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G. Giappichelli Editore

10/10/2023 - La cassazione torna ad esprimersi sulla tesi del c.d. “incasso giuridico”: cambio di rotta?

argomento: IRES - Legislazione e prassi

Con l’ordinanza n. 16595 del 12 giugno 2023, la Corte di Cassazione, in contradditorio con quanto avvenuto in passato (da ultimo con l’ordinanza n. 22609 del 19 luglio 2022), si è espressa negativamente sulla tesi del c.d. incasso giuridico, secondo cui sono da assoggettare a tassazione le rinunce dei soci a crediti correlati a redditi tassati per cassa, anche mediante applicazione della ritenuta di imposta.

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PAROLE CHIAVE: incasso giuridico; rinuncia ai crediti da parte dei soci


di Palma Alessia Florio

Con l’ordinanza n. 16595 del 12 giugno 2023, la Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, pronunciandosi sul trattamento fiscale da riservare alle rinunce dei soci a crediti correlati a redditi tassati per cassa, ha giudicato inapplicabile, per la prima volta, la tesi del c.d. “incasso giuridico”. La decisione appare innovativa, in quanto, fino ad oggi, la Suprema Corte si è sempre espressa favorevolmente in merito alla tesi suddetta, da ultimo con l’ordinanza n. 22609 del 19 luglio 2022, avente ad oggetto la fattispecie del trattamento fiscale della rinuncia al TFM da parte dell’amministratore-socio.

1. In tema di rinuncia a crediti correlati a redditi imponibili per cassa, presso la Corte di Cassazione sembrava ormai consolidata la “preoccupante” teoria del c.d. incasso giuridico, secondo cui la rinuncia dei soci a crediti correlati a redditi imponibili per cassa presuppongono l’avvenuto incasso del credito e, quindi, l’obbligo di sottoporre a tassazione il relativo ammontare anche mediante l’applicazione della ritenuta di imposta (M. DENARO, La rinuncia del socio amministratore al trattamento di fine mandato costituisce incasso “giuridico” da tassare - Commento, in Il Fisco, 2022, n. 21, p. 2074).

La tesi dell’incasso giuridico ha avuto origine diversi decenni fa, in particolare con la Circolare del Ministero delle Finanze n. 73/E del 27 maggio 1994 che per prima ha ritenuto “naturale”, pur non esplicitando le ragioni a sostegno di tale considerazione, l’argomentazione secondo cui i crediti correlati a redditi tassati per cassa dovrebbero considerarsi in ogni caso materialmente incassati e, di conseguenza, tassati, anche se sono stati oggetto di rinuncia da parte dei relativi titolari (A. MARINELLO, La rilevanza tributaria della rinuncia ai crediti dei soci verso la società: inquadramento sistematico e profili critici, in Rivista Trimestrale di Diritto Tributario, 2021, n. 3, p. 501).

Il fondamento della tesi dell’incasso giuridico è rintracciabile nella circostanza che si verifichi, al momento della rinuncia al credito relativo a proventi tassati per cassa da parte del socio persona fisica, un salto d’imposta provocato dalla possibilità da parte della società partecipata, di dedurre un costo e, specularmente, dall’incremento del valore fiscale della partecipazione del socio, senza, però, effettiva emersione di materia imponibile a causa dell’assenza di una percezione effettiva del provento.

La suddetta tesi, sembrerebbe aver previsto una fictio iuris in base alla quale l’atto di rinuncia al credito da parte del socio è equiparato all’incasso dello stesso, in quanto la rinuncia presupporrebbe che il credito sia maturato ed entrato nella sfera giuridica di disponibilità patrimoniale del socio che, di conseguenza, ha avuto la possibilità di disporne (D. CAGNONI – A. D’UGO – A. GERMANI, L’insostenibile tesi dell’incasso giuridico senza concreto vantaggio economico, in Il Fisco, 2018, n. 12, p. 1112).

La tematica assume carattere delicato in ragione della finalità ultima dell’operazione di rinuncia al credito, diretta a patrimonializzare la società, che si configura come una valida alternativa alle tipiche operazioni utilizzate per incrementare il patrimonio sociale quali l’aumento di capitale sociale a titolo gratuito o a pagamento. “In effetti, il risultato di patrimonializzare la società non fa che riflettersi sulla posizione del socio rinunciante, posto che quest’ultimo, tramite l’operazione di finanziamento e di successiva rinuncia del credito, consegue un corrispondente aumento del valore fiscale della partecipazione” (R. LANCIA, Il dogma dell’incasso giuridico: l’origine della tesi, le critiche della dottrina e le posizioni della Cassazione, in Rivista Telematica di Diritto Tributario, 2020, n. 2, p. 889).

