Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

09/01/2024 - Limiti alla previsione di norme tributarie retroattive. Un confronto tra le posizioni della Corte Costituzionale belga, della Corte EDU, della Corte di Giustizia e della Corte Costituzionale e possibili risvolti pratici

argomento: Profili europei e Internazionali - Giurisprudenza

La Corte costituzionale belga, con la sentenza n. 136/2022, ha affrontato il tema delle norme tributarie retroattive, con una motivazione particolarmente lineare e rigorosa. Ciò rappresenta l’occasione per confrontare gli orientamenti della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, della Corte di Giustizia e della Consulta sul tema delle norme tributarie retroattive, sempre molto attuale per la frequenza delle stesse. Il tutto al fine di individuare gli eventuali punti in comune tra gli orientamenti delle menzionate corti supreme in ordine alla individuazione dei criteri e limiti di giustificazione delle norme in questione, valutando possibili risvolti pratici con riguardo a talune recenti fattispecie.

» visualizza: il documento (Corte Cost. Belgio, sent. 27 ottobre 2022, n. 136.) scarica file

PAROLE CHIAVE: norme tributarie retroattive - motivi impellenti - Belgio - CEDU - Corte di Giustizia UE - - - Corte Costituzionale


di Giulio Chiarizia

1. La Corte costituzionale belga, con la sentenza n. 136/2022, ha dichiarato l’incostituzionalità della nuova imposta annuale sugli enti creditizi, introdotta dalla legge 3 agosto 2016, entrata in vigore il 21 agosto 2016, in sostituzione delle imposte annuali previgenti, nella parte in cui trovava applicazione con riguardo all’imposta per l’anno 2016, esigibile a partire dal primo gennaio 2016.

La sentenza citata, caratterizzandosi per un ragionamento estremamente lineare in tema di norme tributarie retroattive, offre l’occasione per confrontare l’approccio tenuto dalla Corte costituzionale belga con quello della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU), della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e della Corte costituzionale italiana.

Il tema delle norme retroattive (esulano dal presente articolo le altre ipotesi di retroattività) è, infatti, sempre molto attuale anche in ambito nazionale. Ciò per la frequenza con cui il legislatore emana norme fiscali retroattive, come l’art. 1, comma 127 della legge 29 dicembre 2022, n. 197 (legge di bilancio 2023), con il quale ha voluto colmare retroattivamente la lacuna normativa in merito al trattamento fiscale dei proventi derivanti dalla realizzazione di cripto-attività, e da ultimo l’art. 26 del d.l. 10 agosto 2023, n. 104, in tema di imposta straordinaria sul c.d. “extraprofitto” delle banche.

Di seguito sarà illustrata dapprima la sentenza n. 136/2022 della Corte costituzionale belga, poi l’orientamento della Corte EDU (che rileva anche ai fini del nostro ordinamento in ragione dell’art. 117, comma 1, Cost.) e quello della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e, infine, la posizione della Corte costituzionale italiana, che a sua volta ha affrontato il tema delle norme tributarie retroattive nell’ottica del rispetto della capacità contributiva e, in tempi più recenti, ha recepito l’influenza della giurisprudenza sovrannazionale europea diretta a valorizzare i principi della certezza del diritto e del principio di affidamento.

Il tutto, premettendosi sin d’ora che, in questa sede, per norme tributarie retroattive si intendono (prescindendo dalle diverse posizioni dottrinarie volte a distinguere la retroattività in “propria” o “impropria” ovvero di “primo livello” o di “secondo livello”) le fattispecie in cui «la legge ponga a base della prestazione un fatto verificatosi nel passato, ma anche quando essa alteri, modifichi o trasformi, con effetto retroattivo, gli elementi essenziali dell’obbligazione tributaria e i criteri di valutazione che sono connessi, quali risultano da una precedente normativa» (cfr. Corte Cost. n. 45/1964). Ne consegue che si può condividere quanto affermato da autorevole dottrina (MELIS, Manuale di diritto tributario, Torino, 2019, 75), secondo cui costituiscono ipotesi di norme tributarie retroattive, tra l’atro, le fattispecie in cui la nuova o maggiore tassazione venga introdotta in un periodo di imposta successivo rispetto a quello in cui si è manifestato il fatto indice di capacità contributiva.

