<p>Le nuove sanzioni tributarie - Lattanzi</p>
Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

02/05/2023 - La "strana convenienza" della trasparenza per presunzione

argomento: Attuazione del tributo - Giurisprudenza

La Cassazione torna per l’ennesima volta sul tema della trasparenza per presunzione mettendola in relazione con il divieto di doppia imposizione e preferendola alla tassazione cedolare. Il sistema che ne risulta non è tutto sommato sfavorevole per il contribuente. Ma se così è, questo approccio deve essere ripensato, come sembrerebbe voler fare il disegno di legge delega per la riforma del sistema fiscale di recente approvato dal Consiglio dei Ministri.

» visualizza: il documento (Corte di Cass., ord. 30 novembre 2022, n. 35293) scarica file

PAROLE CHIAVE: trasparenza per presunzione - società a ristretta base proprietaria - doppia imposizione economica - dividendi - ingerenza nella gestione sociale


di Federico Rasi

1. Con l’ordinanza in commento, la Cassazione torna, per l’ennesima volta, sul tema della legittimità della c.d. trasparenza per presunzione, ovverosia di quel particolare meccanismo di tassazione che la giurisprudenza riserva alle società a ristretta base proprietaria, allorquando siano accertati utili “in nero” (sul tema Salvini, La tassazione per trasparenza, in trib., 2003, p. 1505; Marello, Il regime di trasparenza, Il regime di trasparenza, in Imposta sul reddito delle società (IRES), opera diretta da Tesauro, Bologna, 2007, p. 550; Uckmar, Il regime impositivo delle società – La società a ristretta base proprietaria, Padova, 1966, passim; Rasi, La tassazione per trasparenza delle società di capitali a ristretta base proprietaria, Padova, 2012, passim). La pronuncia non fornisce elementi nuovi a questo consolidato orientamento, se non fosse per un’importante precisazione che, “provocatoriamente”, porta a concludere nel senso di ritenere, nel complesso, tale regime “conveniente” per il contribuente. Si tratta della affermazione per cui è più corretto tassare secondo lo schema della trasparenza i maggiori utili in nero prodotti da queste società, piuttosto che applicare loro l’ordinaria tassazione cedolare prevista per i redditi di capitale. L’affermazione molto puntuale della Cassazione, peraltro non frequente nelle sentenze che appartengono a questo orientamento (di solito, la Cassazione si limita ad accettare l’applicazione del meccanismo di tassazione per trasparenza senza illustrare le ragioni della sua applicazione) consente di svolgere alcune riflessioni, soprattutto in chiave prospettica, dal momento che, come si vedrà, il disegno di legge delega per la riforma del sistema fiscale, di recente approvato dal Consiglio dei Ministri, intende, tra le altre cose, reagire a simili affermazioni riconducendo il maggior reddito accertato in capo ai soci tra i “redditi finanziari”.

2. Tornando all’ordinanza in esame, si osserva come in essa la Cassazione richiami una volta di più la sua giurisprudenza secondo la quale, in caso di accertamento di utili non dichiarati presso società di capitali a ristretta base partecipativa, è legittima la presunzione di attribuzione ai soci partecipanti di tali utili, rimanendo salva la facoltà per i soci medesimi di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non sono stati oggetto di distribuzione, ma sono stati, invece, accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti (Beghin, L’occulta distribuzione dei dividendi nell’ambito delle società di capitali a “ristretta base” tra automatismi argomentativi e prova per presunzioni (nota a Cass., sez. trib., 29 dicembre 2003, n. 19803), in GT-Riv. giur. trib., 2004, 431; Ficari, Presunzione di assegnazione di utili extra-bilancio ai soci e imputazione di costi fittizi, in trib., 2008, p. 1054; Muleo, Alcune perplessità in ordine a recenti orientamenti in tema di imputazione ai soci dei maggiori utili accertati in capo a società a ristretta base sociale, in GT-Riv. giur. trib., 2008, p. 712; Stevanato, La presunzione di distribuzione ai soci del maggior reddito societario (nota a Cass., sez. trib., 29 dicembre 2003, n. 19803), in Corr. trib¸ 2004, 1009).

