argomento: IVA - Legislazione e prassi
Con la risposta ad interpello n. 424 del 2022 l’Agenzia delle Entrate è tornata nuovamente a pronunciarsi sul delicato tema del trattamento fiscale dei canoni di locazione c.d. “a scaletta” o scalettati, cioè canoni locatizi di importo variabile in base ad elementi predeterminati nel contratto dalle parti interessate, a fronte dell’esecuzione di opere di ristrutturazione dell’immobile commerciale da parte del conduttore. L’Amministrazione Finanziaria, in particolare, ha affermato che in tali ipotesi, molto frequenti nella prassi, sussistono le condizioni per configurare l’operazione come permuta ai fini Iva ex art. 11, D.P.R. n. 633 del 1972 (nella species, permuta di servizi con altri servizi), alla luce delle considerazioni già espresse sia dalla Corte di Giustizia UE che dalla Suprema Corte di Cassazione. Trattandosi di operazione permutativa, spiega l’Agenzia delle Entrate, il proprietario dell’immobile deve fatturare con Iva l’intero importo del canone pattuito (senza tenere in considerazione la riduzione concessa per le opere da eseguire) e il conduttore, entro la data di ricezione della fattura del canone, deve fatturare al proprietario il vantaggio derivante dai lavori di ristrutturazione eseguiti (determinato come differenza tra il canone lordo ed il canone netto), applicando il regime Iva previsto per i lavori stessi.
» visualizza: il documento (Agenzia delle Entrate, risposta a interpello 12.08.2022, n. 424)PAROLE CHIAVE: IVA - locazione commerciale - canoni di locazione a scaletta - permuta di servizi
di Clelia Passerini
1. Con la risposta ad interpello n. 424 del 12 agosto 2022, l’Agenzia delle Entrate è di recente tornata a pronunciarsi sul delicato tema dei canoni c.d. “a scaletta” nell’ambito delle locazioni commerciali e, in particolare, sul regime fiscale applicabile alla riduzione del canone locatizio pattuito, a fronte dell’esecuzione di opere di ristrutturazione sull’immobile da parte del conduttore.
2. Nel caso sottoposto all’indagine dell’Amministrazione finanziaria, la società istante – nella sua attività secondaria di locazione di immobili propri – ha stipulato un contratto di locazione di un immobile ad uso commerciale prevedendo un canone di importo variabile (nello specifico, primo mese di gratuità seguito da n. 95 mensilità a canone ridotto rispetto a quello ordinario) in ragione degli interventi incrementativi eseguiti dal conduttore per rendere l’immobile idoneo allo svolgimento della propria attività imprenditoriale.
Nell’ambito di tale rapporto di locazione, la società istante si è interrogata sul trattamento corretto ai fini dell’Iva da riservare ai canoni di locazione ed ha chiesto, in particolare, all’Amministrazione se occorresse emettere fattura per i canoni al netto delle riduzioni previste, oppure fatturare il canone locatizio al “lordo”, con contro-fatturazione dal conduttore al proprietario della differenza rispetto al netto pattuito a titolo di riaddebito degli oneri di ristrutturazione.
Il dubbio è sorto per il fatto che i lavori eseguiti dal conduttore (fra l’altro, di importo superiore a quello della riduzione dei canoni concordati) rispondevano ad esigenze personali dello stesso e, dunque – nel solco della precedente sentenza della Corte di Cassazione 12.07.2006, n. 15808 – non potevano considerarsi quale “vantaggio” differito alla riconsegna a favore del locatore.
La riduzione delle prime mensilità del canone, riferisce l’istante, era stata concessa esclusivamente per favorire la stipula del contratto di locazione – posto che l’immobile, anche prima delle opere sostenute dal locatario, era già perfettamente utilizzabile – e non sarebbe stato, quindi, corretto considerare la fattispecie quale operazione permutativa, né fatturare anche le riduzioni del canone e compensarle con le rivalse del conduttore.
