti. Su questi profili gli Stati membri godono di un certo margine di discrezionalità, ma quando sono in gioco diritti fondamentali, come, nel caso di specie, la libertà religiosa, le limitazioni sono ammissibili solo quando sussistano ragioni di carattere imperativo, le uniche che possono sorreggere una deroga in Stati democratici e pluralisti, nei quali ci si attende che l’approccio sia di imparzialità (D. Tega, Cercando un significato europeo di laicità: la libertà religiosa nella giurisprudenza della corte europea dei diritti, in Quad. Cost., 2010, 1525). In questo quadro, ove lo Stato, pur a ciò non obbligato in linea di principio, decida di introdurre uno statuto particolare per le confessioni religiose, non può, in tal caso, discriminare, e comunque grava su di esso l’onere della prova sulla sussistenza di una legittima giustificazione. La tutela della libertà religiosa, peraltro, si estende ai c.d. diritti aggiuntivi, vale a dire quei diritti che pur non essendo, in sé considerati, espressivi della libertà religiosa, si rivelano funzionali al suo esercizio e sono introdotti in tale prospettiva, come la destinazione al culto di un determinato luogo (in tema, R. Benigni, Libertà religiosa, luoghi di culto e governo del territorio, in Quad. Dir. Pol. Eccl., 2020, 643; N. Pignatelli, La dimensione fisica della libertà religiosa: il diritto costituzionale ad un edificio di culto, in federalismi.it, 2015, fasc. 24). Secondo la Corte, ciò è quanto accaduto nel caso di specie. Introducendo l’esonero da imposta fondiaria per i luoghi di culto, lo Stato belga ha garantito diritti aggiuntivi perché ha implicitamente riconosciuto che il minor carico fiscale contribuisce a rendere effettiva la libertà di religione. La Corte ne trae che gli articoli 9 e 14 della Convenzione si applicano anche alle misure fiscali di favore che uno Stato intenda riservare a determinate comunità di contribuenti.
4. Risolta in senso affermativo l’anzidetta questione preliminare, la Corte esamina la norma interna per verificare se la scelta di subordinare al riconoscimento della confessione religiosa l’applicabilità dell’esenzione contrasti con le richiamate disposizioni convenzionali. Al riguardo, i giudici europei confermano la comparabilità tra le posizioni di religioni riconosciute e non riconosciute quanto alla disponibilità di luoghi destinati all’esercizio del culto e ritengono che il riconoscimento sia un criterio pertinente per contrastare le frodi fiscali. Tale pertinenza era stata per vero contestata dai ricorrenti, sul presupposto che il solo riconoscimento non è di per sé indicativo della effettiva destinazione del bene a finalità di culto (senza contare che il riconoscimento della religione non fosse un criterio condiviso da tutte le regioni belghe, essendo previsto esclusivamente per Bruxelles Capitale). La Corte, ritenuto pertinente il criterio, ammette di non potersi sostituire agli Stati membri nella relativa scelta, né di poter indicare essa stessa dei criteri alternativi, così come non può mettere in discussione la strutturazione di un sistema che rimette alle articolazioni territoriali spazi di autonomia impositiva. Ciò posto, la Corte si concentra sull’esaminare le modalità concrete di accesso all’agevolazione, la procedura di riconoscimento, per stabilire se essa garantisca parità di accesso a tutte le confessioni desiderose di riconoscimento o se, in qualche modo, realizzi una discriminazione. Sul punto la Corte rileva che il Belgio ha riconosciuto alcune confessioni religiose (quella cattolica, ebraica, protestante, musulmana, etc.), mentre altre, pur avendone fatto istanza, sono ancora in attesa di una pronuncia dell’autorità (i buddisti dal 2006 e gli induisti dal 2013). È stato, inoltre, accertato, che non sussistono norme legislative o regolamentari che stabiliscano requisiti e condizioni per il riconoscimento, essendo emerse, queste, solo a fronte di interrogazioni parlamentari, dalle cui risposte non si trae un quadro chiaro. Se è certo, infatti, che le confessioni religiose non debbano svolgere attività in contrasto con l’ordine pubblico, possedere una struttura e perseguire un interesse sociale, più indeterminate appaiono le indicazioni secondo le quali la confessione deve essere stabilita nello Stato da “diversi decenni” e contare “diverse decine di migliaia di fedeli”. Tali criteri si rivelano, secondo la Corte, del tutto vaghi, di talché l’esenzione fiscale è subordinata ad un riconoscimento il cui procedimento non offre sufficienti garanzie contro trattamenti discriminatori, per cui la differenza di trattamento sul piano fiscale, a cascata, non è giustificata da ragioni obiettive e ragionevoli.