2. In questa sede, concentrandosi sui principi sovrannazionali europei e su quelli costituzionali, non sarà oggetto di trattazione la disciplina di cui all’art. 3 della legge n. 212/2000 (c.d. Statuto del contribuente). Ciò in quanto, per giurisprudenza consolidata, detta disciplina, pur regolando in modo articolato e speciale la efficacia temporale delle norme tributarie (limitando anche la c.d. “retroattività impropria”, ossia l’introduzione di maggiori oneri tributari nel corso del periodo d’imposta), non gode tuttavia di una efficacia sovraordinata rispetto alla legge ordinaria, per cui è suscettibile di deroga da parte delle norme sopravvenute. La sentenza n. 136/2022 della Corte costituzionale belga ha riguardato la (il)legittimità della maggiore imposta pagata dalle banche per effetto della introduzione, da parte della legge 3 agosto 2016, in vigore dal 21 agosto 2016, della nuova imposta annuale sullo status di ente creditizio in sostituzione di altre imposte annuali. Tale nuova imposta è stata introdotta a partire dall’anno 2016 e, in relazione a tale periodo, la base imponibile era costituita una tantum dai debiti nei confronti della clientela al 31 dicembre 2015 e doveva essere corrisposta dal 1° gennaio 2016 al 15 novembre 2016.

In tale contesto, il Consiglio dei Ministri belga ha negato che l’imposta fosse retroattiva, poiché dovuta a decorrere dall’inizio dell’anno in cui è stata emanata la legge 3 agosto 2016 e il termine di versamento scadeva dopo la sua introduzione. Il Consiglio dei Ministri belga ha poi sostenuto che, secondo la Corte di cassazione, non sarebbe retroattiva un’imposta introdotta in corso di periodo d’imposta. Infine, il Consiglio dei Ministri belga ha giustificato la nuova imposta con l’esigenza di semplificare e razionalizzare il sistema delle imposte applicabili alle banche, specificando che la base imponibile per il 2016 è stata determinata facendo riferimento ai debiti esistenti al 31 dicembre 2015 per evitare che i soggetti passivi potessero riorganizzarsi per ridurre l’onere tributario.

Le banche in giudizio hanno, dal canto loro, sostenuto la natura retroattiva della nuova imposta, che, sostituendo la similare imposta annuale sugli enti creditizi in vigore al 1° gennaio 2016 (e già corrisposta entro il 31 luglio 2016), era esigibile alla data del 1° gennaio 2016, cioè anteriormente alla entrata in vigore della legge istitutiva del 3 agosto 2016. Le banche hanno inoltre sottolineato che, nella fattispecie, sarebbe mancato un obiettivo di interesse generale idoneo a rendere indispensabile la retroattività della predetta legge, che dunque non sarebbe stata giustificata.

La Corte costituzionale belga, esaminati le norme censurate, i lavori preliminari e il divieto di discriminazioni, ha affermato che il principio della irretroattività delle norme è una garanzia volta a prevenire l’incertezza giuridica e tale garanzia richiede che il contenuto della legge sia prevedibile e accessibile, di modo che il soggetto passivo possa ragionevolmente considerare le conseguenze dei propri atti nel momento in cui li compie. Di conseguenza la retroattività della legge è giustificata solo se è “essenziale” per raggiungere un obiettivo di interesse generale.

Sulla base di tale premessa, la Corte costituzionale ha verificato se la norma in questione fosse retroattiva, muovendo dal presupposto che sono tali le norme tributarie che si applicano a fatti, atti e situazioni che sono definitivamente perfezionati al momento della loro entrata in vigore.

In tale prospettiva, i giudici supremi hanno constatato che la legge 3 agosto 2016 dispone, per l’anno 2016, che l’imposta è dovuta a partire dal 1° gennaio 2016, con la conseguenza che il fatto imponibile si è perfezionato definitivamente al più tardi a tale data. Da tale circostanza la Corte ha concluso senza indugio nel senso della natura retroattiva della legge 3 agosto 2016.

Ciò posto, la Corte belga ha verificato se la norma retroattiva in questione fosse “indispensabile” per il conseguimento di un obiettivo di interesse generale, tenendo presente che quest’ultimo può richiedere che una misura fiscale abbia efficacia retroattiva, con la conseguenza che sia impossibile per i contribuenti mitigare in anticipo gli effetti della misura.

In proposito, i giudici supremi hanno ritenuto che dall’insieme dei lavori preparatori non si evinca la ragione per cui il legislatore avrebbe ritenuto “necessaria” l’efficacia retroattiva della norma in questione al fine di realizzare gli obiettivi perseguiti, vale a dire la semplificazione del sistema fiscale, l’aumento del gettito e la continuità della riscossione.

Da ciò la Corte costituzionale ha tratto la conclusione che l’efficacia retroattiva della legge 3 agosto 2016 non fosse giustificata e, quindi, la norma emessa in violazione del principio generale di non retroattività della legge, immanente nel divieto di discriminazioni.

