argomento: Principi generali e fonti - Giurisprudenza
La sentenza afferma il principio che l’art. 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che esso non osta ad una normativa nazionale, la quale limiti l’applicazione della causa di esclusione dall’applicazione del regime fiscale antielusivo delle società di comodo alle sole società i cui titoli sono negoziati sui mercati regolamentati nazionali, escludendo dall’ambito di applicazione di tale causa di esclusione le altre società, nazionali o estere, i cui titoli non sono negoziati sui mercati regolamentati nazionali, ma che sono controllate da società ed enti quotati su mercati regolamentati esteri. In questo senso, il Giudice Comunitario ribadisce il pieno rispetto, da parte della norma italiana di esclusione dall’applicazione del regime antielusivo selle società di comodo, del principio di uguaglianza o di non discriminazione (art. 18 TFUE) e della libertà fondamentale di stabilimento (art. 49 TFUE), criteri giuridici cardine dell’ordinamento europeo, nel pieno rispetto dell’altrettanto fondamentale principio “antiabuso elusivo” e delle regole di ragionevolezza complessiva.
» visualizza: il documento (Corte di Giustizia UE, cause riunite C-433/21 e C-434/21)PAROLE CHIAVE: libertà di stabilimento - principio di uguaglianza - principio di non discriminazione - regime antielusivo - società di comodo - mercati regolamentati nazionali
di Mario Cermignani
In via preliminare, la Corte di Giustizia precisa che, secondo una costante giurisprudenza, l’art. 18 TFUE (Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea) è destinato ad applicarsi in materia autonoma soltanto in situazioni disciplinate dal diritto dell’Unione per le quali il Trattato FUE non stabilisca regole specifiche di non discriminazione; ciò posto, il principio di non discriminazione (e dunque di uguaglianza) è stato attuato, in materia di diritto di stabilimento, dall’art. 49 TFUE (CGUE sentenza 29 febbraio 1996 C-193/94; CGUE sentenza 5 febbraio 2014 C- 385/12; CGUE ordinanza 22 ottobre 2021 C-6691/20). Ne consegue che, poiché le circostanze di fatto oggetto dei giudizi principali riguardano una società italiana controllata da una società stabilita in un altro Stato membro, l’art. 49 TFUE è la disposizione pertinente al fine di valutare la compatibilità della normativa nazionale di cui trattasi con il diritto dell’Unione (CGUE sentenze 13 novembre 2012 C-35/11 e 3 marzo 2020 C-323/18).
La Corte di Giustizia precisa, in proposito, che l’art. 49 TFUE impone la soppressione delle restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro. Tale libertà comprende, ai sensi dell’art. 54 TFUE, per le società costituite secondo la legislazione di uno Stato membro e aventi la loro sede sociale, la loro amministrazione centrale o la loro sede principale all’interno dell’Unione, il diritto di svolgere la loro attività in altri Stati membri mediante una controllata, una succursale o un’agenzia (CGUE sentenze 21 settembre 1999 C-307/97 e 20 gennaio 2021 C-484/19).
La libertà di stabilimento mira ad assicurare il beneficio dell’uguale trattamento nazionale nello Stato membro ospitante ai cittadini di altri Stati membri e alle società contemplate dall’art. 54 TFUE, e vieta, per quanto concerne le società, qualsiasi discriminazione fondata sul luogo in cui si trova la sede (CGUE sentenze 12 dicembre 2006 C-374/04 e 3 marzo 2020 C-323/18).
A tale proposito, sono vietate non soltanto le discriminazioni palesi basate sul luogo della sede delle società, ma anche qualsiasi forma dissimulata di discriminazione che, attraverso l’applicazione di altri criteri distintivi, conduca di fatto allo stesso risultato ingiustamente discriminatorio (CGUE sentenze 5 febbraio 2014 C-385/12; 3 marzo 2020 C-323/18; 25 febbraio 2021 C-712/19).
