argomento: IRES - Giurisprudenza
Nella sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha finalmente superato la tesi del c.d. “incasso giuridico”, affermando il principio di diritto secondo cui la rinuncia, operata da un socio nei confronti della società, ad un credito relativo a redditi tassabili per cassa – nella fattispecie, ad interessi relativi a finanziamenti erogati ad una partecipata - non comporta l'obbligo di assoggettare a tassazione il relativo ammontare, con conseguente esclusione anche dell'obbligo di operare la ritenuta ai sensi dell'articolo 26, comma 5, del DPR numero 600 del 1973.
» visualizza: il documento (Corte di Cass., ord. 12 giugno 2023, n. 16595)di Antonio Marinello
1. Sconfessando (finalmente) la tesi del c.d. “incasso giuridico”, con la sentenza del 12 giugno 2023, n. 16595 la Corte di Cassazione ha affermato il principio di diritto secondo cui la rinuncia, operata da un socio nei confronti della società, ad un credito relativo a redditi tassabili per cassa – nella fattispecie, ad interessi relativi a finanziamenti erogati ad una partecipata - non comporta l'obbligo di assoggettare a tassazione il relativo ammontare, con conseguente esclusione anche dell'obbligo di operare la ritenuta ai sensi dell'articolo 26, comma 5, del DPR numero 600 del 1973.
In dettaglio, il caso in questione riguardava una società residente in Italia, alla quale era stato corrisposto un finanziamento fruttifero di 10 milioni di euro da parte di una partecipata lussemburghese, con un interesse pari al 9 per cento. Successivamente, quest'ultima aveva ceduto il credito residuo alla controllante, anch’essa residente nel Granducato, la quale aveva a sua volta rinunciato in modo integrale – sia per la parte in linea capitale, sia per la parte in linea interessi - al credito nei confronti della società italiana.
A questo punto, la società italiana aveva dapprima deciso in via prudenziale di adeguarsi alla prassi prevalente in materia, applicando dunque la ritenuta del 26 per cento ex art. 26, comma 5, DPR n. 600 del 1973 sugli interessi ed allineandosi così alla ben nota fictio iuris del c.d. “incasso giuridico” nonostante che, di fatto, il pagamento degli interessi non fosse mai avvenuto.
In seguito, tuttavia, aveva presentato istanza di rimborso all’Amministrazione Finanziaria, assumendo in via principale che, in assenza di un esborso finanziario effettivo, la ritenuta sugli interessi non fosse dovuta e, in subordine, invocando il trattamento più favorevole previsto dall'art. 11 della Convenzione Italia-Lussemburgo (che prevede la ritenuta nella misura del 10 per cento).
Nei successivi sviluppi, la società italiana aveva proposto ricorso avverso il silenzio rifiuto e la Commissione Tributaria Provinciale, in accoglimento dello stesso, aveva mostrato di non condividere la tesi erariale dell’incasso giuridico ed aveva anzi dichiarato l’insussistenza del presupposto impositivo, proprio in ragione del fatto che gli interessi non erano mai stati corrisposti.
L’esito del giudizio, peraltro, era stato ribaltato in secondo grado, allorché la Commissione Tributaria Regionale si era richiamata esplicitamente ai precedenti di legittimità per affermare la correttezza dell'imposizione, in quanto la rinuncia presupponeva comunque l'utilizzo del credito, anche se non effettivamente incassato.
La controversia è infine approdata in Cassazione: nel proprio ricorso, la società interessata aveva sostanzialmente eccepito la violazione degli artt. 26, comma 5, e 26-quater), DPR n. 600/1973, e dell’art. 88, comma 4-bis), TUIR, evidenziando come il regime fiscale delle rinunce a crediti da parte dei soci, a seguito della riforma attuata con il d.lgs. 15 settembre 2015, n. 147, non fosse più compatibile con la tesi dell’incasso giuridico.