Tale sentenza si caratterizza, dunque, per una valutazione estremamente puntuale della natura di norma tributaria retroattiva, in quanto intervenuta successivamente al termine iniziale di pagamento dell’imposta, ossia quando la relativa obbligazione si è già perfezionata definitivamente, nonché per un esame estremamente rigoroso della giustificazione della norma retroattiva, a tutela dei principi generali, dotati di autonoma rilevanza, della certezza del diritto e della ragionevole prevedibilità delle conseguenze giuridiche delle proprie condotte nel momento in cui sono compiute.

3. La posizione della Corte costituzionale belga espressa con la sentenza in esame (secondo cui la norma retroattiva deve essere “indispensabile” per il conseguimento di un interesse generale, affinché sia legittima) sembra essere allineata a quella della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU), che ha esaminato la questione delle norme tributarie retroattive nell’alveo dell’art. 1, primo protocollo aggiuntivo alla CEDU (con riguardo alle norme retroattive rileva altresì l’art. 6 CEDU, sul processo equo, il quale tuttavia non trova applicazione alle obbligazioni tributarie, salvo che non siano in discussione anche sanzioni amministrative tributarie sostanzialmente penali).

L’art. 1 del primo protocollo, secondo la giurisprudenza costante della Corte di Strasburgo, contiene l’enunciazione di tre norme distinte: (a) la prima, espressa nella prima frase del primo paragrafo, riveste un carattere generale ed enuncia il principio del pieno godimento della proprietà; (b) la seconda, prevista con la seconda frase dello stesso primo paragrafo, concerne la privazione della proprietà e l’assoggetta a determinate condizioni (predeterminazione normativa delle ingerenze nel godimento della proprietà, per ragioni di “pubblica utilità”); (c) la terza, espressa nel secondo paragrafo, riconosce agli Stati contraenti il diritto di disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’“interesse generale” e - ciò rileva specificamente in materia tributaria - di assicurare il pagamento di imposte, contributi e ammende.

Le tre norme citate, ha comunque specificato la Corte EDU, non sono “distinte”, nel senso che non sono in rapporto di alternatività tra loro. La seconda e la terza riguardano, infatti, casi particolari di ingerenza nel diritto al pieno godimento della proprietà e debbono pertanto interpretarsi nel rispetto del principio generale enunciato nella prima norma, ossia il rispetto del godimento della proprietà. Pertanto, l’ambito del controllo della Corte EDU, ai sensi dell’art. 1 del primo protocollo alla CEDU, consiste principalmente nel verificare la sussistenza di un “giusto equilibrio” tra le esigenze dell’interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’uomo, essendo tale esigenza inerente all’insieme della CEDU medesima.

In tale contesto (nonché in relazione all’art. 6 CEDU), la Corte EDU ha sottolineato come, in linea di principio, non sia vietato per lo Stato contraente emanare norme tributarie retroattive (discorso diverso per le sanzioni amministrative sostanzialmente penali, che ricadono nell’ambito di applicazione dell’art. 7 della CEDU, che esclude in maniera assoluta la possibilità di prevedere sanzioni retroattive, analogamente all’art. 25 Cost., il quale è però limitato alle sole sanzioni formalmente penali).

Tuttavia, ha sottolineato la Corte di Strasburgo, i principi della “certezza del diritto” e del “legittimo affidamento”, che derivano dal principio dello “Stato di diritto”, che è uno dei principi fondamentali di una “società democratica” ed è immanente in ogni articolo della Convenzione (a cui si aggiunge, laddove applicabile, la nozione di processo equo, che preclude che il legislatore possa intromettersi nella amministrazione della giustizia, con norme dirette a influenzare l’esito dei processi in corso a favore dello Stato), limitano il margine di discrezionalità del legislatore nel prevedere norme retroattive.

Al fine della legittima emanazione di norme retroattive sono, infatti, richiesti degli “impellenti” motivi (“compelling grounds”) di interesse generale a giustificazione della norma, compresa quella impositiva. Tali impellenti motivi di interesse generale devono essere esaminati in senso restrittivo, vale a dire – usando le parole della Corte – «con il massimo grado di circospezione possibile» (Corte EDU, Vegotex International S.A. c. Belgio [GC], 3 novembre 2022, n. 49812/09, § 93).

