argomento: IVA - Giurisprudenza
La Corte di Giustizia dell’Unione europea torna a pronunciarsi contro le prassi delle Amministrazioni nazionali volte a limitare il diritto alla detrazione dell’IVA da parte dell’acquirente coinvolto in un’operazione apparentemente elusiva. Nel richiamare le garanzie procedurali e processuali poste a tutela del contribuente in buona fede, tra le quali la corretta ripartizione dell’onere probatorio, i giudici europei assolvono - ancora una volta - al difficile compito di mantenere l’equilibrio tra la lotta all’elusione fiscale e la salvaguardia del principio di neutralità fiscale, presidiato dall’istituto della detrazione. La distribuzione dell’onere probatorio affermata dalla sentenza in oggetto suscita nuove riflessioni, alla luce della recente riforma del processo tributario introdotta in Italia dalla legge 130 del 2022.
» visualizza: il documento (Corte di Giustizia dell’Unione europea, sent. 15 settembre 2022, causa C-227/21 )PAROLE CHIAVE: imposta sul valore aggiunto - detrazione - principio di neutralità - onere della prova - contraddittorio endoprocedimentale
di Stefania Scarascia Mugnozza
In occasione della presentazione, da parte della HA.EN., di una richiesta di rimborso dell’eccedenza di IVA risultante dalla detrazione, l’Amministrazione lituana si soffermava sulle circostanze dell’omesso versamento dell’IVA all’erario da parte del venditore. Si riteneva che la società richiedente fosse a conoscenza, o quantomeno avrebbe dovuto esserlo, delle difficoltà finanziarie della sua controparte, e che pertanto, concludendo nonostante tutto la compravendita dell’immobile, essa commetteva un abuso di diritto. Alla luce di tanto, l’Amministrazione tributaria negava alla HA.EN. il diritto di detrarre tale IVA a monte.
La società impugnava tale decisione instaurando un complesso procedimento che si snodava in ben quattro gradi di giudizio. Giunti al quinto, il giudice adito (la Corte amministrativa suprema di Lituania) disponeva il rinvio dinanzi alla Corte di Giustizia europea, chiedendo se l’articolo 168, lettera a), della direttiva IVA, dovesse essere interpretato nel senso che esso osta a una prassi nazionale consistente nel negare all’acquirente il diritto di detrarre l’IVA assolta a monte, per il solo fatto che questi sapeva o avrebbe dovuto sapere che il venditore si trovava in difficoltà finanziarie, e che tale circostanza poteva comportare la conseguenza che il venditore medesimo non avrebbe versato o non sarebbe stato in grado di versare l’IVA all’erario.
Nella pronuncia in commento, i giudici europei hanno dichiarato con fermezza l’incompatibilità della tesi sostenuta dall’Amministrazione lituana con la direttiva IVA. Nello specifico, ferma restando la prioritaria importanza del contrasto all’elusione e all’evasione fiscale, la Corte osserva che: a) è irrilevante, ai fini del diritto del soggetto passivo di detrarre l’IVA pagata a monte, stabilire se il fornitore dei beni abbia versato o meno l’IVA dovuta su operazioni di vendita all’erario (punto 26); b) spetta alle autorità fiscali dimostrare che il soggetto passivo ha commesso una frode o un abuso di diritto, o sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si iscriveva in una frode (punto 28); c) laddove il soggetto passivo abbia debitamente adempiuto ai propri obblighi dichiarativi in materia di IVA, il mero omesso versamento dell’IVA debitamente dichiarata non può, indipendentemente dal carattere intenzionale o meno di una siffatta omissione, costituire una frode (punto 32).