Come anticipato, la Suprema Corte ha accolto tali rilievi. Più precisamente, secondo i giudici di legittimità la finzione giuridica poteva trovare una qualche giustificazione nella formulazione originaria dell’articolo 88, comma 4, del TUIR, in base al quale, in una fattispecie come quella dedotta in giudizio, la società avrebbe potuto dedurre per competenza gli interessi passivi, mentre la successiva rinuncia da parte del socio non avrebbe generato una sopravvenienza attiva imponibile. Di qui, almeno in origine “la necessità, mediante una fictio iuris, di equiparare, ai fini fiscali, la rinuncia all'incasso e di sottoporne l'ammontare a prelievo fiscale, anche mediante ritenuta d'imposta”. Senonché, in conseguenza della novella legislativa rappresentata dal d.lgs. n. 147/2015, che ha introdotto il comma 4-bis) all’articolo 88 del TUIR, il contesto normativo deve considerarsi mutato in modo sostanziale e attualmente, in una situazione come quella in esame: i) la società continua a dedurre gli interessi passivi per competenza; ii) nel momento in cui il socio rinuncia al credito, la società realizza una sopravvenienza attiva per l’importo del credito rinunciato eccedente il suo valore fiscale; iii) l'ammontare della rinuncia al credito che si aggiunge al costo della partecipazione è nei limiti del valore fiscale del credito oggetto di rinuncia.
Pertanto, conclude il Supremo Collegio, “la rinuncia di un credito avente valore fiscale pari a zero, come per i crediti legati ad un reddito tassato per cassa, non incrementa il valore fiscale della partecipazione, diversamente da quanto prospettato nel precedente regime […] a sostegno della teoria dell'incasso giuridico”. Di contro, “detta rinuncia comporta la tassazione integrale della sopravvenienza attiva in capo alla società partecipata”, con la conseguenza che “le asimmetrie cui la regola dell'incasso giuridico intendeva porre rimedio sono state, pertanto, risolte dal legislatore”.
2. Come si è visto, il riferimento normativo al comma 4-bis) dell’art. 88, TUIR costituisce elemento centrale nella ricostruzione operata dalla Corte. Al fine di inquadrare al meglio la problematica di cui qui si discute, pare dunque opportuno richiamare sinteticamente la portata e l’ambito di applicazione di tale disposizione.
In breve, ricordo che - prima delle modifiche introdotte dall’art. 13 del d.lgs. n. 147/2015 - la disciplina delle rinunce ai crediti dei soci era integralmente contenuta nel comma 4 dell’art. 88, il quale prevedeva per tali fattispecie un regime di detassazione analogo a quello disposto per i versamenti effettuati a fondo perduto o in conto capitale da parte dei soci. Regime la cui ratio era sostanzialmente rinvenibile nella cointeressenza del socio-creditore rispetto alle vicende della società partecipata: ciò nel senso che, di norma, l’atto di rinuncia non viene effettuato con spirito di liberalità, ma in una prospettiva ben diversa, orientata semmai al rafforzamento patrimoniale della società stessa (sul tema, cfr. MASTROIACOVO, La rilevanza delle vicende abdicative nella disciplina sostanziale dei tributi, Torino, 2012, 12 ss.; TRIVELLIN, Profili sistematici delle perdite su crediti nel reddito di impresa, Torino, 2017, 318 ss.).
In tale contesto normativo, il comma 4 non poneva limiti o condizioni di alcun tipo in merito alle vicende fiscali del credito rinunciato dal socio: questo poteva dunque avere un costo inferiore al valore nominale (e dunque all’importo del debito iscritto in contabilità dalla società partecipata), per essere stato fiscalmente svalutato o comunque rettificato a norma dell’art. 106, comma 1, o 101, comma 3, del TUIR, ovvero per essere stato acquistato presso un precedente creditore ad un corrispettivo inferiore al valore fiscalmente riconosciuto. In queste situazioni, potevano dunque insorgere salti di imposta o disallineamenti tra il trattamento fiscale dell’operazione sul debitore e sul creditore, tali da incentivare il ricorso ad arbitraggi fiscali, specie nelle ipotesi di operazioni effettuate in contesti di gruppo. In particolare, nei casi di cessione del credito di un terzo creditore della società al socio, acquistato da quest’ultimo verso un corrispettivo inferiore al suo valore nominale – con svalutazione fiscalmente deducibile del credito operata dal socio creditore e cessione del credito unitamente alla cessione della partecipazione sociale – si sarebbe verificata la non imponibilità della rinuncia al credito in capo alla società a fronte di una deducibilità fiscale in capo al socio-creditore ovvero, in caso di cessione, al terzo-creditore.