3. La questione dei canoni differenziati rientra, in termini generali, in un terreno già scandagliato da precedenti interventi della stessa Amministrazione finanziaria nonché dalla giurisprudenza nazionale e sovranazionale la quale – dopo essersi interrogata a lungo sulla liceità o meno dei canoni locatizi di importo variabile durante l’esecuzione del contratto (si veda Cass. civ., sent. 26.09.2019, n. 23986 per una disamina dettagliata sul tema) – ne ha, di volta in volta, esaminato i diversi aspetti dal punto di vista civilistico e fiscale.
Nell’ambito dei contratti di locazione è, infatti, prassi assai diffusa che locatore e conduttore convengano una riduzione del canone inizialmente pattuito.
La ragione sottesa ad un simile accordo di previsione di un canone differenziato, in aumento o in diminuzione, in corso di rapporto (c.d. appunto, “a scaletta”) può dipendere da particolari esigenze del conduttore, anche di carattere prevalentemente economico, ovvero dai più vari elementi predeterminati dalle parti interessate (come ad esempio: il fatturato, la realizzazione di lavori necessari a rendere l’immobile idoneo ad un particolare business, la variazione del valore locativo dell’immobile in dipendenza dello sviluppo urbano della zona di ubicazione, l’esistenza di fattori ambientali ritenuti tali da incidere sullo sviluppo commerciale dell’area, l’esecuzione di opere di miglioria sull’immobile, etc.).
Di frequente questo sistema, che talvolta si concretizza in una sorta di “sconto” sul canone per il godimento del bene, viene utilizzato per consentire al conduttore di “rientrare”, totalmente o parzialmente, dalle spese aggiuntive dallo stesso sostenute per la preliminare ristrutturazione dell’immobile – sul presupposto che tali opere di ristrutturazione ne accrescano il valore anche a beneficio del proprietario – ovvero per consentire al conduttore, appena insediatosi nell’immobile, un minor carico economico soprattutto per i primi periodi di esecuzione contrattuale.
4. La delicata questione della variazione pattizia del canone nel corso del rapporto di locazione e della sua legittimità, soprattutto in una prima fase, non è stata accolta in modo univoco in seno alla giurisprudenza e molti sono stati i contrasti al riguardo.
Il grattacapo, storicamente, ha tratto origine dal disposto di cui all’art. 32, L. n. 392 del 1978 sull’equo canone (unica disposizione relativa al canone locatizio che, in effetti, riguarda l’eventuale aggiornamento del corrispettivo dovuto dal conduttore e non un vero e proprio aumento del canone) e dalle interpretazioni altalenanti che la giurisprudenza più risalente ne ha fornito.
La richiamata legge n. 392 del 1978, per le locazioni di immobili ad uso non abitativo ha sostanzialmente abbandonato il vecchio regime vincolistico, facendo proprio il principio della libera determinazione del canone.
Il principio di libera determinazione del canone, tuttavia, ha sempre risentito del fatto di essere collocato all’interno di una disciplina, quella regolata dagli artt. 27 ss., L. n. 392 del 1978, fortemente influenzata dalla destinazione d’uso attribuita al bene strumentale dal proprietario, nonché dell’attività effettivamente esercitata nell’immobile locato.
Da qui, la particolare attenzione rivolta dal Legislatore alla durata del rapporto contrattuale ed alla misura del canone locatizio, garantite, altresì, dal disposto di cui all’art. 79, L. n. 392 del 1978, che prevede la nullità di tutte le pattuizioni dirette a limitare la durata legale del contratto di locazione o ad attribuire al locatore un canone maggiore (e non un mero “aggiornamento”) di quello dovuto ovvero un qualche vantaggio in contrasto con le disposizioni della legge medesima.
Viene, in particolare, in rilievo proprio l’art. 32, L. n. 392 del 1978, il quale ammette che le parti possano stabilire di adeguare il corrispettivo periodico (sì da mantenere costante nel tempo il valore del canone suscettibile, come ogni obbligazione pecuniaria, di subire gli effetti del fenomeno inflattivo), ma statuisce che la misura dell’aggiornamento non debba essere superiore ad una percentuale predeterminata.