La detrazione dell’IVA assolta a monte, come è noto, mira a sollevare i soggetti passivi dal peso economico del tributo: l’esercizio della detrazione consente agli operatori economici di recuperare la frazione di imposta corrisposta all’erario nella precedente fase del ciclo produttivo o distributivo, ottenendo cioè l’esatta compensazione tra imposta “a debito” e imposta “a credito”. In questo senso, se vista dalla prospettiva dei suddetti operatori, la natura propria dell’IVA è equiparabile a quella di una “mera partita di giro”, secondo un meccanismo in cui l’onere fiscale grava esclusivamente sul patrimonio del consumatore finale (v. COMELLI, I principi di neutralità fiscale e proporzionalità ai fini della disciplina dell’IVA europea e nazionale: dagli studi di settore agli indici sintetici di affidabilità fiscale, in Dir. e Prat. Trib., 2019, 3, 1063 e ss.; ID., Iva comunitaria e iva nazionale. Contributo alla teoria generale dell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 2000, 302 e ss.; BASILAVECCHIA, La neutralità dell’IVA, tra effettività e cautele, in Rass. trib., 2016, 901). La peculiare struttura dell’IVA consente altresì di individuare con esattezza il soggetto che manifesta la capacità contributiva incisa dal tributo: come è noto, una delle caratteristiche dell’obbligazione tributaria propriamente detta è la definitività del depauperamento patrimoniale subito dal soggetto inciso e, conseguentemente, dell’acquisizione dell’imposta da parte dell’erario. Come si è visto, attraverso la detrazione gli operatori economici ottengono la restituzione di quanto precedentemente versato, il che rende l’esborso sopportato da costoro meramente temporaneo. Ne discende che il contribuente di fatto nell’IVA non è l’operatore economico, ma bensì il consumatore finale, ancorché non onerato dall’adempimento degli obblighi formali connessi all’attuazione del tributo (v. SALVINI, Rivalsa, detrazione e capacità contributiva nell’imposta sul valore aggiunto, in Riv. dir. trib., 1993, I, 1297; ID., La detrazione nella sesta Direttiva e nell’ordinamento interno: principi generali, in AA.VV., Studi in onore di Victor Uckmar, Padova, 1997, II, 1046).
Il corretto esercizio della detrazione - e del connesso obbligo di rivalsa - è funzionale all’attuazione del principio di neutralità fiscale, che sovrintende il funzionamento complessivo e l’esistenza stessa dell’imposta sul valore aggiunto (v. ex multis CGUE, sentenza 8 maggio 2019, En.Sa., causa C-712/17, punto 30; Id., sentenza 29 ottobre 2009, NCC Construction Danmark, causa C-174/08, punto 27; Id., sentenza 22 dicembre 2010, RBS Deutschland Holdings, causa C-277/09, punto 38). Il significato del principio è reso evidente nel Preambolo della direttiva 2006/112/CE, laddove la neutralità dell’IVA è posta in stretta connessione con la disciplina della concorrenza nel mercato unico: si afferma, infatti, che lo scopo del sistema comune dell’IVA sia giungere alla neutralità dell’imposta ai fini della concorrenza “nel senso che, nel territorio di ciascuno Stato membro, sui beni e sui servizi di uno stesso tipo gravi lo stesso carico fiscale, a prescindere dalla lunghezza del circuito di produzione e di distribuzione” (Preambolo, punto 7). In definitiva, si mira a garantire che l’applicazione di un tributo sui consumi non si traduca in un fattore di distorsione degli scambi commerciali, allo scopo di preservare il libero dispiegamento della concorrenza e, dunque, la sopravvivenza del mercato istituito con il Trattato di Roma. Al tempo stesso, l’armonizzazione dell’imposta è intesa a evitare il rischio di un uso protezionistico della stessa da parte degli Stati membri (v. BORIA, Diritto tributario europeo, Milano, 2017, 349 e ss.; AMATUCCI, Problemi interpretativi della Sesta Direttiva e stato di armonizzazione dell’IVA in ambito comunitario, in Riv. Dir. Trib. Int., 2007, 3, 157 e ss.).