Questo scenario normativo, tuttavia, è stato radicalmente modificato dal d.lgs. n. 147/2015, che ha inserito nel corpo dell’art. 88 il nuovo comma 4-bis), a mente del quale “la rinuncia ai crediti dei soci si considera sopravvenienza attiva per la parte che eccede il relativo valore fiscale”. A tal fine, il socio è tenuto a comunicare alla partecipata tale valore, attraverso una dichiarazione sostituiva di atto notorio e, in assenza di tale comunicazione, il valore fiscale del credito viene assunto pari a zero.
In sostanza, nulla cambia laddove il valore fiscale del credito coincida con il valore nominale: fatto salvo l’obbligo di comunicazione del valore fiscale, la rinuncia al credito continua a non avere alcuna rilevanza tributaria per il debitore, e ciò, come già ricordato, indipendentemente dalla natura del credito e dalle modalità di contabilizzazione. In questi casi, peraltro, la possibilità che si determinino salti d’imposta è esclusa in radice in quanto, a fronte della irrilevanza della sopravvenienza attiva per la società, i creditori non avranno diritto ad alcuna deduzione fiscale (per approfondimenti ulteriori su questi profili, sia consentito il rinvio a MARINELLO, La rilevanza tributaria della rinuncia ai crediti dei soci verso la società: inquadramento sistematico e profili critici, in Riv. trim. dir. trib., 2021, 514 ss.).
In presenza, invece, di crediti che in capo al socio-creditore hanno un costo fiscale inferiore al valore nominale, a seguito della modifica normativa la rinuncia determina l’emersione di un reddito imponibile pari alla differenza tra il valore nominale del credito (che corrisponde all’incremento patrimoniale della società debitrice) e il costo fiscale dello stesso.
3. Per tornare al tema che qui specificamente interessa, la disciplina appena ricordata si caratterizza per un considerevole profilo di incertezza, allorché la rinuncia risulti correlata a redditi che, sulla base delle disposizioni tributarie, devono essere assoggettati a tassazione per cassa.
Risalendo alla genesi della problematica, rammento che a partire dalla circolare ministeriale 27 maggio 1994, n. 73/E, l’Amministrazione ha prospettato, in via meramente interpretativa, la tesi secondo la quale i crediti relativi a proventi tassabili per cassa dovrebbero considerarsi in ogni caso materialmente incassati, e conseguentemente tassati, anche se oggetto di rinuncia da parte dei relativi titolari: di qui, appunto, l’espressione invalsa nella prassi applicativa di “incasso giuridico” del reddito.
Ebbene, nell’impianto normativo precedente alla riforma del 2015, tale impostazione trovava indubbiamente un qualche solido appiglio nell’esigenza di evitare asimmetrie impositive. Proprio nelle ipotesi di rinuncia a crediti che all’atto della percezione avrebbero generato redditi imponibili per cassa, invero, il rischio di salti di imposta era oggettivamente concreto: in tali ultimi casi, la società avrebbe infatti conseguito una sopravvenienza attiva non imponibile, correlata ad un costo dedotto per competenza, mentre il socio rinunziante il relativo credito non avrebbe realizzato alcun provento imponibile in ragione della mancata percezione delle somme corrispondenti (in proposito, si veda STEVANATO, Le rinunce ai crediti per somme dedotte dalla società: se il reddito del socio è imponibile “per cassa” si può evitare un salto d’imposta, in Rass. trib., 1994, p. 1555 ss.).
Per le ragioni appena accennate, la tesi dell’incasso giuridico è stata ripresa e fatta proprio dalla giurisprudenza, sia di merito che di legittimità. In numerose pronunce, anche molto recenti (cfr., tra le tante, Cass., ord. 14 aprile 2022, n. 12222) il giudice delle leggi ha così affermato che la rinuncia presuppone il conseguimento del credito il cui importo “anche se non materialmente incassato, viene comunque utilizzato” e va dunque tassato in capo al socio.