La Corte di Giustizia, quindi, procede alla delimitazione dello specifico oggetto del giudizio, affermando che, nel caso di specie, ai sensi dell’art. 30, comma 1, punto 5, della legge n. 724/1994, nella versione applicabile “ratione temporis” ai fatti in discussione nei procedimenti principali, beneficiano della causa di esclusione dell’applicazione del regime fiscale antielusivo delle società di comodo unicamente le “società ed enti i cui titoli sono negoziati in mercati regolamentati italiani”. Pertanto, tenuto conto dell’ambito di applicazione di tale disposizione, si deve constatare che, dalla normativa nazionale controversa nei procedimenti principali, non risulta alcuna disparità di trattamento tra una società detenuta da una società madre quotata in un paese membro dell’Unione Europea diverso dall’Italia (nello specifico la Germania) e una società detenuta da una società madre quotata in Italia; infatti, poiché detta normativa concede il beneficio della causa di esclusione dell’applicazione del regime fiscale antielusivo delle società di comodo, prevista dall’art. 30, comma 1, punto 5, della legge n. 724/1994, unicamente alle società che sono esse stesse quotate sul mercato regolamentato italiano, il fatto che una società sia la controllata di una società madre quotata in Italia oppure all’estero è privo di rilevanza.
Date tali circostanze, secondo il Giudice Comunitario dall’applicazione dell’articolo 30, comma 1, punto 5, della legge n. 724/1994 non può risultare alcuna disparità di trattamento tra una società detenuta da una società madre quotata su un mercato estero e una società detenuta da una società madre quotata sul mercato italiano (le quali possono beneficiare della causa di esclusione in argomento, in condizioni di parità ed uguaglianza, solo se siano esse stesse quotate sul mercato regolamentato italiano, a prescindere dalla specifica situazione delle rispettive società controllanti).
Nel caso di specie, risulta dalla normativa in discussione nei procedimenti principali, che, qualora una società madre sia quotata sul mercato regolamentato italiano, la sua controllata non può beneficiare della causa di esclusione dell’applicazione del regime fiscale antielusivo delle società di comodo, prevista dall’articolo 30, comma 1, punto 5, della legge n. 724/1994, qualora tale controllata non sia essa stessa quotata sul medesimo mercato regolamentato italiano (ponendosi in tal modo in una posizione di assoluta uguaglianza con quella di una società madre quotata su un mercato regolamentato estero in rapporto alla sua controllata che, per beneficiare della causa di esclusione in argomento, deve necessariamente essere quotata sul mercato regolamentato italiano).
La disciplina in questione ha la finalità “pratica” fondamentale di individuare le società per le quali la sproporzione o lo squilibrio rilevante (ed anomalo) tra il valore dei beni patrimoniali di cui la società dispone ed il valore (eccessivamente basso) della produzione economica da esse sviluppato (il valore complessivo di ricavi, incrementi rimanenze e proventi, esclusi quelli straordinari, emergenti dal conto economico, ove prescritto), risulta tale da giustificare la configurazione normativa di una (ragionevole) presunzione di “non operatività” ossia di una situazione in cui la società ha sostanzialmente la funzione di gestire il proprio patrimonio nell'interesse personale dei soci, piuttosto che quella di esercitare un'effettiva attività economica di impresa commerciale o industriale.
Da tale presunzione di “non operatività” scaturisce l'obbligo giuridico per la società di dichiarare, ai fini delle imposte sul reddito, un reddito non inferiore a quello minimo presunto determinato sulla base dei criteri previsti dalla stessa norma di cui all'art. 30 della legge n. 724 del 1994, ed ai fini dell'imposta regionale sulle attività produttive, un valore della produzione netta non inferiore al reddito minimo presunto.
Il quadro normativo generale, nell'impianto di base, appare, nel complesso, costante, sostanzialmente invariato nel corso del tempo e strettamente funzionale al perseguimento di uno scopo antielusivo/antiabusivo, peraltro apertamente “dichiarato” dal legislatore stesso nella versione originaria della norma, oltre che confermato dalla giurisprudenza sull’argomento ed in particolare dalla stessa sentenza della Corte di Giustizia UE in commento, la quale, richiamando espressamente l’ordinanza di rinvio pregiudiziale della Corte di Cassazione italiana, qualifica costantemente (e reiteratamente) il regime giuridico delle società di comodo come “regime fiscale antielusivo”.