Quanto premesso consente di individuare agevolmente la ratio degli interventi della giurisprudenza europea a presidio dell’esercizio della detrazione. In linea di principio, la Corte stabilisce che la detrazione dell’imposta debba essere accordata qualora gli obblighi sostanziali siano soddisfatti, anche se taluni obblighi formali – intesi come gli oneri contabili, di fatturazione e di dichiarazione periodica - siano stati omessi dai soggetti passivi (CGUE, sentenza 8 maggio 2008, Ecotrade, cause riunite C-95/07 e C-96/07, punto 63, relativamente al regime dell’inversione contabile). Con specifico riferimento alle fattispecie di frode fiscale e abuso del diritto, è interessante notare come la Corte europea sancisca il divieto assoluto di avvalersi del diritto a detrarre l’IVA se relativa a operazioni fraudolente finalizzate alla sottrazione dall’obbligo impositivo (CGUE, sentenza 13 dicembre 1989, Genius Holding, causa C-342/87); tuttavia, tale divieto coesiste con un generale principio di inammissibilità delle presunzioni di frode fiscale, in forza del quale è precluso alle Amministrazioni finanziarie il potere di accertare la natura fraudolenta, elusiva o evasiva di un’operazione in base a criteri generali predeterminati, essendo necessario un esame concreto dell’operazione imponibile nel complesso (CGUE, sentenza 17 luglio 1997, Leur Bloem, causa C-28/95). Inoltre, i giudici europei hanno stabilito che la sussistenza di una frode IVA nella catena di operazioni imponibili non può compromettere il diritto di detrazione spettante al soggetto passivo ignaro o in buona fede (CGUE, sentenza 12 gennaio 2006, Optigen, causa C-354/03, punto 52), e che gli operatori che adottano tutte le cautele necessarie ad assicurare la liceità dell’operazione secondo un parametro di ragionevolezza “devono poter fare affidamento sulla liceità di tali operazioni senza rischiare di perdere il proprio diritto di detrazione” (CGUE, Sentenza 6 luglio 2006, Kittel, causa C-439/04, punto 51; v. TRAVERSA, La protezione dei diritti dei contribuenti nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, in Dir. e Prat. Trib. Int., 2016, 4, 1365). È opportuno sottolineare che tale impostazione, ormai ritenuta consolidata, costituisce un’evoluzione rispetto all’approccio adottato nella sentenza Halifax (CGUE, 21 febbraio 2006, causa C-55/02), che verteva sulla detraibilità dell’IVA assolta nell’ambito di operazioni abusive o fraudolente. In tale circostanza, l’indagine dei giudici europei si è incentrata sulla nozione di comportamento abusivo, stabilendo che l’elusività dell’operazione preclude l’esercizio del diritto alla detrazione, senza riconoscere alcuna rilevanza allo stato soggettivo del contribuente.
Quanto alla giurisprudenza nazionale in materia, si rileva che la posizione della Suprema Corte di Cassazione ha attraversato diversi cambiamenti, adeguandosi solo di recente all’orientamento della Corte di Giustizia.
In un primo momento, è prevalsa l’opinione in base alla quale l’omesso versamento dell’IVA da parte del cedente precludesse tout court il diritto alla detrazione del cessionario, a prescindere dal suo stato soggettivo (Cass., Sez. Trib., 4 novembre 2002, n. 15374; Id., Sez. V, 5 giugno 2003, n. 8959; Id., Sez. V, 26 ottobre 2007, n. 22555).
Il revirement è giunto nel 2014: con numerose sentenze coeve (Cass., sent. 2 aprile 2014, n. 7650; Id., 17 giugno 2014, n. 13787; Id., sentt. 18 giugno 2014, n. 13800 e n. 13806; Id., 16 luglio 2014, n. 16226), la Corte di legittimità ha recepito le indicazioni dei giudici europei, testimoniando di perseguire l’intento di garantire la neutralità dell’imposta tutelando, al contempo, la certezza del diritto e la posizione dei contribuenti diligenti e in buona fede coinvolti in operazioni fraudolente o elusive. Alla luce di tale orientamento, dunque, la scientia fraudis del committente/cessionario rileva solo se questi, con l’ordinaria diligenza, poteva comprendere l’illiceità delle operazioni poste in essere da altri soggetti (v. ARMELLA-MIRARCHI, Detraibilità IVA risultante da fatture soggettivamente inesistenti se c’è buona fede, in L’IVA, 2015, 4, 49).