3. L’ordinanza n. 35293 del 2022 ricorda altresì come tale presunzione sia valida anche nel caso in cui tra i soci non risultino rapporti di parentela, in quanto la ristrettezza della base sociale implica di per sé un elevato grado di compartecipazione dei soci e, dunque, la conoscenza degli affari sociali e la consapevolezza dell’esistenza di un utile extrabilancio. Per i giudici di legittimità, la ristrettezza dell’assetto societario implica necessariamente un vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci nella gestione sociale, con la conseguenza che, in simili casi, è del tutto legittimo presumere l’apprensione da parte dei soci di eventuali maggiori redditi non dichiarati, a meno che il contribuente medesimo non fornisca la prova contraria che i ricavi extracontabili non siano stati distribuiti.

4. Fino a qui nulla di nuovo, se non fosse che alla Corte era stato espressamente richiesto di stabilire se, «per tassare gli utili da partecipazione in società ed enti soggetti ad IRES ex art. 44, comma 1, lett. e), TUIR, [andassero] applicati e rispettati i criteri di imponibilità per esenzione (limitata) in capo ai soci, secondo le diverse percentuali stabilite in funzione della natura del socio partecipante, così come stabilite dagli 47 (per le persone fisiche) e 89 (per imprese e società) seguenti del TUIR».

5. La risposta che i giudici di legittimità danno a tale quesito è negativa «in quanto il beneficio dell’esenzione parziale dall’imposizione degli utili societari di cui si è detto opera unicamente nel caso in cui, come questa Corte ha più volte sottolineato, si abbia riferimento ai redditi regolarmente dichiarati dalla società in un documento contabile», sicché «il disposto di cui all’ 47 TUIR, che attiene alla tassazione degli utili distribuiti ai soci, con delibere formali dell’assemblea, pertanto, non trova applicazione per i redditi extracontabili, che per definizione non risultano menzionati nella contabilità societaria».

6. Coerentemente con la sua impostazione, la Cassazione ritiene di non poter applicare il regime di esenzione o i regimi sostitutivi di tassazione dei dividendi in quanto essi perseguono il fine di mitigare gli effetti della doppia imposizione economica, mentre, nel caso di utili non dichiarati «è chiaro che non vi è alcun obbligo di mitigare una doppia imposizione che non v’è mai stata, non avendo la società dichiarato tali utili extracontabili e quindi avendo essi sfuggita la imposizione a livello societario». I predetti regimi devono, dunque, recedere in favore dell’applicazione del regime di tassazione per trasparenza che tassa i maggiori utili prodotti dalla società facendoli concorrere al reddito complessivo dei soci assoggetto a tassazione progressiva.

7. Non è una posizione affatto nuova. Limitandosi alla giurisprudenza recente, si rinviene anche nella quasi coeva Cass., sez. trib., ord. 12 settembre 2022, n. 26759 ed è stata poi successivamente ribadita da , sez. trib., sent. 8 febbraio 2023, n. 3882 e da Cass., sez. trib., ord. 22 febbraio 2023, n. 5567. Tutte queste sentenze sono espressive dell’orientamento maggioritario.

8. Sono, al contrario, più rare e meno recenti le sentenze che affermano il contrario. Lo avevano fatto , sez. trib., sent. 14 maggio 2007, n. 10982 e Cass., sez. trib., sent. 5 maggio 2003, n. 6780. Queste pronunce sostenevano che non si potesse ricorrere allo schema della trasparenza, ma, piuttosto, che gli utili presuntivamente distribuiti dovessero essere prima tassati in capo alla società secondo le regole ordinarie e, poi, assoggettati ad imposta (sostitutiva od ordinaria) in funzione della natura qualificata o meno della partecipazione posseduta in capo ai soci medesimi (Pagani, Accertamenti su società di capitali a ristretta base societaria. Quali conseguenze per i soci?, in Il Fisco, 2010, pag. 4286).