Del resto, fin dall'inizio, parte della dottrina ha ricostruito la finalità di fondo (ossia la ragione giuridica giustificativa e, quindi, la “ratio”) antielusiva/antiabusiva della normativa sulle società di comodo come, in un certo senso, convergente con la sua ulteriore ed obiettiva funzione/finalità di rendere economicamente controproducente la costituzione ed il mantenimento delle società in questione (il che si colloca coerentemente all’interno di una più ampia funzione di generale contrasto giuridico al fenomeno abusivo in questione) (da ultimo, VIOTTO, Considerazioni critiche sulla disciplina delle società di comodo, anche alla luce delle recenti aperture della giurisprudenza di legittimità, in Riv. Trim. Dir. Trib. n. 1/2023, p. 157; MICELI, La disciplina delle società di comodo e il rilievo delle scelte imprenditoriali, in Riv. Trim. Dir. Trib., 2020, I, p. 213 ss.; Id., La funzione della disciplina fiscale delle società di comodo, Riv. Dir. Trib., 2018, I, p. 182 ss.; Id., Società di comodo e statuto fiscale dell’impresa, Pisa, 2008; CERMIGNANI, Società di comodo (o “non operative”), Nota ad Ordinanza Cass., Sez. Trib., 21 novembre 2018, n. 4019, in Riv. Trim. Dir. Trib. n. 4/2019, p. 922).
Più nel dettaglio (e con riferimento specifico al fenomeno delle “società di comodo”), il concetto generale di “elusione fiscale” (anche – e soprattutto – alla luce dell'elemento normativo) appare, ictu oculi, strettamente connesso alla fattispecie ed allo schema più generale dell'“abuso del diritto”, inteso nel senso specifico di uso “abnorme”, anomalo/deviato e distorsivo (vale a dire, di uso “non normale”, che va oltre e confligge con i limiti desumibili dai principi giuridici fondamentali dell'ordinamento ed emergenti dalla “ratio”, cioè dalla ragione giuridica, dalla finalità essenziale o fondamento razionale giustificativo, delle norme coinvolte e sostanzialmente “aggirate”) dell'autonomia negoziale privata, dei connessi “diritti soggettivi” (dunque delle pretese, dei poteri e delle facoltà giuridicamente rilevanti, che costituiscono il contenuto logico-prescrittivo di tali diritti soggettivi o “posizioni giuridiche soggettive di vantaggio”) e delle correlate norme giuridiche civilistiche e tributarie, le quali vengono utilizzate e combinate al fine di conseguire un determinato effetto giuridico-economico corrispondente ad un contestuale (ed indebito o illegittimo) risparmio fiscale (reale obiettivo dell'operazione elusiva), che non sarebbe stato possibile realizzare attraverso l'ordinario, corretto/legittimo e non anomalo utilizzo di strumenti giuridici “fisiologici” in rapporto alla situazione concreta (ossia mediante l'adozione degli strumenti normalmente e legittimamente previsti dall'ordinamento per il raggiungimento del medesimo effetto economico-giuridico, nelle medesime condizioni di fatto e di diritto) (cfr. ZIZZO, La clausola generale antiabuso. Tra certezza del diritto ed equità del prelievo, Pisa, 2022; BEGHIN, L’elusione fiscale e il principio del divieto di abuso del diritto, Padova, 2021; CERMIGNANI, Abuso del diritto ed elusione tributaria: profili teorici, connessioni logiche ed evoluzione normativa, in Innovazione e Diritto - Rivista telematica di diritto tributario e dell'economia – Università degli Studi di Napoli Federico II – Facoltà di Giurisprudenza, n. 2/2019).
In questo alveo potrebbe dunque inserirsi anche il fenomeno delle società di comodo, inteso essenzialmente come “abuso” dell'involucro societario e della connessa personalità/soggettività giuridica, a fini esclusivi o prevalenti di “indebito” risparmio fiscale (risparmio fiscale ottenuto applicando in modo abusivo, distorto ed illegittimo le norme giuridiche che regolano l’imposizione tributaria del reddito di impresa in sostituzione delle “naturali” norme giuridiche che regolano l’imposizione tributaria del reddito non derivante dall’attività d’impresa).