Tali decisioni appaiono basate, oltre che sulla tutela dell’affidamento del contribuente onesto, anche sui canoni di ragionevolezza e di proporzionalità: sarebbe forse eccessivo negare la detrazione a un contribuente coinvolto in una catena di operazioni imponibili, qualora la cessione o la prestazione si siano concluse regolarmente, i compensi siano stati versati e gli obblighi formali siano stati rispettati (v. GREGGI, Frodi fiscali e neutralità del tributo nella disciplina dell’IVA, in Dir. e Prat. Trib., 2016, 1, 121; sulla irrilevanza dell’avvenuto versamento del corrispettivo e della ricezione della merce ai fini della detraibilità dell’IVA, v. Cass., Sez. Trib., 24 luglio 2009, n. 17377; Id., 14 dicembre 2012, n. 23074).
In una delle più recenti sentenze sulla detraibilità dell’IVA, la Suprema Corte ha statuito che è legittimo l’esercizio della detrazione anche qualora il pagamento dell’imposta relativa al bene o servizio acquistato non sia avvenuto; a tale scopo, è sufficiente anche la sola emissione della fattura, che integra un’autonoma fattispecie di esigibilità dell’imposta (Cass., Sez. Trib., sentenza 11 marzo 2020, n. 6794). La decisione si basa su una puntuale interpretazione del combinato disposto degli artt. 6, 19 e 21, d.P.R. 633/1972, ai sensi dei quali il diritto alla detrazione sorge nel momento in cui l’imposta diviene esigibile, ossia quando l’operazione si considera effettuata; come è noto, però, tale momento può anche coincidere con la data dell’emissione della fattura, nei casi ex comma 4 del citato art. 6 (v. FRANSONI, Il momento impositivo nell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 2019). Naturalmente, il riconoscimento del diritto alla detrazione presuppone che siano accertate l’esistenza e la regolarità delle operazioni fatturate; tuttavia, la pronuncia non è priva di rilevanza, nella misura in cui sottolinea che l’esigenza di garantire la neutralità dell’imposta consente anche, a determinate condizioni, di prescindere dal pagamento del corrispettivo.
La sentenza in commento, dunque, non si discosta dagli approdi giurisprudenziali evidenziati. La Corte di Giustizia ribadisce l’intento di cristallizzare il diritto alla detrazione dell’IVA a monte, riconosciuto a tutti gli operatori del mercato unico, ancorché in circostanze anomale quali l’omesso versamento dell’IVA a valle, ovvero la presenza di elementi elusivi nel ciclo produttivo o distributivo in cui l’operazione imponibile si inserisce. Peraltro, osservano i giudici europei, nel caso di specie non risultavano integrati gli elementi costitutivi dell’abuso del diritto, né della frode fiscale, dal momento che la vendita era stata effettivamente conclusa; “a maggior ragione”, dunque, l’Amministrazione finanziaria non può “addebitare all’acquirente il fatto che egli sapeva o avrebbe dovuto sapere che, acquistando tale bene, partecipava a un’operazione che si iscriveva in una frode in materia di IVA” (punto 33).
Nello specifico, l’argomento è stato affrontato e risolto dalla Corte di Giustizia con diverse pronunce, tutte unanimi nell’affermare che la dimostrazione della conoscenza o conoscibilità del fatto elusivo o fraudolento gravi esclusivamente sull’Amministrazione (CGUE, sentenza 6 dicembre 2012, Bonik, causa C-285/11; Id., sentenza 21 giugno 2012, Mahageben Kft et David, cause riunite C-80/11 e C-142/11, punti 60-61; Id., sentenza 31 gennaio 2013, Story trans, causa C-642/11, punto 49; Id., ord. 6 febbraio 2014, Jagiello, causa C-33/13, punti 38-39; Id., sentenza 22 ottobre 2015, Ppuh, causa C-277/14, punto 50; Id., sentenza 11 novembre 2021, Ferimet, causa C‑281/20, punto 50). La pronuncia in commento ribadisce tale orientamento, sottolineando che il diniego del diritto alla detrazione “costituisce un’eccezione” all’applicazione del fondamentale principio di neutralità fiscale (punto 28); quanto al significato da attribuire alla conoscenza delle difficoltà finanziarie in cui versa il venditore, i giudici stabiliscono altresì che l’acquirente non possa desumerne automaticamente l’intenzione del cedente di non versare l’IVA (punti 38-41), e che, pertanto, sia illegittimo utilizzare tale circostanza per negare il diritto alla detrazione.