9. Si era espressa nel medesimo senso anche Cass., sez. trib., sent. 13 luglio 2018, n. 18643, che originava da un caso in cui, espressamente, venivano richieste ad un contribuente le imposte relative ad un maggior reddito di capitale «rideterminato in parte per il mancato assoggettamento ad imposizione dei dividendi effettivamente distribuiti, in parte per la percezione di utili extra bilancio presuntivamente accertati dall’Ufficio». Per la Cassazione, l’accertamento di maggiori redditi in nero presso una società si trova in rapporto di pregiudizialità «con le cause relative all’accertamento di maggiori redditi da partecipazione dei singoli soci o al recupero dell’omesso versamento delle ritenute alla fonte sui dividendi derivanti ai soci dalla distribuzione dei suddetti utili extracontabili». In questa occasione, la Corte dava atto della possibilità di due ricostruzioni alternative e si affrettava a precisare che, ove si fosse propeso, come la stessa faceva in quel caso, per la tesi che qualifica il reddito del socio quale reddito di capitale, si sarebbe, innanzitutto, dovuto provvedere a verificare la posizione delle società, anche con riferimento alla questione della mancata effettuazione delle ritenute sui dividendi.

10. Nonostante queste prese di posizione la soluzione che ricorre alla figura del reddito di partecipazione è quella maggioritaria e preferita nella prassi degli Uffici in quanto ha l’effetto pratico di definire in via immediata la posizione tributaria del socio e della società, senza in alcun modo causare il verificarsi di casi di doppia imposizione (sul punto v. anche Cass., sez. trib., ord. 9 agosto 2017, n. 19890 e Cass., sez. trib., ord. 20 giugno 2018, n. 16246, che si segnalano per qualificare quanto distribuito, a fini civilistici, quale dividendo e, invece, a fini fiscali, quale reddito di partecipazione, così avallando l’operato dall’Agenzia delle Entrate in sede di avviso di accertamento). Non si manca, però, di vedere come questa preferenza sia giustificata più sulla base di argomenti ancorati al passato, più che al presente. La Cassazione pare, quindi, muoversi in una logica non più attuale.

11. La Cassazione sembra, infatti, ragionare come se fosse ancora vigente l’IRPEG, nel cui sistema la trasparenza era un meccanismo perfettamente interscambiabile con il credito di imposta per evitare il realizzarsi di fenomeni di doppia imposizione (in proposito Schiavolin, Natura del tributo: funzioni e caratteri generali, in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario – Imposta sul reddito delle persone giuridiche e Imposta locale sui redditi, a cura di Tesauro, Torino, 1996, pag. 3; Boria, Il sistema tributario, Torino, 2008, pag. 101 e pag. 532; Porcaro, Il divieto di doppia imposizione nel diritto interno, Padova, 2001, pag. 412). In quel contesto, in caso di accertamento di utili occulti presso le società, il ricorso alla trasparenza era possibile e, quasi addirittura, preferibile in quanto si evitava un “doppio passaggio” che poteva causare una parziale doppia imposizione, piuttosto che eliminarla. Se, infatti, si fosse prima recuperato il maggior reddito in capo alla società e poi ai soci, questi ultimi, ai sensi dell’art. 14, comma 5, t.ui.r. nella formulazione previgente, non avrebbero potuto godere del credito di imposta. Detta disposizione prevedeva, infatti, che «la detrazione del credito di imposta … non spetta in caso di omessa presentazione della dichiarazione o di omessa indicazione degli utili nella dichiarazione presentata». La trasparenza consentiva di evitare tale effetto appuntando direttamente l’obbligazione tributaria in capo ai soci, senza alcun aggravio per loro (in generale sull’assetto posto dall’IRPEG, v. Cosciani, Scienza delle finanze, Torino, 1991, pag. 327; , Considerazioni sulla riforma dell’imposta sulle persone giuridiche con riferimento al credito di imposta, in Bancaria, 1978, pag. 22; Falsitta, Problemi, vicende e prospettive della tassazione del reddito d’impresa nell’ordinamento italiano, in La struttura dell’impresa e l’imposizione fiscale (Atti del Convegno di S. Remo), Padova, 1981, pag. 111; Cicognani, (voce) Società (Diritto tributario), in Enc. giur. Treccani, XXIX, Roma, 1993, pag. 2; Fedele, Profilo fiscale delle società di persone, in Riv. not., 1988, pag. 552, nonché in AA.VV., Commentario al Testo Unico delle imposte sui redditi ed altri scritti, Roma – Milano, 1990, pag. 19).