La condotta “abusiva” (e, dunque, l'“antigiuridicità” della fattispecie), si articolerebbe, in questo caso, sull'utilizzo “non normale”, in quanto eccedente i limiti “interni” consentiti dall'ordinamento e dalle finalità razionali espresse dalle norme giuridiche di riferimento (sia civilistiche che tributarie), dello strumento contrattuale societario (cioè dello strumento giuridico-negoziale societario e delle norme che lo disciplinano), il quale viene impiegato in modo distorsivo e “deviante” rispetto alle funzioni oggettive ed essenziali assegnate ad esso dal sistema giuridico-economico (funzioni costituite dall’esercizio collettivo di un’effettiva attività imprenditoriale, con connessa e legittima tassazione del relativo reddito d’impresa) ed in modo, quindi, altrettanto abusivo/distorto/deviante in quanto contrastante con i principi generali e fondamentali dell’ordinamento tributario in ordine alla tassazione del reddito imponibile derivante dallo svolgimento di un’attività d’impresa, posto che il fenomeno considerato è in realtà funzionale alla realizzazione di indebiti o illegittimi risparmi di imposta attraverso la distorsiva/abusiva applicazione del regime tributario di tassazione del reddito d’impresa a fattispecie di natura evidentemente non imprenditoriale.
L'art. 30 della legge n. 724 del 1994 (rimasto inalterato nella sua struttura fondamentale) considera di comodo (“non operative”), salvo prova contraria, le società commerciali che conseguono un volume di ricavi, risultanti dal conto economico, inferiore alla somma degli importi risultanti dall'applicazione di una serie di percentuali al valore di determinati elementi iscritti nello stato patrimoniale del bilancio (ossia al valore di determinate articolazioni del capitale investito nella struttura societaria).
Alle società considerate di comodo o “non operative”, viene attribuito presuntivamente un reddito non inferiore alla somma degli importi derivanti dall'applicazione, al valore dei beni patrimoniali posseduti nell'esercizio, di appositi “coefficienti di redditività”. Viene delineata, dunque, in sostanza, una disciplina “antielusiva/antievasiva” ovvero, in ogni caso, una disciplina normativa “antiabuso”, fondata sul presupposto che determinati beni del patrimonio societario (partecipazioni ed altre attività finanziarie, beni immobili e mobili registrati, crediti etc.) sono “oggettivamente” in grado di produrre “frutti” o incrementi di valore economico, ossia reddito, e l'inserimento dei medesimi all'interno di un assetto societario rafforza la presunzione (relativa) di un loro impiego a scopi reddituali (sia pure nell'ambito di un uso distorto/deviato della forma giuridica societaria, la quale viene indirizzata, in maniera anomala, non alle istituzionali finalità imprenditoriali o economico-produttive – che assumono anche un rilievo di tipo latamente “pubblico-collettivo” -, ma a finalità “abusive” di mera gestione economica “statica” del patrimonio societario nell'interesse personale e particolare dei soci, nonché a correlate finalità di indebito/illegittimo risparmio fiscale conseguito mediante l’abusiva/illegittima e distorsiva applicazione delle norme riguardanti l’imposizione tributaria del reddito d’impresa societaria a fattispecie di natura non imprenditoriale). Peraltro, si precisa che la “presunzione”, come criterio logico e fattore di valenza pienamente probatoria se connotato dai requisiti di gravità, precisione e concordanza/convergenza, è il ragionamento logico-giuridico che consente di risalire da un fatto noto ad un fatto ignoto, in base ad una relazione di derivazione causale (e, dunque, anche in base ad una correlazione logica di rilevante verosimiglianza) tra fenomeni reali/oggettivi, incentrata su criteri di normalità o regolarità probabilistica declinati, sul piano giuridico, come parametri di elevata probabilità logica o credibilità razionale.