2. Quanto appena illustrato è rinvenibile nel caso oggetto della sentenza della Corte di Cassazione n. 22609 del 19 luglio 2022, che presenta, però, un’ulteriore peculiarità, ovvero che il credito maturato a titolo di TFM dall’amministratore della società accertata ha subìto un mutamento per effetto della sua morte ed è caduto in successione ai suoi eredi, nonché soci della società debitrice, che vi hanno successivamente rinunciato.

Nella sua analisi, l’Agenzia delle Entrate si è soffermata sulla valorizzazione contabile del fondo TFM che, in seguito alla morte dell’amministratore, è stato giro-contato a debito verso eredi e, successivamente, trasferito nel patrimonio della società a titolo di capitale. Per effetto delle scritture contabili, quindi, la società, in accordo con gli eredi, ha mantenuto la somma che avrebbe dovuto erogare loro a titolo di trattamento di fine mandato, conseguendo così un finanziamento a proprio favore e “mutandone la natura da eredità a patrimonio aziendale” (S. FURIAN, Incasso giuridico anche per gli eredi dell’amministratore deceduto - Commento, in Il Fisco, 2022, n. 36, p. 3471).

La Corte, perciò, ha valutato la rinuncia al credito da parte dei soci come una prestazione finalizzata ad accrescere il patrimonio della società e a provocare un aumento del valore delle proprie quote sociali e, in virtù di questo, ha ritenuto che la rinuncia presupponesse il conseguimento del credito, il cui importo, anche se non materialmente incassato, è stato comunque “utilizzato”, sia pure con atto di disposizione avente natura di rinuncia. Altrimenti operando, infatti, a parere della Suprema Corte, si sarebbe permesso alla società di beneficiare di accantonamenti fiscalmente dedotti nel corso dei singoli periodi di imposta che non scontano alcuna imposizione fiscale, nonostante producano l'effetto ultimo di incrementare il costo della partecipazione.

3. In contrasto con quanto appena esposto, si pone la recentissima sentenza della Corte di Cassazione n. 16595 del 12 giugno 2023 in commento, con la quale la Suprema Corte ha per la prima volta affermato un nuovo principio di diritto che mette in discussione l’applicazione della tesi dell’incasso giuridico.

Nel caso oggetto della sentenza, la società ricorrente ha contratto un mutuo con una consociata, pattuendone anche i relativi interessi; successivamente, la società mutuante ha ceduto il credito alla controllante che, a sua volta, ha rinunciato allo stesso sia per la parte in linea capitale che per la parte in linea interessi. A questo punto, la società, in ragione della rinuncia della capogruppo creditrice, in via prudenziale, ha applicato, sugli interessi che avrebbe dovuto corrispondere, la teoria dell’incasso giuridico, versandone, di riflesso, la relativa ritenuta fiscale. Tuttavia, in un momento successivo, ha presentato istanza di rimborso, assumendo come non dovute le imposte sugli interessi non versati (per approfondire v. S. FURIAN – E. PAVANELLO, La Cassazione cambia idea sull’incasso giuridico (ma solo dal 2016), in Il Fisco, 2023, n. 27, p. 2653).

Sulla vicenda, la Corte di Cassazione afferma che in tema di rinuncia a crediti correlati a redditi imponibili per cassa è necessario effettuare un distinguo tra la disciplina previgente e quella attuale, in virtù delle significative modifiche apportate dall’art. 13, comma 2, del D. Lgs. 147/2015, cosiddetto “Decreto Internazionalizzazione”.

Nel dettaglio, in base alla disciplina in vigore sino al periodo d’imposta in corso al 07/10/2015, in tema di determinazione del reddito d’impresa, l’art. 88, comma 4, del TUIR, che esclude debbano considerarsi sopravvenienze attive le rinunce ai crediti operate dai soci nei confronti della società, deve essere letto in correlazione con i successivi artt. 94, comma 6 e 101, comma 7, per effetto dei quali l’ammontare relativo al credito oggetto della rinuncia non deve essere ammesso in deduzione in capo al socio e deve essere aggiunto al costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione detenuta nella società debitrice.