Detti pressanti motivi a giustificazione di norme impositive retroattive devono essere valutati prioritariamente dalle autorità dello Stato contraente, nel rispetto del margine di apprezzamento a queste riservato, ma che la Corte di Strasburgo si riserva di verificare. Essa li ha ravvisati nelle esigenze di rimediare a carenze tecniche di una normativa precedente, di interpretare e chiarire una precedente disposizione normativa, di riempiere un vuoto normativo, di impedire che determinati contribuenti vengano a beneficiare di un vantaggio inaspettato e non previsto a seguito dell’introduzione di un nuovo regime tributario ovvero di lottare contro l’evasione fiscale o di prevenire manovre elusive (Corte EDU, Vegotex, cit., § 104; Corte EDU, Hôpital Local Saint-Pierre D’Oléron e altri c. Francia, 8 novembre 2018, n. 18096/12, § 72; Corte EDU, N.K.M. c. Ungheria, 14 maggio 2013, n. 66529/11, § 51). Viceversa, la Corte EDU ha affermato che non sono idonei di per sé a giustificare norme retroattive i meri interessi finanziari dello Stato (Corte EDU, Vegotex, cit., § 103).

4. Anche la Corte di Giustizia dell’Unione Europea sembra avere un approccio tendenzialmente analogo a quello della Corte EDU in ordine al tema delle norme retroattive, ossia diretto a valorizzare i principi della certezza del diritto e dell’affidamento, quali limiti - non assoluti - alle norme retroattive extra-penali.

Nello specifico, i giudici di Lussemburgo hanno innanzitutto dedicato attenzione a individuare le norme da considerarsi propriamente retroattive, ossia quelle che trovano applicazione a «situazioni acquisite anteriormente alla loro entrata in vigore». Infatti, premesso che, in linea di principio, una nuova norma giuridica si applica a partire dall’entrata in vigore dell’atto che la istituisce, la Corte di Giustizia ha distinto le norme procedurali, considerate generalmente applicabili alla data della loro entrata in vigore, da quelle sostanziali, che, pur non applicandosi a «situazioni giuridiche sorte e definitivamente acquisite in vigenza della vecchia legge», si applicano non solo alle situazioni giuridiche nuove ma anche agli «effetti futuri di una situazione sorta in vigenza della precedente norma», salvo l’esistenza di specifiche disposizioni di segno diverso.

Invero, per garantire l’osservanza dei principi della certezza del diritto e della tutela del legittimo affidamento, le norme devono interpretarsi nel senso che si possono applicare a «situazioni acquisite anteriormente alla loro entrata in vigore» soltanto in quanto dalla lettera, dallo scopo o dalla sistematica di tali norme risulti chiaramente che dev’essere loro attribuita una tale efficacia (Corte di Giustizia UE, 16 marzo 2023, Comm. Eur./Jiangsu Seraphim Solar System, C‑439/20 P e C‑441/20 P, punti 126 e 127).

In merito ai presupposti sostanziali affinché una norma possa applicarsi retroattivamente, la Corte ha sottolineato la necessità del rispetto dei principi della certezza di diritto e della tutela dell’affidamento (corollario del primo principio), che sono espressione dei principi generali del diritto dell’U.E. e che devono essere osservati dalle istituzioni europee e dagli Stati membri quando attuano il diritto dell’Unione.

Tali principi implicano innanzitutto che le norme giuridiche siano chiare, precise e prevedibili nella loro applicazione per coloro che vi sono sottoposti. Tali requisiti “qualitativi” delle norme si impongono «con rigore particolare quando si tratta di una normativa idonea a comportare oneri finanziari, al fine di consentire agli interessati di conoscere con esattezza l’esistenza degli obblighi che essa impone loro» (Corte di Giustizia UE, 10 settembre 2009, Plantanol, C-201/08, punto 4).

Tuttavia, ha precisato la Corte di Giustizia, non si può invocare il principio dell’affidamento in mancanza di assicurazioni precise delle Autorità ovvero quando un operatore economico, prudente ed accorto, fosse in grado di prevedere l’adozione di un provvedimento idoneo a ledere i suoi interessi, anche e soprattutto in ragione degli annunci del legislatore. Neppure si può invocare il principio della tutela dell’affidamento per conservare un vantaggio fiscale esistente, che può essere modificato discrezionalmente dal legislatore, come nel caso in cui una direttiva in ambito fiscale lasci ampio margine agli Stati membri.

Con specifico riguardo alle norme retroattive, i giudici di Lussemburgo hanno altresì sottolineato che, «benché, in linea di massima, il principio della certezza del diritto osti a che l’efficacia nel tempo di un atto comunitario decorra da una data anteriore alla sua pubblicazione, una deroga è possibile, in via eccezionale, qualora lo esiga lo scopo da raggiungere e purché il legittimo affidamento degli interessati sia debitamente rispettato» (Corte di Giustizia UE, 26 aprile 2005, Stichting «Goed Wonen», C-376/02, punto 33).