In tal senso – ed in relazione a casistiche assai disparate - si segnalano tra le altre le decisioni della Suprema Corte in tema di rinuncia, da parte del socio, al credito per royalties (cfr. Cass. n. 26842/2014); a crediti per trattamento di fine mandato; (in questi termini, si veda Cass., n. 1335/2016); per interessi relativi ad un finanziamento concesso alla controllata, ove l’incasso meramente virtuale è stato ritenuto presupposto sufficiente per la tassazione in capo al socio-rinunciante (v. Cass., 7636/2017); per interessi maturati su un finanziamento concesso da una fondazione ad una società partecipata (cfr. Cass., n. 2057/2020).
Pur condividendone in alcuni casi le istanze di fondo in ordine alla potenziale portata antielusiva, la dottrina ha sottoposto la tesi dell’incasso giuridico ad un attento vaglio critico.
Da parte di alcuni commentatori, la tesi è stata criticata anzitutto con riferimento al principio di capacità contributiva, in quanto per questa via verrebbe attratta a tassazione una manifestazione di ricchezza non effettiva, con conseguente violazione del principio fondamentale di cui all’art. 53 Cost. (per questo rilievo, cfr. CAGNONI-D’UGO-GERMANI, L’insostenibile tesi dell’incasso giuridico senza concreto vantaggio economico, in Il Fisco, 2018, 1114).
Almeno sotto questo profilo, tuttavia, la critica non mi pare del tutto convincente.
Occorre infatti rilevare che l’attribuzione a terzi, anche in via abdicativa attraverso la rinuncia al relativo credito, è senz’altro configurabile quale atto con il quale si manifesta il “possesso” del reddito, inteso nel senso del potere di disporne liberamente nell’interesse proprio (così, per tutti, FEDELE, “Possesso” di redditi, capacità contributiva ed incostituzionalità del cumulo, in Giur. cost., 1976, 2165 ss.; ID., Il regime fiscale delle successioni e liberalità, in Trattato breve delle successioni e donazioni, diretto da Rescigno, II, Padova, 2010, 650; nel senso che il “possesso” esprima il complesso delle relazioni giuridicamente qualificate vantate dal soggetto passivo nei confronti della fonte medesima, per come desumibili dalle norme relative alle categorie di reddito, si vedano anche TOSI, La nozione di reddito, in AA.VV., Giurisprudenza sistematica di diritto tributario. L’imposta sul reddito delle persone fisiche, a cura di F. tesauro, Torino, 1994, I, 47; PAPARELLA, Possesso del reddito e interposizione fittizia, Milano, 2000, passim, specie 157 ss.; GIOVANNINI, Il diritto tributario per principi, Milano, 2014, 54).
Accogliendo questa prospettiva, insomma, ben potrebbero assumere rilevanza reddituale anche diritti di credito, maturati in conseguenza di rapporti o assetti onerosi e successivamente rinunciati, sia pure in assenza di un “incasso” effettivo e materiale, dovendosi soltanto distinguere le ipotesi in cui il disponente possa ritrarre dalla vicenda abdicativa una qualche utilità, anche indiretta, rispetto alle ipotesi in cui ciò non accada e la rinuncia assuma i tratti di resa consapevole ed incondizionata, assistita da una assoluta gratuità.
E ragionando in termini ancor più generali - nella prospettiva costituzionale dell’attitudine alla contribuzione – l’eventualità che la soddisfazione dell’interesse economico del soggetto che rinuncia al proprio credito si verifichi in ragione dell’effettivo arricchimento altrui potrebbe esprimere una forma di capacità contributiva, apprezzabile nel collegamento con il potere di disposizione del reddito cui si è fatto cenno sopra, trattandosi di reddito certo, ancorché non ancora incassato (cfr. MASTROIACOVO, La rilevanza delle vicende abdicative nella disciplina sostanziale dei tributi, cit., 97 ss.; e, in termini del tutto condivisibili, FICARI, Corrispettività, onerosità e gratuità nella fiscalità di impresa, in Riv. trim. dir. trib., 2018, 294).