12. Reiterare tout court oggi tale argomentazione appare anacronistico; ora ci si deve confrontare con l’IRES e con un sistema che qualifica come definitiva la tassazione in capo alle società e che tollera il realizzarsi di casi di parziale doppia imposizione sui dividendi. La trasparenza non va ora messa in relazione con il credito di imposta, ma con l’esenzione e ancor di più con il sistema di tassazione cedolare. Questo comporta conseguenze dal punto di vista giuridico e dal punto di vista economico.

13. Dal punto di vista giuridico, si osserva come abbiano preso il sopravvento quegli orientamenti svalutativi del divieto di doppia imposizione. Ad esso si può sì attribuire il rango di principio generale dell’ordinamento tributario (in quanto espressione di equità e giustizia sostanziale), ma non di regola inderogabile (Stevanato, Divieto di doppia imposizione e capacità contributiva, in Diritto Tributario e Corte Costituzionale, a cura di Perrone e Berliri, Napoli, 2006, pag. 70). Esso può, infatti, essere superato da una norma ad hoc che introduca un’ipotesi di doppia imposizione. Secondo questa impostazione (sorta prevalentemente per risolvere i problemi che la fase dell’accertamento può sollevare) il legislatore non è affatto tenuto ad evitare la reiterata applicazione della stessa imposta in dipendenza dello stesso presupposto; egli sarebbe tenuto solo a determinare correttamente il soggetto passivo dell’obbligazione tributaria. Il problema dell’eliminazione della doppia imposizione viene così ricondotto al più generale problema dell’individuazione del soggetto passivo di imposta.

14. Ciò comporta che le cautele che, nel sistema IRPEG, giustificavano pienamente lo schema della trasparenza, ora sono venute meno. Nel sistema IRPEG, dove l’imposta pagata dalla società era un acconto di quella dovuta dal socio, il soggetto passivo di imposta “finale” era il socio, nel sistema IRES tanto il socio quanto la società sono ora soggetti passivi di imposta “finali”. Ciò comporta che, sulla base di un approccio sistematico. coerente con il nuovo sistema di tassazione delle società, gli Uffici dovrebbero procedere prelevando, prima, le maggiori imposte in capo alla società che ha prodotto i maggiori redditi, poi, presumendo la loro distribuzione ai soci tassando questi secondo le regole ordinarie dei dividendi.

15. In definitiva, per tutelare al meglio e non snaturare le scelte effettuate dal legislatore e, soprattutto, al fine di tassare i soci di società di capitali a ristretta base proprietaria in misura non diversa da quella prevista dalla legge, oggi si dovrebbe procedere secondo un “doppio passaggio” e non secondo un “passaggio unico”, ovverosia si dovrebbe procedere qualificando i redditi presuntivamente distribuiti ai soci quali redditi di capitale e non quali redditi di partecipazione.

16. Anche ponendosi dal punto di vista economico, si conferma che le scelte in tema di fissazione del carico fiscale tra società e soci che fondano il sistema vigente sono diverse rispetto a quelle del passato.