5. Con riguardo alle possibili ricadute della sentenza sull’ordinamento italiano, possono essere svolte alcune considerazioni sia in relazione alle imposte sui redditi – cui l’esenzione si riferisce nell’ordinamento belga – sia con riguardo alla tassazione sul patrimonio mediante Imu (sul trattamento fiscale degli edifici di culto v. M. Logozzo, Il regime fiscale degli edifici di culto, in Jus, 1995, 467). Quanto all’imposta sul reddito, va ricordato che secondo quanto previsto dall’art. 25 Tuir, sono redditi fondiari quelli inerenti terreni e fabbricati, situati nel territorio dello Stato, che sono o devono essere iscritti, con attribuzione di rendita, nel catasto dei terreni o nel catasto edilizio urbano. L’art. 6, comma 3, lett. c), R.D. L. 13 aprile 1939, n. 652, prevede che non sono soggetti a dichiarazione in catasto “i fabbricati destinati all’esercizio dei culti” (v. anche art. 8, Regolamento 1° dicembre 1949, n. 1142; v. A. Fuccillo, L’edificio di culto nella normativa catastale e nell’imposizione indiretta, in Riv. Not., 1991, 679). Di conseguenza, i luoghi di culto religioso, a prescindere dalla confessione di riferimento, sarebbero tecnicamente esclusi da imposizione, poiché non formando oggetto di iscrizione in catasto non soddisfano il presupposto per la produzione di reddito fondiario. Come è stato chiarito in tempi relativamente recenti dall’amministrazione finanziaria (Agenzia Entrate, Direttore, nota 6 aprile 2018, n. 74742), non è tuttavia escluso che per ragioni diverse da quelle fiscali e segnatamente per motivi civilistici, sorga l’esigenza di iscrivere in catasto i luoghi di culto. In tal caso, tali beni vanno censiti in categoria E/7, in grado di accogliere “gli edifici o porzioni di edifici destinati all’esercizio pubblico dei culti, quali le chiese, i santuari, le cappelle, nonché i templi di ogni confessione religiosa (…)”. Una volta censiti, tuttavia, la loro rendita non può essere pari a zero (Comm. Trib. Reg. Friuli Venezia-Giulia, sez. I, 27 settembre 2021, n. 140; Comm. Trib. II grado di Trento, 12 maggio 2021, n. 48). Come si vede, sia la disposizione catastale del 1939 – riferita ai “culti” (al plurale) - che la prassi amministrativa, che richiama ogni confessione religiosa, contengono indicazioni chiaramente pluraliste, dalle quali non è possibile trarre alcuna limitazione correlata ad una procedura di riconoscimento della confessione religiosa. Vanno segnalati, tuttavia, due aspetti. Da un lato, occorre comprendere se, una volta censito in catasto su base volontaria con attribuzione di rendita, l’edificio di culto sia imponibile ai fini delle imposte sui redditi e a quali condizioni. Per altro verso, poi, va considerato che non tutti gli edifici di culto sono tali per natura (come accade per una chiesa o una moschea): possono esservi anche luoghi di culto “per destinazione”, vale a dire immobili già iscritti in catasto - in categoria diversa da E/7 e con attribuzione di rendita - ai quali, da un certo momento in poi, viene impressa una specifica destinazione come luogo di esercizio del culto senza che vi corrisponda l’iscrizione catastale (in tal caso la giurisprudenza richiede che ricorrano caratteristiche univoche e specifiche, v. Comm. Trib. Reg. Umbria, sez. I, 24 ottobre 2018, n. 397). Ciò pone il problema di verificare se il bene, inizialmente produttivo di reddito tassabile in quanto accatastato (e dunque in grado di soddisfare il presupposto d’imposta), debba/possa non essere più tassato. Rispetto ad entrambe le problematiche va richiamato l’art. 36, comma 3, primo periodo, Tuir, secondo cui non si considerano produttive di reddito, se non sono oggetto di locazione, le unità immobiliari destinate esclusivamente all’esercizio del culto, compresi i monasteri di clausura, purché compatibile con le disposizioni degli articoli 8 e 19 della Costituzione, e le loro pertinenze. La disposizione chiarisce che un edificio di culto, ancorché iscritto in catasto con attribuzione di rendita non va considerato produttivo di reddito fondiario (in capo al proprietario o possessore, sia esso persona