In tale prospettiva, dunque, in linea di massima il principio di tutela del legittimo affidamento osta a che una modifica normativa privi il contribuente, con effetto retroattivo, del diritto di cui fruiva anteriormente. Tuttavia, in casi eccezionali, come la necessità di prevenire frodi ovvero situazioni abusive (Corte di Giustizia UE, Stichting «Goed Wonen», cit., punto 39) o recuperare aiuti di stato dichiarati illegittimi (Corte di Giustizia UE, 22 giugno 2006, Belgio/Commissione, C-182/03 e C-217/03, punto 154), sussiste un interesse generale idoneo a legittimare una norma retroattiva, purché sia debitamente rispettato il legittimo affidamento dei soggetti passivi.

Venendo alla Corte costituzionale italiana, esaminando in generale l’evoluzione nel tempo della sua giurisprudenza sul tema delle norme retroattive, si osserva come essa si sia evoluta muovendo da una posizione particolarmente tollerante verso le norme retroattive (in virtù della mancata costituzionalizzazione di alcun limite espresso in proposito, al di fuori delle norme penali in senso stretto), a una posizione che, almeno in termini di affermazioni astratte, è sostanzialmente allineata con quella dei giudici sovrannazionali europei. Infatti, a partire dalla fine degli anni cinquanta, la Corte costituzionale, pur riconoscendo che il principio di irretroattività rappresenti «un’antica conquista della nostra civiltà giuridica», riconosciuto dall’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale (poi ribadito e specificato, in materia tributaria, dall’art. 3 della Statuto del contribuente), ha sottolineato come esso non fosse stato «assurto nel nostro ordinamento alla dignità di norma costituzionale», se non per la materia penale ex art. 25 Cost., con la conseguente legittimità delle norme retroattive, salvo contrasto «con qualche specifico precetto costituzionale», escludendosi però che alcuno ostacolo alla retroattività potesse derivare dagli artt. 23 e 24 Cost. (Corte Cost. n. 118/1957). La Corte ha ribadito tali concetti anche con riguardo alla materia tributaria, escludendo altresì che eventuali limiti alle norme tributarie retroattive potessero trovare fondamento negli art. 23, 41, 42 e 53 Cost. (Corte Cost. n. 81/1958 e Corte Cost. n. 9/1959).Successivamente, con la sentenza n. 45/1964, la Corte ha per la prima volta dichiarato che una norma tributaria retroattiva potesse porsi in contrasto con l’art. 53 Cost. Infatti, sebbene la norma tributaria retroattiva non comporti di per sé violazione del principio di capacità contributiva, la violazione sussisterebbe, invece, laddove questa “spezzi” il «rapporto che deve sussistere tra imposizione e capacità contributiva», per avere assunto a presupposto un fatto o una situazione passati, non più esistenti al momento di entrata in vigore della norma, ovvero innovi, estendendo i suoi effetti al passato, gli elementi caratterizzanti della prestazione imposta (nel caso di specie, tuttavia, la questione di costituzionalità venne respinta, in quanto la norma retroattiva avrebbe riguardato un «punto non essenziale della figura del tributo», limitandosi a eliminare «intorno ad esso dubbi e incertezze»). Tale apertura è stata fatta propria dalla successiva sentenza n. 44/1966, con la quale la Consulta ha per la prima volta dichiarato l’incostituzionalità di una norma tributaria retroattiva per avere “spezzato” il rapporto tra imposizione e capacità contributiva, applicandosi l’imposta in questione a rapporti esauriti anche in un tempo notevolmente remoto, quando non era neanche prevedibile l’istituzione della nuova imposta, senza alcuna razionale presunzione che gli effetti economici del presupposto realizzatosi nel passato permanessero ancora nella sfera giuridica del contribuente (si trattava della istituzione retroattiva della imposta sugli incrementi di valore delle aree fabbricabili di cui agli artt. 25, comma 2, 27, commi 1 e 2, e 43, comma 3, della legge n. 246/1963. Cfr. altresì Corte Cost. n. 75/1969). Dunque, in base a questa impostazione, che ha avuto ampio seguito nella giurisprudenza della Consulta, sembra che la Corte abbia fatto dipendere l’illegittimità delle norme tributarie retroattive in base alla ragionevolezza della retroattività, da valutarsi principalmente in ragione della rilevanza del lasso temporale intercorso tra il fatto oggetto di disciplina e l’emanazione della norma retroattiva, senza tuttavia individuare in concreto altri limiti alle norme tributarie retroattive rispetto al fattore temporale. Tuttavia, già negli anni Ottanta, iniziarono a valorizzarsi i principi dell’affidamento e della sicurezza giuridica. Infatti, con riguardo ai rapporti di durata, tra cui rientrano anche quelli relativi ai tributi periodici, la Consulta ha chiarito che questi possano essere sempre modificati in peius per il futuro (dunque, non esiste una aspettativa costituzionalmente tutelata alla immodificabilità dei rapporti, anche con riguardo alle situazioni soggettive perfette), salvo, qualora si tratti di norme retroattive, queste non trasmodino «in un regolamento irrazionale» che arbitrariamente incida «sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti, frustrando così l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, che costituisce elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto» (Corte Cost. n. 349/1985).