Nonostante il consolidatissimo orientamento dell’organo giurisdizionale europeo sul punto, dottrina e giurisprudenza nazionale si sono a lungo interrogate sulle circostanze che influiscono sul riparto dell’onere probatorio in materia di conoscenza della frode fiscale.
Per un certo periodo, è prevalso l’orientamento in base al quale la dimostrazione dello stato soggettivo incolpevole del contribuente gravi esclusivamente su quest’ultimo: l’insorgenza di tale onere è stata ravvisata, specificamente, nei casi di inesistenza soggettiva, ossia laddove l’operazione imponibile sia stata posta in essere da soggetti differenti rispetto a quelli rappresentati in fattura (v. GREGGI, cit., 122 e ss.). In tali situazioni, infatti, la detrazione dell’IVA sarebbe preclusa poiché versata a un soggetto non legittimato a esercitare la rivalsa, né assoggettato all’obbligo di pagamento dell’imposta medesima; quanto alle ipotesi di fatture oggettivamente inesistenti, la mancata realizzazione dell’operazione fatturata comporta l’impossibilità di provare, rectius, configurare la buona fede del contribuente.
Tale impostazione è stata condivisa dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, che, interpellata proprio in materia di detraibilità dell’IVA in caso di operazioni soggettivamente inesistenti, articolava il ragionamento su due punti essenziali: premessa la possibilità di avvalersi di tale diritto a fronte della mancata conoscenza o conoscibilità della frode, il contribuente doveva comunque dimostrare che, “a prescindere dal pagamento dell’imposta, non sa e non può sapere di partecipare a una operazione che si inscrive in una frode all’imposta” (Cass., sentenza 11 aprile 2011, n. 8132, 18). In quest’ottica, dunque, in presenza di operazioni soggettivamente inesistenti a nulla varrebbe l’effettivo versamento del tributo: il contribuente che intende avvalersi della detrazione avrebbe infatti “l’onere di conoscere che il venditore-prestatore è autore di un’operazione in frode all’IVA e, se vuole vedersi riconosciuto il diritto di detrarre l’IVA, ha l’onere di dimostrare che è incolpevole la sua ignoranza di aver partecipato ad una operazione in frode all’IVA” (Cass., sent. 8132/11, cit., 18).
Si trattava di un’interpretazione certamente adeguata a scongiurare il rischio di danno erariale e coerente con il principio di vicinanza della prova, diffusamente applicato dalla giurisprudenza nazionale (tra le più recenti ed ex multis Cass., sez. V, 20 maggio 2021, n. 13850; Id., 21 gennaio 2021, n. 1232), ma evidentemente restrittiva, discutibile sotto il profilo della neutralità dell’imposta, nonché problematica per il contribuente sottoposto all’obbligo di produrre una prova (verosimilmente) negativa. Nonostante le criticità, la Corte di legittimità ha ribadito il proprio orientamento in ripetute occasioni (v. Cass., sent. 19 ottobre 2012 n. 18009; Id., 16 maggio 2012, n. 7672; Id., sent. 14 dicembre 2012, n. 23074; Id., sent. 13 marzo 2013, n. 6229; Id., sent. 2 aprile 2014, n. 7650), sino al recente revirement con cui si è discostata radicalmente dagli arresti menzionati.