fisica tassata con Irpef o, più frequentemente, ente non commerciale soggetto ad Ires sul reddito fondiario ex art. 143 Tuir). Sennonché, tale irrilevanza fiscale dell’edificio quand’anche iscritto in catasto, risulta subordinato alla condizione che il culto sia “compatibile con le disposizioni degli artt. 8 e 19 della Costituzione” e dunque occorre approfondire quali siano gli effetti recati da tale rinvio. La prima di dette disposizioni, come è noto, oltre ad introdurre l’uguaglianza delle confessioni religiose di fronte alla legge, stabilisce che quelle diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano, e che i loro rapporti con lo Stato siano regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze. L’art. 19 prevede, invece, che tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume. Va segnalato che il limite di compatibilità riferito agli artt. 8 e 19 Cost. si ritrova anche all’interno dell’art. 1, comma 759, lett. d), l. n. 160/2019, laddove si introduce l’esenzione da Imu per i fabbricati destinati esclusivamente all’esercizio del culto. Occorre dunque chiedersi, alla luce del limite di compatibilità in questione, se e a quali condizioni siano subordinate le esenzioni da imposte sui redditi e sul patrimonio. Al riguardo, occorre distinguere, per completezza, tra riconoscimento della confessione religiosa e sottoscrizione di una intesa tra la confessione stessa e lo Stato. Il riconoscimento è infatti disciplinato dalla legge n. 1159 del 1929, che richiede l’erezione in ente morale, dotato di statuto, l’invio dei nominativi dei ministri di culto per una approvazione da parte dell’autorità statale (pena l’inefficacia degli atti compiuti nell’ambito del ministero), la celebrazione di matrimoni con riconoscimento di effetti civili, etc. L’intesa vera e propria, invece, non è disciplinata da una normativa di legge o di regolamento – dunque come in Belgio – ma rientra nelle prerogative della Presidenza del Consiglio. Come ricorda la Suprema Corte (Cass., 23 maggio 2022, n. 16641), la giurisprudenza della Corte Costituzionale è costante nell’affermare che il legislatore non può operare discriminazioni tra confessioni religiose in base alla sola circostanza che esse abbiano o non abbiano regolato i loro rapporti con lo Stato tramite accordi o intese (Corte Cost., 16 luglio 2002, n. 346; Id., 27 aprile 1993, n. 195). Ciò in quanto la scelta relativa all’avvio delle trattative per stipulare l’intesa presenta i tratti tipici della discrezionalità valutativa come ponderazione di interessi: da un lato, quello dell’associazione istante ad addivenire all'intesa, che ha una mera facoltà, e non un obbligo, di chiedere di stipulare un'intesa con lo Stato, dall’altro l’interesse pubblico alla selezione dei soggetti con cui avviare le trattative, che comporta l’accertamento preliminare se l’organizzazione richiedente sia o meno riconducibile alla categoria delle “confessioni religiose” (Consiglio di Stato, 15 novembre 2011, n. 6038). Risulta che la Congregazione cristiana dei testimoni di Geova sia un ente confessionale riconosciuto dallo Stato con D.P.R. n. 783 del 1986, reso ai sensi della L. n. 1159 del 1929, art. 2; la Congregazione ha anche richiesto la stipula di una intesa con lo Stato, intesa che, predisposta e firmata, non è ancora stata approvata dal Parlamento (P. Floris, Intorno all’intesa con i Testimoni di Geova, in Stato, chiese e pluralismo confessionale, 2021, 119). Alla luce di quanto precede, alla Congregazione dei testimoni di Geova in Italia può considerarsi applicabile l’art. 36, comma 3, primo periodo, Tuir [per il caso in cui l’edificio di culto sia stato accatastato (non essendovi un obbligo in tal senso)], nonché, ai fini Imu, l’art. 1, comma 759, lett. d), l. n. 160/2019 [rimanendo fermo che l’accatastamento attuale o potenziale in categoria catastale E/7 comporta esenzione Imu anche in carenza di altri elementi in base alla lett. b) della stessa norma]. Per le altre confessioni religiose, senza intesa, occorre quantomeno provvedere alle istanze per il riconoscimento di cui alla legge n. 1159 del 1929.