Negli anni Novanta, inoltre, la Corte costituzionale ha iniziato a meglio delineare i limiti alla previsione di norme retroattive (posto che fino ad allora si limitava a indicare l’art. 25 Cost. ovvero, in termini generici, altro principio o valore costituzionale). Quindi, con la sentenza n. 397/1994, è stata effettuata una precisa ricostruzione sistematica dei principi affermati in materia, ribadendosi che una norma retroattiva in materia extrapenale è possibile, purché si rispetti «una serie di limiti che la Corte ha da tempo individuato, e che attengono alla salvaguardia, oltre che [i] dei principi costituzionali, [ii] di altri fondamentali valori di civiltà giuridica posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio di ragionevolezza che ridonda in ingiustificata disparità di trattamento (sentenze n. 6 del 1994; 424 e 283 del 1993; 440 del 1992 e 429 del 1991); [iii] la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto (sentenze n. 424 e 39 del 1993; n. 349 del 1985); [iv] la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico (sentenze n. 6 del 1994; 429 del 1993; 822 del 1988); [v] il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario». Dunque, sembra corretto ritenere che, applicandosi tali criteri alle norme tributarie retroattive, queste potrebbero essere considerate illegittime anche nel caso in cui la retroattività sia limitata nel tempo (venendosi a tassare “oggi per allora” situazioni recenti) e, quindi, non sia necessariamente “spezzato” il rapporto con la capacità contributiva. Infine, nella giurisprudenza più recente, la Corte è tornata ad affermare, in termini più generici, che la retroattività debba trovare «adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza, “attraverso un puntuale bilanciamento tra le ragioni che ne hanno motivato la previsione e i valori, costituzionalmente tutelati, al contempo potenzialmente lesi dall’efficacia a ritroso della norma adottata”» (Corte Cost. n. 104/2022; Corte Cost. n. 70/2020).A ogni modo, fermo restando che la norma retroattiva non è di per sé illegittima, dalla giurisprudenza della Consulta si evince che essa rispetti i principi, diritti e beni di rilievo costituzionale quando abbia una “causa normativa adeguata”, quale un “interesse pubblico sopravvenuto” o una “inderogabile esigenza”, e sia comunque rispettato il principio di ragionevolezza, inteso anche come principio di proporzionalità (Corte Cost. n. 149/2017; Corte Cost. n. 73/2017). Viceversa, tra gli indici di irragionevolezza della norma retroattiva è stata ricompresa l’ipotesi in cui il legislatore qualifichi come interpretativa una norma priva dei requisiti sostanziali per essere tale (Corte Cost. n. 283/1993) ovvero neghi il diritto al rimborso quando escluda retroattivamente l’obbligazione tributaria (Corte Cost. 416/2000), mentre la violazione dell’affidamento - quale limite alle modifiche dei rapporti di durata - ricorre in presenza di un regolamento irrazionale di situazioni sostanziali fondate su legge anteriori (Corte Cost. n. 390/1995). Infine, ricorre una illegittima intromissione nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali, laddove la norma retroattiva risolva “specifiche controversie”, violando i principi relativi ai rapporti tra potere legislativo e potere giurisdizionale (Corte Cost. n. 12/2018).

5. Nella evoluzione della sua giurisprudenza in materia, si osserva altresì che la Corte costituzionale ha utilizzato anche il concetto della “prevedibilità” dell’intervento normativo.

Infatti, con la sentenza n. 315/1994, esaminando una norma tributaria concernente la estensione retroattiva per tre anni della tassazione sulle plusvalenze realizzate in occasione di cessioni anche volontarie nel corso di procedimenti ablatori (art. 11 della legge n. 413/1991), essa ha legittimato tale disposizione in quanto ritenuta “prevedibile”, con conseguente permanenza della capacità contributiva. Ciò in quanto la norma si è limitata a completare un quadro ordinatore generale già desumibile dalla normativa in essere, in cui la nuova, più compiuta ed esauriente disciplina, diretta a recepire un orientamento emerso nei dibattiti in materia, è sostanzialmente riconducibile alla medesima ratio delle fattispecie già previste.