È proprio di fronte alle “limitazioni” dell’art. 32, L. n. 392 del 1978, che ci si è posti il problema della validità delle clausole c.d. “a scaletta” le quali, si ribadisce, prevedono in corso di rapporto un aumento dei canoni delle locazioni aventi ad oggetto immobili adibiti ad uso diverso da quello abitativo (nella realtà, la domanda sulla legittimità dei canoni scalettati, com’è stato rilevato in dottrina, si è posta non tanto, e non solo, rispetto al dettato di cui all’art. 32 cit. ma rispetto alla presenza nell’ordinamento della disposizione di cui all’art. 79).
A questo riguardo, la Suprema Corte, in un primo momento ed in un’ottica “restrittiva”, vittima dei retaggi del periodo di introduzione della norma, ha considerato siffatte clausole di aumento del canone in via di principio nulle, a meno che le maggiorazioni non fossero collegate sinallagmaticamente all’ampliamento della controprestazione (cfr. Cass. civ., sent. 11.08.1987, n. 6896).
Successivamente, la Corte ha assunto un atteggiamento di progressiva apertura, più consono certamente ai principi di autonomia contrattuale, e si è sviluppato il diverso orientamento, oggi maggioritario, secondo cui: “per gli immobili destinati ad uso non abitativo, risulta legittima la clausola con cui si convenga una determinazione del canone in misura differenziata, crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto, ancorata, infine, ad elementi predeterminati (idonei ad influire sull’equilibrio economico del sinallagma contrattuale e del tutto indipendenti dalle eventuali variazioni annuali del potere di acquisto della moneta), a meno che non risulti una sottostante volontà delle parti, volta, in realtà, a perseguire surrettiziamente lo scopo di neutralizzare esclusivamente gli effetti della svalutazione monetaria, eludendo così i limiti quantitativi posti dall’art. 32 Legge cosiddetta “sull’equo canone” (si vedano Cass. civ. sent. 11.10.2016, n. 20384; Cass. civ. sent. 24.03.2015, n. 5849; Cass. civ. sent. 5.03.2009, n. 5349).
L’interpretazione da ultimo richiamata è stata, in tempi più recenti, ripresa dalla Suprema Corte (con la sentenza n. 22909 del 10.11.2016 e, soprattutto, n. 23968 del 26.09.2019) la quale, compiendo un passo ulteriore, ha riconosciuto che, nelle locazioni non abitative, le parti sono certamente libere di accordarsi sull’importo dovuto a titolo di corrispettivo del godimento dell’immobile e che una tale libertà implica anche il diritto di predeterminare il canone in misura variabile (e, se del caso, crescente, di anno in anno) purché ciò avvenga in sede di conclusione del contratto.
Secondo tale indirizzo, pertanto, i contraenti sono liberi di stabilire un canone differenziato nel tempo e non occorre dimostrare, nel contratto di locazione, l’esistenza di un collegamento tra l’aumento nel tempo del canone ed elementi oggettivi e predeterminati, diversi dalla svalutazione monetaria, idonei ad incidere sul sinallagma contrattuale (si vedano, per l’analisi di cui sopra, Cuffaro, Le clausole di determinazione del canone nelle locazioni ad uso diverso dall’abitazione in Corr. Giur., 3, 2017, p. 310; Calvo, Locazioni e canone crescente – il c.d. canone a scaletta nelle locazioni immobiliari non abitative in Giur. It., n. 3, 2018, p. 584; Scarpa, Il canone a scaletta nelle locazioni commerciali in Immobili & proprietà, n. 2, 2020, p. 92).
5. Fatto questo doveroso breve excursus sulla possibilità per le parti contraenti di prevedere che il canone sia stabilito in misura differenziata e crescente nel tempo, dal punto di vista fiscale bisogna prestare molta attenzione alle varie casistiche che nella realtà possono concretizzarsi poiché, a seconda della fattispecie integrata, dipende il trattamento applicabile ai canoni di locazione.