17. Prima di analizzarle, si deve ricordare come, quanto al carico fiscale applicabile ai dividendi societari, i diversi meccanismi di tassazione loro applicabili provocano esisti differenti (Falsitta, Accertamento di utili extra-bilancio a carico di società familiari e loro tassazione in complementare nei confronti dei soci, in dir. fin. sc. fin., 1962, p. 185; Id., Utili e dividendi (imposizione su) (voce), in Enc. giur. Treccani, XXXVII, Roma, 1993, p. 1), nonostante tutti questi siano strutturati per determinare il carico fiscale complessivo sui dividendi tenendo conto sia di quanto pagato dalla società e dal socio. Pur essendo questo il fine comune, essi differiscono quanto al modo in cui tale onere è ripartito. In altri termini, a livello teorico, tutti i sistemi di tassazione dei dividendi utilizzati dal legislatore italiani convergono nel coordinare idealmente la tassazione “società-soci” al livello della più elevata aliquota IRPEF (attualmente il 43%), ma poi all’atto pratico conseguano risultati alquanto diversi.

18. Il credito di imposta implica di tassare inizialmente la società produttrice del reddito distribuito e poi di accordare al socio percettore del dividendo un credito di imposta pari (pro quota) all’imposta pagata dalla società che risulta, così, essere un mero acconto di quella dovuta dal socio. In questo caso, quanto pagato dalla società diviene un credito sulle future imposte dovute dal socio, ma, dal momento che il dividendo concorre (al lordo delle imposte pagate dalla società) alla determinazione del reddito complessivo del socio, la sua tassazione, in ultima analisi, dipende dalla aliquota marginale del socio. Il credito di imposta allinea perfettamente la tassazione società-soci all’aliquota marginale del socio, la quale potrà, allora, essere pari o inferiore a quelle più elevate a fini IRPEF.

19. Lo stesso succede con il regime di trasparenza. Questo non tassa la società produttrice del reddito distribuito, ma solo il socio percettore, presso il quale il reddito della società concorre pro quota alla determinazione del reddito complessivo del socio assoggettato a tassazione progressiva. Anche in questo caso la tassazione finale dipenderà dal reddito complessivo del socio. La trasparenza differisce dal credito di imposta per il fatto che essa esclude che si verifichi una qualunque tassazione dell’utile in capo alla società. Con la trasparenza, la società non è, infatti, soggetta ad alcun onere fiscale in quanto il reddito societario viene imputato ai soci presso i quali concorre alla determinazione del loro reddito complessivo per essere assoggettato allo schema di aliquote applicato dal socio. Trasparenza e credito di imposta differiscono, inoltre, perché, con la prima è oggetto di tassazione tutto il reddito societario, mentre con la seconda è oggetto di tassazione solo il dividendo, ovverosia la quota di reddito distribuita. Ferme tali differenze, il risultato realizzato è il medesimo: la tassazione dipende dall’aliquota del socio.

20. Il regime della esenzione (normalmente in misura parziale) tassa la società produttrice del reddito distribuito ed esclude (appunto, in misura parziale) da tassazione il dividendo percepito dal socio ed assoggetta la quota imponibile del dividendo a tassazione progressiva. Prova di questo è il fatto che l’esenzione accordata dal TUIR è soltanto parziale e l’ammontare della quota imponibile del dividendo percepito dal socio è fissata, rispetto all’aliquota di volta in volta fissata per l’IRES, in una misura utile ad assicurare una tassazione complessiva del 43%. La quota imponibile del dividendo, non a caso, è stata modificata (in aumento) nel corso degli anni al variare (in diminuzione) dell’aliquota IRES. Ogni volta che si è proceduto a un intervento sulla aliquota dell’imposta sulle società, si è reso necessario un aggiustamento della parte imponibile del dividendo che concorre alla determinazione del reddito complessivo del socio ed è soggetta alle aliquote marginali di quest’ultimo. Nonostante queste premesse, l’obiettivo della tassazione complessiva al 43% non è sempre perfettamente raggiunto: se il socio sconta un’aliquota IRPEF inferiore a quella massima, il carico fiscale complessivo società-soci si riduce. Se in capo al socio è applicata un’aliquota del 23%, il carico società-soci diviene del 34,16%. Il sistema dell’esenzione tradisce, come il credito di imposta, l’obiettivo della tassazione al 43% in caso di percettori con redditi bassi.