Con le due ordinanze n. 25545 e n. 25538, entrambe depositate il 27 ottobre 2017, la Suprema Corte ha recepito pienamente le indicazioni provenienti dai giudici europei. In tali occasioni, è stato infatti dichiarato – ripercorrendo pedissequamente la citata sentenza Ppuh - che “spetta all’Ufficio fornire la prova che l’operazione commerciale, oggetto della fattura, non è mai stata posta in essere, ovvero non è stata posta in essere tra i soggetti indicati nella fattura, indicando gli elementi anche indiziari sui quali si fonda la contestazione anche in merito alla conoscenza ovvero alla conoscibilità della fittizietà delle operazioni da parte del cessionario/committente che richiede la detrazione”. Il cambiamento di rotta dei giudici di legittimità è stato successivamente ribadito da un corposo numero di pronunce (ex multis, Cass., sentenza 24 aprile 2018, n. 10040; Id., ordinanze 20 luglio 2020, n. 15369, e 12 ottobre 2021, n. 27745; Id., ord. 16 febbraio 2022, n. 5059), inducendo ad auspicare che la questione sia ormai definitivamente risolta.
In sostanza, anche sul riparto della prova nella fattispecie in esame i giudici di legittimità hanno finito per accogliere la tesi sostenuta dalla Corte europea. Tale interpretazione aggrava senz’altro gli oneri procedimentali, prima ancora che processuali, incombenti sull’Amministrazione finanziaria, ma appare del tutto condivisibile se analizzata attraverso il filtro dell’art. 2697 c.c. Come si è visto, la consapevolezza – ovvero la colpevole ignoranza - del soggetto passivo costituisce lo spartiacque del riconoscimento del diritto alla detrazione; ne discende che la prova dello stato soggettivo, poiché idonea a precludere la detrazione stessa, appartiene a pieno titolo alla categoria dei fatti che costituiscono il fondamento della pretesa tributaria. Pertanto, sarebbe illegittimo porla a carico di una parte diversa dal Fisco.
Si può dunque concludere che, con la pronuncia in commento, la Corte di Giustizia europea si mantiene coerente con il filone giurisprudenziale menzionato in precedenza (v. par. 3), ampliandone i confini: non è consentito presumere la frode fiscale, né può darsi per scontata la conoscenza o la conoscibilità di essa da parte del contribuente, la cui scientia fraudis va provata dall’Ufficio che si oppone all’esercizio del diritto alla detrazione.
È noto che, in seguito al superamento della presunzione di legittimità degli atti amministrativi (Cass., sent. 23 maggio 1979, n. 2990), grava sull’Amministrazione finanziaria la prova dei fatti che costituiscono il fondamento della sua pretesa. Sulla scorta di tale affermazione, infatti, il riparto dell’onere probatorio tra le parti del giudizio è regolato dal principio generale ex art. 2697, c.c., che pone in capo all’Ufficio procedente l’onere di dimostrare i fatti modificativi, impeditivi o estintivi della pretesa. Tuttavia, la carenza di esplicite indicazioni nell’originario impianto normativo del processo tributario aveva rimesso la definizione della questione all’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale. Sul punto, era emerso un orientamento incline a ravvisare un principio generale per il quale “la pubblica amministrazione non può confezionare alcun atto senza aver procurato a sé stessa la prova dei fatti che determinano la sua potestà di dar vita a quell’atto”; tale dottrina esigeva cioè un irrigidimento degli oneri incombenti sull’Ufficio, corrispondente all’acquisizione della prova della fondatezza della pretesa sin dalla fase procedimentale (ALLORIO, Diritto processuale tributario, Torino, 1969, 393). Altra dottrina rilevava, altresì, come tale previsione trovasse puntuale riscontro in talune specifiche disposizioni in materia di IVA, quali l’art. 56, d.P.R. 633/72 (BATISTONI FERRARA-BELLÈ, Diritto tributario processuale, Milano, 2020, 101-102).