Vi è ancora da rilevare, con riferimento specifico all’argomento trattato dalla sentenza in commento, che non sono tenuti a presentare la prevista istanza di interpello “disapplicativo” della normativa antielusiva in questione (per “oggettive situazioni” che hanno reso impossibile il conseguimento dei livelli minimi dei ricavi e del reddito presunti normativamente) i soggetti per i quali si verifica una delle cause di esclusione dall’ambito di applicazione giuridica previste dall’art. 30, comma 1, ultimo periodo, della legge n. 724/1994; come chiarito dall’Agenzia delle Entrate (nella circolare n. 5/E del 2 febbraio 2007), tutte la cause di esclusione normativamente previste operano in modo automatico, nel senso che, in loro presenza, i soggetti interessati si considerano fiscalmente “operativi” e non devono quindi presentare l’interpello disapplicativo. In particolare l’art. 30, comma 1, n. 5, della legge n. 724/1994, come modificato ed esteso dalla legge n. 296/2006 con effetto a partire dall’esercizio fiscale in corso al 4 luglio 2006, prevede la specifica causa di esclusione (dall’ambito applicativo del regime delle società di comodo) costituita dalla fattispecie che riguarda le società e gli enti che controllano altre società ed enti i cui titoli sono negoziati in “mercati regolamentati” italiani ed esteri, nonché le stesse società ed enti quotati e le società da essi controllate, anche indirettamente; quindi, a partire dal periodo d’imposta 2006, sono escluse “ipso iure” dal regime giuridico in esame, oltre alle società e agli enti i cui titoli sono negoziati in mercati regolamentati italiani ed esteri, anche quelli (eventualmente non quotati) che controllano tali soggetti e che sono dagli stessi controllati, anche indirettamente (cfr. DODERO – FERRANTI, Società di comodo, Milano, 2008, pp. 81 ss.; VIOTTO Considerazioni critiche sulla disciplina delle società di comodo, anche alla luce delle recenti aperture della giurisprudenza di legittimità, cit.; AA.VV. (a cura di TOSI), Le società di comodo, Padova, 2008).
E’ stato rilevato (Min. Fin. circolare n. 137 del 1997 ed Assonime circolare n. 46 del 1997) che l’esclusione in parola trova presumibilmente ragione giustificativa nelle garanzie che offrono e nei controlli pubblici cui devono sottoporsi i soggetti i cui titoli (anche obbligazionari) sono ammessi alla negoziazione in mercati istituzionalizzati, organizzati, regolati e disciplinati da norme giuridiche cogenti e pervasive.
L’Amministrazione finanziaria ha tradizionalmente interpretato la nozione di “mercati regolamentati” recependo sostanzialmente le corrispondenti definizioni fornite, in passato, nell’ambito della disciplina dell’intermediazione finanziaria. In particolare, l’Agenzia delle Entrate, nella circolare n. 12/E del 2002, ha ribadito che in tale nozione “vanno ricompresi non solo la borsa e il mercato ristretto, ma ogni altro mercato disciplinato da disposizioni normative, ossia tutti i mercati regolamentati di cui al D.lgs. 23 luglio 1996, n. 415 (ora D.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58), nonché quelli di Stati appartenenti all’OCSE, istituiti, organizzati e disciplinati da disposizioni adottate o approvate dalle competenti autorità in base alle leggi in vigore nello Stato in cui detti mercati hanno sede (cfr. circolare del Ministero delle finanze n. 165/E del 24 giugno 1998)”.
Come si può constatare, in riferimento alla causa di esclusione in argomento, il legislatore ha dato seguito alle perplessità della Corte di Cassazione, ampliando espressamente l’ambito applicativo della stessa causa di esclusione, in attuazione coerente di un basilare criterio e principio di uguaglianza (fondato sull’uguale trattamento normativo di casi e situazioni simili in modo giuridicamente e logicamente rilevante e di speculare diverso trattamento normativo di casi e situazioni dissimili in modo giuridicamente e logicamente rilevante), in modo da ricomprendervi, oltre alle società e agli enti i cui titoli sono negoziati in mercati regolamentati italiani ed esteri, anche quelli (eventualmente non quotati) che controllano tali soggetti e che sono dagli stessi controllati, anche indirettamente.
La “ratio” (o ragione e finalità giuridica giustificativa) della norma è, da un lato, costituita dalla necessità di tenere conto delle garanzie offerte dai rilevanti controlli pubblici (formali e sostanziali) connessi alla regolamentazione giuridico-normativa dei mercati finanziari “istituzionalizzati” (controlli ampiamente sufficienti ad escludere in radice la non operatività dei soggetti societari che vi operano), e, dall’altro, è integrata dal fatto che tale causa di esclusione è oggettivamente diretta alla ragionevole eliminazione di un indubitabile ostacolo normativo (la eventuale applicazione della disciplina delle società non operative) al regolare funzionamento dei grandi gruppi societari economico-finanziari quotati e, dunque, all’intero processo di produzione, circolazione ed accumulazione del capitale, nonché di sviluppo complessivo delle forze produttive sociali.
L’art. 18 del TFUE vieta, sul piano generale, “ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità”; tale generale principio di non discriminazione (e, quindi, di uguaglianza) trova specifiche applicazioni nelle varie norme che sanciscono le libertà fondamentali e la Corte di Giustizia UE lo applica autonomamente solo nelle situazioni disciplinate dal diritto comunitario per le quali il Trattato non stabilisca specifici divieti di discriminazione ingiusta ed irragionevole in relazione all’attuazione delle libertà fondamentali.