21. Il regime di tassazione sostitutiva tassa la società produttrice del reddito distribuito e assoggetta il dividendo a una tassazione in misura integrale con l’applicazione, però, di un’aliquota ridotta rispetto a quella ordinaria. Rispetto ai precedenti casi, l’obiettivo della tassazione società-soci nella misura del 43% potrebbe essere raggiunto indefettibilmente per ogni tipo di percettore in quanto l’aliquota è identica per tutti i percettori di dividendi. Non a caso, quando nel corso degli anni l’aliquota IRES è stata progressivamente modificata, l’aliquota dell’imposta sostitutiva è stata incrementata (dal 12,50% al 20%, fino all’attuale 26%) proprio per assicurare un carico fiscale complessivo del 43%. È solo per uno sfrido matematico che attualmente il carico fiscale sostenuto dai soci unitamente a quello sostenuto dalle società è del 43,76%. Tale errore sarebbe teoricamente emendabile, ma continua a sussister.

22. Il regime della tassazione cedolare è quello oggi preferito dal legislatore. È il risultato della riforma attuata con l’art. 1, comma 1003, L. 27 dicembre 2017, n. 205, con cui si è ritenuto di dare un’applicazione generalizzata a tale meccanismo e con cui si è scelto correlativamente di rendere la tassazione progressiva dei dividendi societari un’ipotesi residuale. Con la novella in questione è stata, infatti, superata la distinzione tra partecipazioni qualificate e non ed è stato reso quello cedolare l’unico meccanismo di tassazione dei dividendi percepiti da persone fisiche al di fuori dell’attività di impresa. Conseguentemente, il regime di esenzione parziale (tale per cui i dividendi concorrono attualmente nella misura del 58,14% del loro ammontare alla determinazione del reddito del percettore) trova oggi applicazione pressoché esclusivamente per le persone fisiche che detengono partecipazioni nell’ambito di un’attività di impresa (oltre che per le società di persone commerciali). In tutti gli altri casi, opera la sola tassazione cedolare.

23. La (pressoché) totale abolizione della distinzione tra partecipazioni sociali qualificate e non e la generalizzazione del ricorso al metodo di tassazione generale ha allineato verso l’alto (al livello massimo possibile del 43,76%) il regime di tassazione dei dividendi. Possono ottenere un carico fiscale minore solo gli imprenditori e, proprio, coloro che applicano il regime di trasparenza.

24. Stante questo assetto, la trasparenza finisce per accordare due vantaggi che non assicura il generalizzato sistema cedolare:

a) evitare il carico fiscale massimo del 43,76%;

b) lasciare aperta la possibilità di ridurre ulteriormente tale carico per chi sconta aliquota marginali ridotte.

Si tratta di un aspetto di non scarso rilievo atteso che è tutt’altro che infrequente, nelle società a base familiare, la presenza di soci cui non si applica l’aliquota marginale massima.

È così che il ricorso al meccanismo della trasparenza, benché asistematico, non appare troppo sfavorevole per il contribuente.

25. Un ripensamento di tali posizioni sembrerebbe ora essere imposto dal legislatore. Come anticipato, il disegno di legge delega recentemente approvato dal Consiglio dei Ministri il 16 marzo 2023, nel testo reso disponibile sulla stampa specializzata, invita il Governo, con l’art. 17 relativo al procedimento accertativo, ad assicurare la certezza del diritto tributario attraverso, tra le altre cose, «la limitazione della possibilità di presumere la distribuzione ai soci del reddito accertato nei riguardi delle società di capitali a ristretta base partecipativa ai soli casi in cui è accertata, sulla base di elementi certi e precisi, l’esistenza di componenti reddituali positivi non contabilizzati o di componenti negativi inesistenti, ferma restando la medesima natura di reddito finanziario conseguito dai predetti soci».