Tale variazione sul corrispettivo reca, infatti, perplessità di non poco conto afferenti alla corretta individuazione del quantum da dichiarare all’Erario e, conseguentemente, da assoggettare a tassazione.
In particolare, e ciò costituisce proprio l’oggetto dell’interpello, la riduzione del canone quale contropartita delle opere di ristrutturazione pone il dubbio se, in sede di determinazione del reddito imponibile, concorra la quota di canone effettivamente percepita ovvero, al contrario, il proprietario debba considerare anche le spese relative alle opere di ristrutturazione.
Ad acuire il dubbio è stata la giurisprudenza di legittimità la quale, in plurime occasioni, ha sostenuto l’obbligo del proprietario dell’immobile di dichiarare il canone al “lordo” qualora risulti che gli interventi eseguiti abbiano apportato, in concreto, un vantaggio al locatore al termine del rapporto.
Secondo questo indirizzo, i lavori di ristrutturazione costituiscono una differente modalità di pagamento del corrispettivo e, pertanto, hanno rilevanza ai fini del computo dell’importo da assoggettare a tassazione.
La stessa Agenzia delle Entrate, nel caso in ispecie, ha considerato dirimente la pronuncia della Corte di Cassazione 12.07.2006, n. 15808 secondo cui è “pacifico che i lavori di ristrutturazione posti in essere in un edificio si risolvono in un vantaggio per il proprietario dell’edificio e quindi in una forma diversa di corresponsione del canone. Dunque, la proprietà non poteva “abbattere” i canoni percepiti sol perché una parte di essi venivano trattenuti dal conduttore a titolo di pagamento dei lavori eseguiti nell’interesse del proprietario ed a beneficio dello stesso” (sul tema Mirarchi, Tassazione integrale del canone di locazione anche se ridotto per le migliorie apportate dal conduttore in Immobili & proprietà, n. 5, 2021, p. 313).
6. Anche sulla base delle considerazioni che precedono, nel caso sottoposto alla sua attenzione, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che la previsione di canoni c.d. “a scaletta” durante l’esecuzione del contratto a fronte dell’obbligo del conduttore di eseguire opere di ristrutturazione incrementative sull’immobile commerciale locato configura una permuta ai fini Iva (con tutti i relativi riflessi fiscali che – come si vedrà infra – ne comporta).
Invero, l’automatismo che collega l’esecuzione della miglioria rispetto al corrispettivo concordato trova fondamento nell’inquadramento dell’operazione di variazione del canone all’interno dello schema contrattuale della permuta ai fini fiscali.
La nozione di «operazioni permutativa» è stata individuata in ambito fiscale dall’art. 11, D.P.R. n. 633 del 1972, il quale stabilisce che «le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate in corrispettivo di altre cessioni di beni o prestazioni di servizi, o per estinguere precedenti obbligazioni, sono soggette all’imposta separatamente da quelle in corrispondenza delle quali sono effettuate».
Da questa norma si può evincere che le «operazioni permutative» rilevanti ai fini Iva hanno oggetto più ampio rispetto a quello del contratto di permuta di cui alla disciplina civilistica.
Il negozio di permuta disciplinato dall’art. 1552 cod. civ. ha, infatti, per oggetto il reciproco trasferimento della proprietà di cose, o altri diritti, da un contraente all’altro, mentre la permuta rilevante ai fini Iva si estende, oltre agli scambi di cosa con cosa e di diritto con diritto, anche agli scambi di beni e servizi e di servizi con altri servizi.
Il fatto che all’esecuzione di una prestazione di servizi corrisponda l’impegno ad eseguire una prestazione di servizi non è d’ostacolo alla configurazione di una operazione permutativa (cfr. Cass. civ. sent. 16.04.2021, n. 10165).
È il risultato traslativo, consistente nell’attribuzione dell’utilità derivante dalla futura prestazione di servizi, ad essere assunto quale termine di scambio con la prestazione di servizi già eseguita, corrispondente al bene presente.