La normativa di uno Stato membro, che discrimina ingiustamente i soggetti in base alla nazionalità, prevedendo per i non cittadini un trattamento fiscale deteriore rispetto a quello stabilito per i cittadini, è incompatibile con il principio generale di non discriminazione (o, in senso più preciso, di uguaglianza) e, conseguentemente, è incompatibile con il legittimo ed egualitario esercizio delle (più specifiche) libertà fondamentali da parte di tutti i consociati dell’Unione Europea; deve trattarsi di una normativa (ingiustamente discriminatoria) che penalizzi irragionevolmente (nel trattamento giuridico-tributario ossia fiscale) gli operatori di un altro Stato membro dell’Unione rispetto a quelli nazionali, o renda fiscalmente meno vantaggioso per gli operatori nazionali, prestare la propria attività in un altro Stato membro ovvero ancora che ponga restrizioni alla libertà di recarsi in un altro Stato membro per fruire ivi di un servizio.
Sono vietate non solo le discriminazioni palesi in base alla nazionalità, ma anche le discriminazioni dissimulate o indirette, basate su criteri diversi dalla nazionalità, come la residenza; è perciò vietata ogni discriminazione fiscale tra soggetti residenti e non residenti, sia che si tratti di persone fisiche, sia che si tratti di società o altri enti giuridici, perché “i non residenti il più delle volte non sono cittadini dello Stato ove svolgono la loro attività”.
L’art. 49 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea sancisce la libertà (ed il diritto) di stabilimento, in ragione della quale le imprese ed i lavoratori (dipendenti ed autonomi) possono stabilirsi e operare nel territorio di ogni Stato membro alle stesse condizioni giuridiche definite per i residenti (ed i cittadini) dello Stato ospitante.
Appare pertanto utile accennare all’evoluzione del principio di uguaglianza all’interno dello stesso ordinamento europeo, posta la sua rilevanza nella giurisprudenza della Corte di Giustizia comunitaria.
Il Capo III della “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea” riguarda il fondamentale principio di uguaglianza ed il correlato divieto di discriminazione (e dunque anche, in altri e speculari termini, il “diritto” all'uguaglianza di ogni individuo o “soggetto giuridico”); il concetto ed il principio di uguaglianza “formale” consiste nell'uguale trattamento normativo di situazioni simili (o “uguali”) in modo giuridicamente rilevante (ed appartenenti ad una stessa classe logica generale/universale sulla base di determinate caratteristiche comuni rilevanti) e nel diverso e razionale/logico trattamento normativo di situazioni dissimili (o “disuguali”) in modo giuridicamente rilevante (ed appartenenti a diverse classi logiche generali sulla base di determinate caratteristiche non comuni rilevanti).
L'uguaglianza (nucleo logico del concetto di “giustizia”) è un principio ed un concetto di carattere intrinsecamente universale (o generale), che, di per sé, presuppone l'universalità degli ambiti di sua applicazione, interessando, in modo assolutamente paritario/equivalente tutte le situazioni, i soggetti e le fattispecie appartenenti ad una classe logica “aperta” e costituita da tutti gli elementi individuali aventi determinate caratteristiche o “proprietà” comuni e rilevanti; peraltro, essa, come principio giuridico generale, si riferisce segnatamente ad una serie di situazioni ed attributi che attengono allo sviluppo della personalità umana.
Inoltre, per quanto riguarda l'attribuzione dei diritti umani fondamentali, l'uguaglianza è il principio universale che regola la distribuzione ed il conferimento di tali diritti a vantaggio di tutti gli individui appartenenti alla classe logica generale degli “esseri umani” in posizione di assoluta parità ed equivalenza reciproca, senza alcuna arbitraria ed irrazionale discriminazione o distinzione.
In questo senso, l'uguaglianza è il principio cardine che consente la liberazione di ogni essere umano da ogni possibile connotazione e marchio irrazionale di minorità, di inferiorità e di discriminazione (irragionevole ed ingiusta).