26. Tale criterio di delega è una reazione evidente, tra le altre, all’ordinanza 25 agosto 2022, n. 25322 (Coppola, Ancora sui costi indeducibili ma effettivi attribuiti per presunzione ai soci di società di capitali a ristretta base azionaria, in Tel. Dir. Trib., 18 ottobre 2022; Id., Recentissime dalla Cassazione tributaria – un (tentativo di) dialogo fra dottrina e giurisprudenza, in Riv. Tel. Dir. Trib., 3 ottobre 2022), con cui la Corte di Cassazione, ribadita la legittimità degli accertamenti del reddito delle società a ristretta base proprietaria e confermata la possibilità di presumere la distribuzione di questi utili ai soci in proporzione alle rispettive quote di partecipazione (Cass. civ, Sez. V, sent. 29 dicembre 2010, n. 26248; Cass. civ., Sez. VI-5, ord. 10 arile 2014, n. 8473; Cass. civ., Sez. VI-5, ord. 23 ottobre 2019, n. 27049), ha ravvisato un maggior reddito tassabile e distribuibile anche in minori costi della società. Per l’ordinanza in questione, anche i costi costituiscono un elemento rilevante ai fini della determinazione del reddito d’impresa, sicché, anche quando essi siano “fittizi” o “indeducibili”, può, anzi deve, operare la presunzione che il reddito imponibile sia maggiore di quanto dichiarato o indicato in bilancio, con la conseguenza che non può riscontrarsi alcuna differenza tra la percezione di maggiori ricavi e l’indeducibilità o inesistenza di costi.

27. Per la Corte di legittimità «in tali casi la società matura un reddito di impresa di importo maggiore a quello dichiarato, con presunzione di distribuzione dello stesso ai soci in proporzione della quota posseduta». Ciò è considerato assolutamente ragionevole in quanto, di regola, le società a ristretta base proprietaria distribuiscono tutte le somme presenti nel conto economico (dunque, anche quelle derivanti dal disconoscimento di costi) e, pertanto, se sono accertati maggiori redditi, questi devono presumersi distribuiti. In sintesi, per la Cassazione, il disconoscimento di costi altera necessariamente il conto economico della società che, per l’effetto, risulta contenere ricavi maggiori e, quindi, un reddito maggiore rispetto a quello dichiarato. Pure questo maggiore reddito derivante da mere rettifiche fiscali si deve presumere distribuito ai soci (v. anche Cass. civ., Sez. V, sent. 2 febbraio 2021, n. 2224).

28. La delega non solo vuole reagire a queste sviste, ma lo vuole fare affermando la «natura di reddito finanziario conseguito dai predetti soci». L’introduzione della categoria dei “redditi finanziari” sarebbe un’ulteriore novità del disegno di delega in questione. Il suo art. 5, comma 1, lett. d), prevede l’istituzione di tale categoria in cui ricadrebbero le «ipotesi attualmente configurabili come redditi di capitale e redditi diversi di natura finanziaria». La legge delega sembrerebbe muoversi in un quadro di riferimento preciso in cui l’esito dell’accertamento dei maggiori redditi presso le società a ristretta base proprietaria. oltre a dover emergere dal ritrovamento presso la società di maggiori utili effettivamente distribuibili e non da mere rettifiche contabili, dovrebbe essere tassato quale dividendo il che presupporrebbe necessariamente una preventiva tassazione in capo alla società.

29. Se così fosse, la Cassazione non potrebbe più negare l’applicazione dell’art. 47 t.u.i.r. (o della norma che lo sostituirà). Si tratta di una scelta di non scarso rilievo che potrà ovviare a quelle incongruenze che la giurisprudenza della Cassazione ostinatamente difende. La legge delega in questione dimostra, invece, di effettuare una scelta sistematicamente corretta che non può che essere valutata favorevolmente. L’unico rammarico è che appare una scelta così ovvia che stupisce come sia necessario un intervento normativo per implementarla.

30. In conclusione, pare che il disegno di legge delega dimostri di ripensare dalle fondamenta l’attuale “trasparenza per presunzione” dando ad essa rango di diritto positivo (fermo restando che già ora deve considerarsi “diritto vivente”), ma almeno lo fa con un approccio più corretto ed evitando che risulti un meccanismo del tutto eccentrico rispetto al vigente sistema tributario.