In ogni caso, la mancanza di una regola espressa sulla ripartizione dell’onere probatorio all’interno del processo tributario non impediva di derogare al principio ex art. 2697, c.c.: ad esempio, nelle liti in materia di transfer pricing l’Amministrazione ha fatto ampio ricorso, con l’avallo della giurisprudenza, al principio di vicinanza della prova, per effetto del quale l’onere probatorio è traslato dalla parte onerata ex art. 2697, c.c. all’altra, in ragione della sua “prossimità” alle fonti di prova. In simili casi, la prova richiesta all’Amministrazione era limitata all’esistenza di transazioni tra imprese collegate ad un prezzo prima facie inferiore a quello normale, mentre incombeva sul contribuente la dimostrazione che la transazione controversa fosse stata assoggettata a valori di mercato normali (v. VANZ, Accertamenti sul transfer pricing e onere della prova, in Riv. dir. trib., supplemento online, 2021; MARCHESELLI, Onere della prova e diritto tributario: una catena di errori pericolosi e un case study in materia di transfer pricing, in Riv. dir. trib., supplemento online, 2020; DELLA VALLE, Oggetto e onere della prova nelle rettifiche da “transfer price”, in GT – Riv. giur. trib., 2013, 10, 772).
La riforma del 2022 non ha mancato di soffermarsi sulla questione. Nel corpo dell’articolo 7, d.lgs. 546/92, è stato innestato il nuovo comma 5-bis, che nel primo periodo assegna all’Amministrazione il compito di provare in giudizio le violazioni contestate e, nel prosieguo, definisce l’oggetto della decisione del giudice e ripartisce l’onere probatorio nello specifico caso delle liti da rimborso. Nei primissimi mesi successivi alla sua introduzione, la portata innovativa della norma è stata oggetto di discussione tra chi la definiva una vera e propria “rivoluzione copernicana” (v. GLENDI, L’istruttoria del processo tributario riformato. Una rivoluzione copernicana!”, in IPSOA Quotidiano, 24 settembre 2022), e chi, invece, sottolineava la sostanziale coincidenza tra il testo della disposizione e la regola enunciata dall’art. 2697, c.c. (v. da ultimo Cass., Sez. V, ord. 27 ottobre 2022, n. 31878: “la nuova formulazione legislativa… non stabilisce un onere probatorio diverso o più gravoso rispetto ai principi già vigenti in materia”).
Pur non essendo possibile, in tale sede, approfondire i singoli profili critici del comma 5-bis, la novella non appare priva di effetti sul piano della motivazione degli atti impositivi. Invero, il rigore imposto al giudice tributario nel ponderare gli elementi a sostegno della pretesa fiscale pare richiamare gli uffici finanziari a un esercizio più meticoloso dei rispettivi poteri accertativi. Nello specifico, attraverso il nuovo comma 5-bis il legislatore vincola strettamente le Corti di Giustizia tributaria alla valutazione delle prove fornite dall’Amministrazione, che comporta inesorabilmente l’annullamento degli atti impositivi nei casi di mancanza, contraddittorietà o insufficienza delle prove stesse; dal momento che, come è noto, l’oggetto del processo tributario è costituito dalla legittimità dell’atto impugnato, è agevole ritenere che gli uffici procedenti saranno indotti a rafforzarne il contenuto. Pertanto, il legislatore della riforma pare essersi pronunciato nel solco dell’orientamento dottrinale precedentemente menzionato: l’acquisizione degli elementi che provano concretamente la sussistenza delle violazioni contestate non sarebbe più rinviabile alla fase processuale (o perlomeno, non senza conseguenze), poiché la novella imporrebbe all’Amministrazione finanziaria l’onere di rintracciarli nel corso del procedimento, con l’obiettivo di confezionare un atto fondato su una richiesta già dimostrata. L’onere motivazionale degli atti con cui gli uffici tributari estrinsecano la propria pretesa risulterebbe dunque arricchito, ossia esteso sino a ricomprendere i singoli documenti, fatti e circostanze che provano le ragioni del Fisco.