In questo senso, allora, la rilevanza reddituale della situazione correlata alla rinuncia potrebbe costituire il fondamento logico e giuridico per ritenere l’oggetto dell’atto dispositivo del credito come espressivo di capacità contributiva anche in assenza di un corrispondente incremento patrimoniale.
Se si condividono queste osservazioni, pertanto, la tesi dell’incasso giuridico non si porrebbe di per sé necessariamente in contrasto con la nozione di possesso del reddito – per come sopra ricostruita – né con il principio di capacità contributiva.
Le ragioni vere dell’infondatezza di tale teoria andrebbero semmai ricercate altrove, spostando il problema sul versante applicativo ed investendo così un altro tipo di questioni, dalla misurabilità pecuniaria della manifestazione di forza economica derivante dalla rinuncia, ai correlati meccanismi di imposizione.
In tale ottica, colgono senz’altro nel segno le opinioni che avversano l’applicabilità dell’incasso giuridico in relazione al fatto che la teoria è stata prospettata esclusivamente in sede di prassi, senza che essa trovi alcun riscontro – ed alcun appiglio applicativo – né nelle disposizioni sostanziali che il Testo Unico dedica alle categorie di reddito, né nelle disposizioni procedimentali contenute nel DPR n. 600/1973.
Già sotto il profilo sostanziale, le categorie reddituali ispirate alla tassazione secondo il principio di cassa evocano in modo chiaro il criterio della percezione effettiva come modalità fisiologica di rilevazione dell’imponibile: si pensi, emblematicamente, ai redditi di capitale, la cui base imponibile è costituita, ai sensi dell’art. 45 del TUIR, dall’ammontare degli interessi, utili o altri proventi percepiti nel periodo di imposta, senza nessuna deduzione, nonché, in termini corrispondenti, ai redditi di lavoro.
Ma è sul piano procedimentale che la tesi dell’incasso giuridico si infrange contro uno scoglio difficilmente superabile: ai fini dell’applicazione delle ritenute (sui redditi di capitale, ad es. per gli interessi da finanziamento o per i dividendi; sui redditi di lavoro autonomo; o sul trattamento di fine mandato per i soci amministratori), il DPR n. 600/1973 fa infatti riferimento all’effettiva corresponsione del reddito da parte di un sostituto di imposta, evocando in modo inequivocabile un flusso di ricchezza erogato dal sostituto al percettore, in assenza del quale il coinvolgimento del sostituto di imposta nel meccanismo di applicazione del prelievo appare obiettivamente difficile da prospettare (così testualmente l’art. 25 del DPR 29 settembre 1973, n. 600, il quale prevede che la ritenuta deve effettuata “all’atto del pagamento” dei compensi per lavoro autonomo; per questo rilievo si veda per tutti DEL FEDERICO, Profili fiscali delle rinunce dei crediti da parte dei soci, in Il Fisco, 1994, p. 9016).
E anche andando oltre questi aspetti, la teoria non convince proprio alla luce del rinnovato assetto legislativo, per come scaturito dall’intervento riformatore del d.lgs. n. 147/2015.
Nel sistema vigente – lo si ricorderà – il legislatore ha introdotto la parziale rilevanza fiscale in capo alla società delle operazioni di rinuncia dei crediti da parte dei soci e, così facendo, sembra aver trovato la soluzione corretta per prevenire ogni salto di imposta.
A partire dal 2016, attraverso le modifiche all’art. 88 TUIR, la tassazione è stata infatti ricondotta alla società beneficiaria della rinuncia, facendo così salvi eventuali effetti tributari in capo al socio rinunziante che non operi in regime di impresa: proprio questa modifica conferma la preferenza sistematica per la tassazione dell’arricchimento effettivo che si realizza in capo al beneficiario della rinuncia, anziché in capo al socio, che vede in realtà soltanto incrementare il valore della propria partecipazione.