A partire dal periodo d’imposta successivo, invece, la norma applicabile è l’art. 88, comma 4-bis del TUIR, ai sensi del quale “la rinuncia dei soci ai crediti si considera sopravvenienza attiva per la parte che eccede il relativo valore fiscale. A tal fine, il socio, con dichiarazione sostitutiva di atto notorio, comunica alla partecipata tale valore; in assenza di tale comunicazione, il valore fiscale del credito è assunto pari a zero. (...)” (sul punto, v. G. GAVELLI – F. GIOMMONI, La rinuncia del socio-amministratore al trattamento di fine mandato, 2018, n. 1, p. 27). La normativa in vigore, dunque, qualifica come sopravvenienza attiva la rinuncia ai crediti da parte dei soci soltanto per la parte eccedente il relativo valore fiscale, il quale, se non è comunicato dal socio alla società partecipata, si presume pari a zero (M. CARROZZINO, Rinuncia ai crediti da parte dei soci: la Corte di Cassazione conferma ancora la tesi dell’“incasso giuridico”, in Rivista Telematica di Diritto Tributario, 2020, fascicolo 2, p. 365).

Di riflesso, gli Ermellini, esprimendosi in favore della società, hanno affermato il nuovo e apprezzabile principio secondo cui “in tema di imposte sui redditi di capitale - in ragione di quanto previsto dagli articoli 88, comma 4-bis, 94, comma 6, 101, comma 5, TUIR a seguito delle modifiche di cui all'articolo 13 legge 14 settembre 2015, n. 147 - la rinuncia, operata da un socio nei confronti della società, al credito avente ad oggetto interessi maturati su finanziamenti erogati nei confronti di una società partecipata, non comporta l’obbligo di sottoporne a tassazione il relativo ammontare, con applicazione, ai sensi dell’articolo 26, quinto comma, del DPR n. 600 del 1973, della ritenuta fiscale, cui la società è tenuta quale sostituto d'imposta, avendo le nuove disposizioni rimediato all'asimmetria fiscale o "salto d'imposta" di cui al precedente regime”.

A suffragio della propria decisione, inoltre, la Suprema Corte ha precisato che la tesi dell’incasso giuridico, avendo come finalità propria quella di evitare il c.d. “salto d’imposta”, trova la propria giustificazione soltanto nel regime previgente all’art. 88, comma 4-bis, del TUIR. Infatti, il mutato quadro normativo, avendo messo in correlazione il valore fiscale del credito oggetto di rinuncia e la detassazione, sembra aver risolto le asimmetrie che giustificano l’applicazione della fictio iuris.

In altri termini, a seguito della rinuncia, il socio aumenta il costo della partecipazione solo nei limiti del valore fiscale del credito e la società beneficia di una sopravvenienza non tassabile solo nei limiti di detto valore; pertanto, secondo i giudici di legittimità, la rinuncia di un credito avente valore fiscale pari a zero, come per i crediti legati ad un reddito tassato per cassa, non incrementa il valore fiscale della partecipazione, diversamente da quanto prospettato nel precedente regime sia dalla Agenzia delle Entrate sia dalla stessa Corte, ma, di contro, detta rinuncia comporta la tassazione integrale della sopravvenienza attiva in capo alla società partecipata.

4. In virtù di quanto suddetto, con quest’ultima sentenza la Suprema Corte sembra allinearsi all’orientamento dottrinale. Infatti, nonostante il convincimento dell’Agenzia delle Entrate sulla validità della teoria dell’incasso giuridico, in dottrina si rinvengono per lo più posizioni contrarie e altamente condivisibili.

In primo luogo, benché l’articolo 23 della Costituzione preveda che “nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge” e, sul punto, anche la giurisprudenza di legittimità è risultata risoluta nel ritenere che gli atti ministeriali (circolari o risoluzioni) non possono imporre ai contribuenti nessun adempimento non previsto dalla legge né, soprattutto, attribuire all'inadempimento del contribuente alle prescrizioni di detti atti un effetto non previsto da una norma di legge (Cassazione n. 11931/1995, 14619/2000, n. 21154/2008, n. 5137/2014), la tesi dell’incasso giuridico viene ampliamente condivisa e applicata sebbene trovi la sua fonte in un documento di prassi, muovendosi, quindi, in contrasto con il dettato costituzionale (M. ANTONINI – P. PIANTAVIGNA, Si consolida la (criticabile) tesi dell’incasso “giuridico” dei crediti rinunciati dai soci – IL COMMENTO, in Corriere Tributario, 2022, n. 8-9, p. 754).