Ciò che è essenziale è che tra le due operazioni sussista un nesso diretto che le colleghi, nesso che esiste quando tra il prestatore ed il destinatario della prestazione di servizi intercorra un rapporto giuridico nell’ambito del quale avvenga uno scambio di reciproche prestazioni ed il compenso ricevuto dal prestatore costituisca il controvalore effettivo del servizio prestato al destinatario.
Come ha spiegato l’Agenzia delle Entrate nella risposta ad interpello che ne occupa, le conclusioni circa la natura corrispettiva di questa fattispecie risultano in linea con gli approdi già raggiunti negli anni passati dalla giurisprudenza unionale, secondo cui, in particolare, “il corrispettivo di una cessione di beni può consistere in una prestazione di servizi e costituirne la base imponibile ai sensi dell’articolo 73 della direttiva IVA, a condizione tuttavia che esista un nesso che colleghi direttamente la cessione di beni e la prestazione di servizi, e che il valore di quest’ultimo possa essere espresso in denaro”.
Lo stesso vale quando una prestazione di servizi è scambiata con un’altra prestazione di servizi, purché tali medesime condizioni siano soddisfatte: i contratti di permuta, nei quali il corrispettivo è per definizione in natura, e le operazioni per le quali il corrispettivo è in denaro sono, dal punto di vista economico e commerciale, due situazioni identiche (Corte di Giustizia UE, sentenza 23 settembre 2013, causa C-283/12).
E ancora, secondo la giurisprudenza nostrana (si veda, Cass. civ. ord. 30.11.2017, n. 28725) la configurabilità di una operazione imponibile ai fini Iva è ravvisabile nel fatto oggettivo del sinallagma tra la riduzione del canone e il pagamento dei lavori di ristrutturazione; “che poi tali lavori abbiano realizzato l’interesse sostanziale del conduttore non incide sullo schema sinallagmatico contrattuale che può essere correttamente configurato come operazione permutativa imponibile iva a norma del suddetto articolo 11.” (si veda Buttus, Commento sub. art. 11, D.P.R. n. 633 del 1972 in Breviaria Iuris - Commentario Breve alle leggi tributarie, Tomo IV “IVA e imposte sui trasferimenti” a cura di Marongiu, Cedam, 2011; Vozza, Le operazioni permutative e le dazioni di pagamento in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, L’imposta sul valore aggiunto diretta da Tesauro, Utet, 2001; Falsitta, L’imposta sul valore aggiunto in Manuale di diritto tributario, parte speciale, Cedam, 2021; Ingrosso, voce “Permuta” in Enciclopedia Giuridica Treccani, Volume XXIII, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1989).
7. Chiarita la possibilità di inglobare tale fattispecie nel novero delle operazioni permutative ai fini Iva, l’Agenzia delle Entrate ha ritenuto, dunque, applicabili nella fattispecie oggetto di interpello le disposizioni di cui all’art. 11, D.P.R. n. 633 del 1972 (considerando “derogata” la disposizione dell’art. 13, comma 2, lett. d) del medesimo decreto in quanto, nel caso di specie, il corrispettivo di entrambe le prestazioni – che nella permuta in genere è assente – era, invece, predeterminato contrattualmente).
Sulla base di ciò, ha considerato che la permuta rilevante ai fini Iva non va intesa come un’unica operazione, ma come più operazioni tra loro indipendenti, anche se assistite dal vincolo di corrispettività; con la conseguenza che le due operazioni, poste in essere dai contraenti che compongono quella complessivamente considerata, vanno sottoposte ad imposizione separatamente ed altrettanto separatamente vanno assoggettate agli obblighi sostanziali e formali ai fini Iva (si vedano nello stesso senso, Cass. civ. ord. 30.01.2020, n. 2147; Cass. civ. ord. 23.09.2019, n. 19930; Cass. civ. ord. 30.11.2017, n. 28723). Ogni cessione o prestazione deve, dunque, essere soggetta alla propria disciplina con riguardo all’imponibilità, al momento impositivo, alla base imponibile e all’aliquota applicabile (Lupi-Giorgi, voce “Imposta sul valore aggiunto (IVA)” in Enciclopedia Giuridica Treccani, Volume XVII, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1989; Stancati, Commento sub art. 13, D.P.R. n. 633 del 1972 in Breviaria Iuris - Commentario Breve alle leggi tributarie, Tomo IV “IVA e imposte sui trasferimenti” a cura di Marongiu, Cedam, 2011; Mencarelli-Scalese-Tinelli, Introduzione allo studio giuridico dell’Imposta sul valore Aggiunto, Giappichelli, 2018; Stancati, La base imponibile e le aliquote in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, L’imposta sul valore aggiunto diretta da Tesauro, Utet, 2001; Vozza, Le operazioni permutative e le dazioni di pagamento in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, L’imposta sul valore aggiunto diretta da Tesauro, Utet, 2001).