Richiamando il concetto della “prevedibilità”, pur fortemente criticato da autorevole dottrina (FALSITTA, Il principio della capacità contributiva, Milano, 2014, 155), la Corte sembra aver recepito l’eco della giurisprudenza sovrannazionale europea, che ha anch’essa valorizzato tale elemento al fine di ponderare la sussistenza di una valida giustificazione della norma retroattiva, in quanto corollario del principio di legalità. La “prevedibilità” deve, quindi, intendersi non già certamente quale mera possibile previsione astratta di future modifiche normative, bensì quale conseguenza prevedibile in ragione di specifiche e determinate circostanze del caso concreto - quali, ad esempio, gli annunci del governo, la correzione di difetti o vuoti normativi, la prevenzione di condotte elusive o evasive, etc. - che giustifichino appunto l’intervento retroattivo.

Del resto, a partire dalla riforma del titolo V della Costituzione, sono divenuti sempre più frequenti i richiami alla giurisprudenza della Corte EDU, anche con riguardo al tema dei limiti alle norme retroattive. Conseguentemente, a partire dalla sentenza n. 264/2012, la Consulta, aggiornando l’inquadramento generale dei limiti alle norme retroattive, ha affermato che l’impostazione della Corte EDU, che ammette le norme retroattive solo nel caso in cui siano giustificate da motivi impellenti o imperativi di interesse generale, sarebbe «sostanzialmente coincidente con i principi enunciati» dalla Corte costituzionale medesima, salvo rivendicare la necessità di effettuare un bilanciamento con tutti gli altri interessi costituzionalmente protetti, coinvolti nella disciplina della disposizione censurata, a differenza della Corte EDU che invece rimarca la necessità di valutare le circostanze addotte a giustificazione della retroattività in senso restrittivo.

A ogni modo, non sono mancate occasioni in cui la Consulta, recependo l’orientamento dei giudici sovrannazionali europei, abbia affermato che l’interesse economico dello Stato, di per sé, non sarebbe idoneo a legittimare un intervento retroattivo che crei disparità di trattamento (Corte Cost. n. 170/2013; Cost. n. 262/2020).

C’è da chiedersi tuttavia se tale condivisibile orientamento possa essere pregiudicato dalla riforma dell’art. 81 Cost., a opera dell’art. 1 della legge cost. n. 1/2012, in vigore dal 2014.

In proposito, sembra corretto ritenere che l’inserimento del principio dell’equilibrio del bilancio, imponendo al legislatore di agire nel rispetto delle regole europee in materia di bilancio pena una violazione costituzionale sostanziale, incida non solo sulle decisioni relative alle spese, ma anche su quelle afferenti alle entrate e, dunque, sulla portata del principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., ma ciò non fino al punto di costituire una “panacea” delle possibili violazioni costituzionali (disparità di trattamento, irragionevole violazione dell’affidamento, etc.) poste in essere con norme tributarie retroattive, dovendosi piuttosto limitare la sua preminenza, in quanto norma processuale, con riguardo ai presupposti finanziari che devono essere assolti per l’emanazione delle norme.

Se infatti la nuova norma costituzionale è stata introdotta per rendere più stringente il recepimento della normativa unionale in tema di bilancio pubblico (CABRAS, L’art. 81 della Costituzione, in www.lamagistratura.it del 26 luglio 2022), gli effetti derivanti da quest’ultima, compreso quello dell’equilibrio del bilancio, non dovrebbero essere utilizzati quale giustificazione di norme retroattive in violazione dei diritti fondamentali (giungendo all’assurdo che quanto maggiore è il gettito della norma incostituzionale, quanto più questa debba essere salvata), posto che il rispetto di quest’ultimi è un principio generale riconosciuto dallo stesso diritto dell’Unione, come del resto e in primis dalla Costituzione.

Dunque, si è dell’avviso che il parametro dell’equilibrio del bilancio di cui all’art. 81 non debba prevalere sistematicamente, alla stregua di un “super-valore costituzionale”, sui principi di certezza della legge e di tutela dell’affidamento (SALERNO, La sentenza n. 70 del 2015: una pronuncia non a sorpresa e da rispettare integralmente, in www.federalismi.it, 20 maggio 2015) al fine di legittimare qualsivoglia norma tributaria retroattiva, ma solo in situazioni del tutto eccezionali, di modo che la prevalenza dell’equilibrio del bilancio, affermata in occasione della sentenza sulla Robin Tax (in tale occasione, quale limite alla efficacia retroattiva della sentenza di incostituzionalità), costituisca una deroga eccezionale e non già la regola.