Nel rinnovato contesto normativo, quindi, il teorema dell’incasso giuridico potrebbe risolversi, in alcune situazioni, in una intollerabile distorsione sul piano impositivo, con la possibile insorgenza di una doppia imposizione in capo sia alla società debitrice, sia al socio creditore rinunziante (cfr., se si vuole, MARINELLO, La rilevanza tributaria della rinuncia ai crediti dei soci verso la società, cit., 522).
Ciò che maggiormente sorprende, per chiudere sul punto, è che l’Amministrazione Finanziaria non abbia mai riconsiderato la propria posizione nemmeno a seguito della novella del 2015.
Prova ne è, ad esempio, la Risoluzione 13 ottobre 2017, n. 124/E, nella quale, trattando ancora una volta di una fattispecie di rinuncia al trattamento di fine mandato da parte dei soci amministratori – avvenuta nel 2016 – l’Agenzia ha ribadito la valenza dell’incasso giuridico, richiamando in modo del tutto improprio i precedenti giurisprudenziali che si rifacevano alla normativa antecedente.
Ma, come detto, nell’assetto normativo vigente questa posizione non appare più seriamente sostenibile, in quanto gli effetti fiscali della rinuncia sono, per legge, ricondotti in modo esclusivo in capo alla società.
4. A queste conclusioni è finalmente pervenuta anche la Suprema Corte di Cassazione che, nella sentenza in commento ha significativamente rivisto la propria posizione riguardo alla tesi dell’incasso giuridico.
Ribaltando il precedente orientamento, i giudici di legittimità sono infatti pervenuti ad una lettura sistematicamente più convincente della rinnovata disciplina tributaria della rinuncia dei soci ai crediti vantati nei confronti della società., valorizzando la circostanza che a partire dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 7 ottobre 2015, con il nuovo art. 88, comma 4-bis) del Testo Unico la rinuncia si considera – in capo alla società interessata - sopravvenienza attiva per la parte che eccede il relativo valore fiscale. Ne deriva che nel regime vigente l’apporto è detassato per la sola parte di rinuncia, che corrisponde al valore fiscalmente riconosciuto del credito in capo al socio; specularmente, in capo al socio l’ammontare della rinuncia si aggiunge al costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione, soltanto nei limiti del valore fiscale del credito oggetto di rinuncia.
Come riconosce ora anche la Corte di Cassazione, rispetto al passato l’attuale assetto normativo si caratterizza per una chiara ed evidente simmetria. Da un lato, la rinuncia al credito imponibile per cassa da parte di un socio non determina un incremento del valore fiscale della partecipazione; dall’altro, tale rinuncia comporta la tassazione integrale della sopravvenienza attiva in capo alla società partecipata (cfr., in proposito, SALVATI, Questioni in tema di incasso giuridico e rimedi alle asimmetrie normative, in Riv. tel. dir. trib., 8 luglio 2023).
Ciò vale a mettere in fuori gioco – si spera, definitivamente - il controverso teorema dell’incasso giuridico, introdotto in via puramente interpretativa dall’Amministrazione Finanziaria nel lontano 1994 e sin qui pervicacemente sostenuto anche con l’avallo costante della stessa Suprema Corte.
E, in una fattispecie come quella all’origine della controversa qui decisa, la rinuncia operata da un socio nei confronti della società ad un credito relativo ad interessi non comporta più automaticamente l'obbligo di assoggettare a tassazione il relativo ammontare, con conseguente esclusione anche dell'obbligo di operare la ritenuta ai sensi dell'articolo 26, comma 5, del DPR numero 600 del 1973.
Seppur tardiva – e, come detto, limitata alle rinunce successive alla riforma del 2015 – l’inversione di tendenza operata dalla Cassazione va senz’altro salutata con favore. Essa ha il pregio di superare un’impostazione risalente ed ossificata, che era uscita indenne dal restyling dell’art. 88 del TUIR, e di restituire al sistema una simmetria che si era perduta nel tempo.
L’auspicio è che questa innovativa pronuncia non rimanga isolata e che trovi invece ulteriori conferme, aprendo la strada ad un indirizzo giurisprudenziale più coerente ed attento al rispetto delle coordinate generali del sistema.