È opportuno evidenziare che tale interpretazione ha trovato riscontro nelle prime sentenze di merito emesse in seguito all’entrata in vigore della riforma: la Corte di Giustizia Tributaria di I grado di Siracusa, interpellata sul disconoscimento della deducibilità dal reddito d’impresa di alcuni costi della società ricorrente per carenza di documentazione, ha ravvisato nel citato comma 5-bis una nuova regola processuale, dotata di valenza autonoma rispetto all’art. 2697, c.c.; nello specifico, per effetto di tale regola “è inequivocabile che sia l’Amministrazione finanziaria che è tenuta a provare le contestazioni afferenti a tutte le tipologie di violazioni, a prescindere che si controverta di maggiori ricavi o minori costi nel regime d’impresa” (sent. n. 3856 del 23 novembre 2022,).
In tale contesto, l’orientamento espresso dalla sentenza in analisi parrebbe aggravare il compito degli uffici finanziari: già dalla fase procedimentale sorgerebbe l’obbligo, per l’Amministrazione procedente, di ottenere la prova della conoscenza o della conoscibilità dell’elusività dell’operazione da parte del soggetto passivo che intende esercitare il proprio diritto alla detrazione dell’IVA, ed eventualmente anche di allegarla all’atto impositivo. Invero, deve darsi atto che tale compito risulterebbe significativamente alleggerito dal potere di avvalersi di prove di natura presuntiva (“l’Amministrazione stessa ha l’onere di provare che l’operazione commerciale oggetto della fattura non è stata posta in essere, o non lo è stata tra i soggetti che figurano nella fattura, o che tale documento sottende un’operazione fraudolenta cui il cessionario sia partecipe. E non può revocarsi in dubbio che tale prova possa essere fornita anche mediante presunzioni”; Cass., sentenza 19 ottobre 2007, n. 21953; Id., 6 giugno 2012, n. 9108; Id., 19 settembre 2012, n. 15741; Id., 20 dicembre 2012, n. 23560), a fronte della mancanza di un’analoga possibilità in capo al contribuente interessato a superare la preclusione alla detraibilità dell’imposta.
Al di là di ciò, è comunque verosimile che la necessità di emettere atti impositivi dal contenuto “rafforzato” potrebbe spianare la strada verso il definitivo riconoscimento di un generale obbligo di svolgimento del contraddittorio endoprocedimentale. È ben noto che, nonostante le sollecitazioni provenienti dalla Corte di Giustizia (CGUE, sentenza 18 dicembre 2008, Sopropé, causa C-349/07; Id., sentenza 3 luglio 2014, Kamino, cause riunite C-129 e 130/13) e il vivace dibattito che tuttora impegna i giudici di merito, la Suprema Corte neghi fermamente l’immanenza di tale principio all’interno del nostro ordinamento, relegando il contraddittorio endoprocedimentale alle sole ipotesi specificamente individuate dal legislatore (Cass., Sez. Un., sentenza 8 dicembre 2015, n. 24823). La rigidità di tale interpretazione non è stata incrinata nemmeno dall’introduzione dell’art. 5-ter all’interno del d.lgs. 218/97; eppure, considerata la natura strettamente personale e soggettiva della fattispecie in commento, il confronto preventivo tra Fisco e contribuente rappresenta lo strumento privilegiato per acquisirne la prova. Forse, dunque, esigenze di ordine strettamente pratico potrebbero riuscire dove né il legislatore né la giurisprudenza europea sono arrivate.
La sentenza offre, altresì, lo spunto per una riflessione sul contenuto del nuovo comma 5-bis e sulla sua attuazione all’interno del processo tributario. La norma, il cui significato è tuttora oggetto di dibattito, pare in realtà suscettibile di impattare già in fase procedimentale, nella misura in cui sembra imporre agli uffici finanziari di acquisire tutti gli elementi probatori a sostegno della pretesa fiscale, ancor prima di cristallizzarla nell’atto impositivo. Se così è, dal granitico orientamento dei giudici europei ribadito con la sentenza in commento si desume che la prova della conoscenza o conoscibilità dell’elusione da parte del soggetto passivo vada obbligatoriamente ottenuta nel corso del procedimento. La prossima tappa di tale percorso evolutivo potrebbe essere la generalizzazione del contraddittorio endoprocedimentale, che pare costituire lo strumento più idoneo ad acquisire elementi probatori di natura strettamente personale.