8. Tenuto conto di ciò, l’Agenzia delle Entrate ha offerto delucidazioni in ordine al momento in cui sorge l’obbligo per ciascun contraente di emettere la propria fattura.
Richiamandosi alla precedente risoluzione 31.07.2008, n. 331, relativa al momento impositivo della permuta di servizi intercorsa tra un’agenzia pubblicitaria e un’agenzia di viaggi, avente ad oggetto lo scambio di prestazioni pubblicitarie contro “pacchetti turistici”, l’Amministrazione finanziaria ha precisato che, nelle permute di servizi, il momento impositivo è rappresentato per entrambe le prestazioni considerate autonomamente dall’esecuzione della seconda prestazione (i.e. dal pagamento del corrispettivo). Il momento impositivo della seconda prestazione deve essere, tuttavia, inteso come termine ultimo entro il quale entrambi i contraenti possono emettere la rispettiva fattura a fronte delle prestazioni rese in permuta, senza quindi impedire a colui che ha effettuato per primo la prestazione di emettere la fattura in via anticipata (si vedano al riguardo la succitata risoluzione 31.07.2008, n. 331, nonché la precedente risoluzione 26.5.2000, n. 75).
Deve ritenersi, infatti, che l’autonoma rilevanza delle singole prestazioni che compongono la permuta implica che l’emissione della fattura non sia necessariamente contestuale (siccome distintamente collegata sul piano temporale) all’erogazione del servizio ed alla consegna del bene.
Il contraente che rende per primo il servizio non è obbligato all’emissione della propria fattura in quanto, non avendo ancora ricevuto il servizio scambiato, non ne ha ottenuto il pagamento, che costituisce momento impositivo per le prestazioni di servizi.
9. L’Agenzia delle Entrate ha, perciò, concluso che il proprietario dell’immobile deve fatturare con Iva al conduttore l’intero importo del canone mensile di locazione originariamente pattuito (dunque il canone “lordo”).
Entro il momento di ricezione della fattura, il conduttore è tenuto a fatturare il vantaggio recato al locatore per i lavori di ristrutturazione eseguiti (applicando, il regime Iva previsto per tale tipologia di lavori). Questo vantaggio è quantificabile nella differenza tra gli importi dei canoni lordo e netto.
Quanto alla fatturazione del canone “lordo”, in luogo del canone “netto”, peraltro, l’Agenzia delle Entrate ha rilevato che nel contratto di locazione le parti hanno inteso precisare che le opere di ristrutturazione eseguite dal conduttore “saranno, senza eccezione alcuna, a carico del locatore al quale rimarranno in proprietà”.
Dunque, ragionevolmente l’Agenzia ha concluso per la ricorrenza ai fini Iva della permuta, la quale, come abbiamo avuto modo di vedere, se dal punto di vista civilistico è un contratto unico (in cui le parti si obbligano reciprocamente al trasferimento della proprietà di beni o di altri diritti o ad effettuare prestazioni), ai fini Iva è regolata dal principio della tassazione separata delle due operazioni (a cui va, quindi, applicata atomisticamente l’Iva), nonché per la rilevanza del canone di locazione per l’intero importo in capo al locatore.