I Trattati istitutivi della Comunità e dell'Unione Europea non sanciscono un vero e proprio principio di uguaglianza generale: infatti, in ambito comunitario, l'affermazione del principio di uguaglianza nasce essenzialmente come connessa al corretto funzionamento della struttura economica del mercato comune, cioè come principio che garantisce la parità di condizioni tra i competitori economici ed è diretto ad impedire che discriminazioni irrazionali/irragionevoli (soprattutto fondate sulla nazionalità e/o residenza dei soggetti economici e sulla loro posizione dominante sul mercato) possano distorcere e falsare i meccanismi della libera concorrenza “paritaria” delle diverse imprese sul mercato comune, alterare lo sviluppo delle forze economiche e condizionare in definitiva il libero e corretto funzionamento del mercato europeo nel suo complesso.
In ordine al concetto generale ed universale di uguaglianza e, dunque, in relazione al divieto di discriminazione (irrazionale ed iniqua) riguardante tutti i possibili profili ed ambiti di applicazione, i Trattati pongono solo un “obiettivo programmatico”, avente un'efficacia giuridica vincolante piuttosto ridotta e consistente nell'attribuzione alle istituzioni comunitarie del potere (e non dell’“obbligo”) di “prendere i provvedimenti opportuni” per contrastare ed eliminare le discriminazioni irragionevoli o ingiuste.
Nonostante ciò, la Corte di Giustizia UE, superando la lacuna normativa, ha riconosciuto che il principio generale/universale di uguaglianza è parte fondante dell'ordinamento comunitario, affermando, in varie decisioni, (i) che il divieto di discriminazione che i Trattati fissano espressamente per settori particolari è da considerarsi “l'espressione specifica del principio generale di uguaglianza, che fa parte dei principi fondamentali del diritto comunitario” (CGUE Sentenza Earl De Kerlast 1997); (ii) che il diritto comunitario vieta ogni discriminazione che consista “nell'applicazione di norme diverse a situazioni analoghe oppure nell'applicazione della stessa norma a situazioni diverse” (CGUE Sentenza Racke 1984), concetto che implica l'affermazione del principio di uguaglianza generale come uguale trattamento normativo di situazioni simili/analoghe e di diverso trattamento normativo di situazioni diverse; (iii) che il principio di uguaglianza appartiene a quei principi fondamentali comuni ed universali di cui la Corte assicura l'osservanza, e dunque deve essere garantito anche in assenza di un espresso riferimento contenuto nei Trattati (CGUE Sentenza Defrenne III 1978).
Con l'entrata in vigore del nuovo Trattato istitutivo dell'Unione e, soprattutto, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, la situazione si sviluppa, si evolve progressivamente e si consolida, con l'introduzione di varie e puntuali previsioni giuridico-normative che si riferiscono al principio di uguaglianza, collocandolo espressamente tra i principi fondamentali e generali dell'ordinamento dell'Unione ed introducendo correlativamente un obbligo giuridico, specifico e vincolante per le istituzioni europee e per gli Stati nazionali, avente ad oggetto la garanzia, la tutela e la realizzazione dello stesso principio/diritto di uguaglianza su un piano generale/universale ed in tutti i rapporti sociali giuridicamente rilevanti.
Le norme giuridiche della Carta dei diritti fondamentali, in altri termini, stabiliscono, con efficacia generale ed astratta, il principio di uguaglianza in senso universale ed onnicomprensivo, e, conseguentemente, definiscono un vero e proprio diritto soggettivo universale di ciascun individuo (o “soggetto di diritto”) all'uguaglianza di trattamento con correlativo obbligo giuridico, altrettanto universale, di rispettare tale diritto, gravante su tutti consociati ed ovviamente su tutte le istituzioni ed i poteri pubblici.
La questione ed il concetto dell'uguaglianza (formale) vengono dunque ricondotti alla loro dimensione universale, che è quella di principio generale che ricomprende il divieto di ogni possibile discriminazione (irrazionale, ingiusta e lesiva della dignità umana o comunque “personale”) ed aspira ad informare di sé l'intero ordinamento giuridico con un'efficacia immediata e diretta.