In secondo luogo, la tesi dell’incasso giuridico sembra essere fortemente in conflitto con l’art. 1 del TUIR, secondo il quale il “presupposto dell'imposta sul reddito delle persone fisiche è il possesso di redditi in denaro o in natura rientranti nelle categorie indicate nell'art. 6”. Infatti, nella Norma di comportamento n. 201/2018, l’Associazione Italiana Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili, esprimendosi in modo critico nei confronti del dogma dell’incasso giuridico, sostiene che, essendo il TFM assoggettato a tassazione in base al principio “di cassa”, la mancata percezione del compenso non genera alcuna capacità contributiva e, di conseguenza, non può comportare il manifestarsi di alcun presupposto impositivo (sul punto, v. G. GAVELLI – F. GIOMMONI, La Norma di comportamento dell’AIDC sulla rinuncia del socio-amministratore al TFM, in Corriere Tributario, 2018, n. 12, p. 899).

Tuttavia, secondo la Norma di comportamento n. 201, il presupposto impositivo si realizza, invece, quando, pur in mancanza della percezione monetaria, la rinuncia al credito vantato dall’amministratore sia indirettamente collegata a una controprestazione di qualsiasi natura, ovvero quando il credito stesso sia utilizzato per estinguere obbligazioni facenti capo all’amministratore.

Per concludere, l’AIDC afferma che l’atto di rinuncia al credito non può presupporre l’automatico incasso del relativo importo – principio alla base della tesi dell’incasso giuridico – e che tale conseguenza può venire a determinarsi solo nell’ipotesi in cui l'amministratore consegua benefici patrimoniali o reddituali fiscalmente riconosciuti e oggettivamente riconoscibili (P. PIANTEDOSI, Rinuncia al Tfm imponibile solo se il socio ne trae benefici, in Il Sole 24 Ore, 8 febbraio 2018).

In aggiunta, la teoria dell’incasso giuridico è ampliamente sostenuta dall’Amministrazione Finanziaria perché considerata uno strumento giuridicamente efficace per evitare che i contribuenti tengano condotte elusive volte a generare dei salti d’imposta (per approfondire v. D. STEVANATO, Le rinunce dei soci a crediti per somme dedotte dalla società: se il reddito del socio è imponibile “per cassa” si può evitare un salto d’imposta, in Rassegna Tributaria, n. 10/1994.). Tuttavia, l’attribuzione di questa connotazione antielusiva appare facilmente criticabile, in quanto, il verificarsi del salto d’imposta non può essere propriamente individuato come elusione, ma piuttosto come una conseguenza del dettato normativo che regola la tassazione dei redditi cui risulta applicabile il principio di cassa: a titolo esemplificativo, per i redditi di lavoro autonomo è stato previsto che siano correlati a compensi “percepiti” (art. 54, comma 1, T.U.I.R.) e che la ritenuta sia effettuata “all’atto del pagamento” di detti compensi (art. 25, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600). In effetti, il c.d. “salto d’imposta” non si manifesta necessariamente in tutte le ipotesi di rinuncia a crediti correlati a redditi imponibile per cassa; è il caso, ad esempio, dei compensi spettanti ai soci-amministratori (art. 95, c. 5, T.U.I.R.). In questa circostanza, infatti, la rinuncia al compenso da parte del socio-amministratore, se fosse soggetta all’applicazione della tesi dell’incasso giuridico, sarebbe tassabile in capo a quest’ultimo, anche se la società partecipata non ha potuto dedurre nulla.

Alla luce di quanto esposto, dunque, si spera che questo nuovo orientamento espresso dalla Corte di Cassazione non si configuri come una pronuncia isolata, ma piuttosto come il primo passo verso l’affermarsi di un nuovo filone giurisprudenziale di cui l’Amministrazione Finanziaria tenga conto nell’espletamento della propria attività accertativa. Inoltre, al fine di limitare il più possibile l’arbitrarietà sul tema, sarebbe auspicabile un intervento normativo volto a definire quale sia la corretta applicazione del c.d. “incasso giuridico”, così da assicurare una maggior chiarezza e certezza della disciplina.