Il grosso limite della Carta (ed anche dei Trattati UE), sotto questo aspetto, è quello di non prevedere espressamente, accanto al principio generale dell'uguaglianza “formale”, un corrispondente principio generale di uguaglianza “sostanziale”, che consiste nell'obbligo per i poteri pubblici di superare ed abbattere le disuguaglianze economiche e sociali (strutturali/fattuali) esistenti nella società, attraverso un'azione pubblica diretta ad attuare principi di giustizia (re)distributiva delle risorse, delle ricchezze e dei beni sociali secondo criteri di effettiva e sostanziale uguaglianza proporzionale ai diritti fondamentali spettanti a ciascun consociato, in ragione della necessità di riparare o compensare gli svantaggi naturali e sociali esistenti oggettivamente tra classi ed individui.
In questo senso, ad esempio, l'art. 3 della Costituzione italiana afferma (in una prospettiva sicuramente più progressiva) il principio di “uguaglianza sostanziale” (economico-sociale) e, quindi, di giustizia sociale, in termini di obbligo per la Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Il principio generale di uguaglianza sostanziale fornisce evidentemente la base giuridica sufficiente per azioni pubbliche (necessariamente finanziate con le entrate tributarie) dirette a vantaggio di categorie o classi sociali svantaggiate/sfavorite; l'uguaglianza sostanziale, in altri termini, consente la possibilità di quella continua opera di contaminazione e connessione dialettica tra i principi e gli elementi di giustizia commutativa e quelli di giustizia distributiva, che costituisce la modalità basilare di avanzamento delle politiche sociali dirette a realizzare condizioni “minime” di parità o equivalenza sostanziale tra individui e classi, necessarie all’equilibrio complessivo dell’intera comunità/collettività sociale organizzata.
Nella fondamentale sentenza 20 febbraio 1979, Cassis de Dijon, C-120/78, la Corte di Giustizia UE ha stabilito che le norme che ostacolano l’esercizio delle libertà sono ammesse “quando siano necessarie per rispondere ad esigenze imperative attinenti, in particolare, all’efficacia dei controlli fiscali, alla protezione della salute pubblica, alla lealtà dei negozi commerciali e alla difesa dei consumatori”. La Corte di Giustizia europea ha riconosciuto che costituiscono regole o principi di ragionevolezza/razionalità idonei ad escludere l’illegittimità o l’antigiuridicità di trattamenti normativi differenziati o discriminatori in senso sfavorevole, ad esempio: 1) l’esigenza di contrastare le frodi e l’elusione fiscale; 2) l’esigenza di preservare l’efficacia dei controlli fiscali; 2) il principio di coerenza dell’ordinamento fiscale nazionale (TESAURO, Istituzioni di Diritto Tributario cit.; BORIA, Il sistema tributario, Torino, 2008; Id., Diritto tributario europeo cit.).
In particolare, una misura fiscale nazionale che restringe o limita la libertà di stabilimento è ragionevolmente giustificabile se concerne le “costruzioni di puro artificio” dirette ad eludere (in modo “abusivo”) la legittima applicazione delle imposte nazionali normalmente dovute e quindi se si tratti di una norma di natura antielusiva funzionale a contrastare le entità giuridiche “artificiose” non dotate di un’effettiva, reale e concreta struttura organizzativa di tipo imprenditoriale e non svolgenti una effettiva attività economico-produttiva, ma aventi un’esclusiva finalità di elusione fiscale (ciò che, nella sostanza, si ravvisa anche nei tratti essenziali del descritto fenomeno delle “società di comodo” o non operative).
Peraltro, la Corte di Giustizia UE deve verificare se una misura (fiscale) discriminatoria o restrittiva delle libertà fondamentali è giustificata (e legittima) anche accertando se essa sia effettivamente e strettamente necessaria al fine di raggiungere un obiettivo d’interesse generale e se non siano adottabili misure meno restrittive o meno lesive: si tratta del principio di “proporzionalità”, in base al quale deve sussistere un rapporto di proporzionalità e di ragionevole adeguatezza tra l’entità (e la “lesività”) della misura discriminatoria o restrittiva e la inevitabile necessità razionale di realizzare un obiettivo di interesse generale o pubblico-collettivo; deve dunque sussistere, in altri termini, un rapporto “proporzionale” di stretta necessità ed idoneità delle misure lesive o restrittive delle libertà fondamentali adottate rispetto al perseguimento di un fine generale di interesse collettivo, quale ad esempio il contrasto all’elusione fiscale, tale per cui le stesse restrizioni alle libertà fondamentali introdotte dagli Stati membri non devono eccedere quanto strettamente necessario al raggiungimento del detto fine di interesse generale.