6. Dalla analisi svolta delle posizioni della Corte costituzionale belga, della Corte EDU, della Corte di Giustizia e della Consulta è possibile trarre le seguenti conclusioni.

In primo luogo, si evince come, in termini astratti, vi sia stata una progressiva convergenza di posizioni circa la valutazione dei presupposti legittimanti le norme tributarie retroattive, ferme restando le peculiarità dei relativi giudizi e una notevole astrattezza dei criteri di valutazione, solo in parte mitigata dalla casistica giurisprudenziale; ciò comporta che le corti supreme hanno sempre un ampio margine di discrezionalità nel decidere in materia. Sussiste, tuttavia, l’incognita italiana del possibile utilizzo “salvifico” del principio dell’equilibrio del bilancio sancito dall’art. 81 Cost. Norma che, come sembra preferibile ritenere, dovrebbe essere applicata alle norme tributarie retroattive con la massima circospezione, per evitare che si trasformi in una “panacea” di qualsivoglia violazione dei diritti fondamentali.

Da tale convergenza di posizioni sembra corretto ritenere che le norme tributarie retroattive possano essere ritenute costituzionalmente illegittime non soltanto quando la retroattività sia così estrema da “spezzare” il rapporto con la capacità contributiva, come si evinceva con le prime pronunce della Consulta in materia, ma anche quando la retroattività sia limitata nel tempo (e dunque inidonea a “spezzare” il rapporto astratto con la capacità contributiva), allorquando non sia giustificata da motivi “imperativi” di interesse generale, a tutela dei principi della certezza del diritto e dell’affidamento, che assumono ormai una dignità costituzionale propria.

Nel contesto di questo “dialogo” tra corti supreme, la sentenza dalla Corte belga in esame merita particolare apprezzamento per il rigore avuto nell’individuare la natura retroattiva della norma impositiva ivi esaminata, in quanto emessa (in data 3 agosto 2016) successivamente al momento iniziale per assolvere il tributo (1° gennaio 2016). Infatti, constatato che il tributo per l’anno 2016 (eccezionalmente calcolato su una base imponibile afferente il 2015) era dovuto a partire dal 1° gennaio 2016, la Corte belga ha chiarito che la situazione tributaria dei contribuenti era “definitivamente stabilita” a tale data, escludendosi a tal fine ogni rilevanza al termine ultimo per il pagamento del tributo medesimo, scadente in data successiva alla intervenuta modifica normativa.

Deve condividersi, in effetti, l’impostazione della Corte belga, secondo cui le modifiche normative intervenute successivamente al momento in cui il tributo sia “definitivamente stabilito” ovvero “acquisito” (per usare, in quest’ultimo caso, l’espressione della Corte di Giustizia) abbiano natura retroattiva. Momento che deve di norma individuarsi, per i tributi periodici, con la chiusura del periodo d’imposta e, per i tributi non periodici, quando si realizza il presupposto d’imposta ovvero, a seconda delle diverse fattispecie concrete, nel primo giorno utile per il pagamento del tributo definitivamente dovuto, come nel caso belga, o al più tardi nel primo giorno utile per la presentazione della dichiarazione fiscale (si pensi, ad esempio, ai termini desumibili dagli artt. 1, 2 e 8 del d.p.r. n. 322/1988), poiché in tali momenti la fattispecie impositiva è senz’altro perfezionata definitivamente.

Ne consegue che, in tale prospettiva, le eventuali modifiche alla disciplina del tributo approvate successivamente al momento in cui questo è definitivamente stabilito o perfezionato, anche se ancora in pendenza del termine ultimo per effettuare il versamento, devono considerarsi retroattive, con la conseguenza che devono essere rigorosamente giustificate per essere legittime.

In proposito, la Corte belga, ritenuta retroattiva la disciplina esaminata, ha rimarcato come essa potrebbe essere legittima solo in presenza di una “rigorosa giustificazione”, vale a dire che l’efficacia retroattiva fosse “indispensabile” per realizzare gli obiettivi di interesse generale perseguiti dal legislatore; giustificazione che ha ritenuto non essere stata fornita nel caso di specie, poiché gli interessi invocati dal governo belga alla semplificazione del sistema fiscale, all’aumento del gettito e alla continuità della riscossione non sono stati considerati idonei a giustificare la necessità che le modifiche normative in questione avessero efficacia retroattiva. Detto in altri termini, l’efficacia retroattiva non è stata ritenuta “indispensabile” per il conseguimento dei citati obiettivi di interesse generale.

Discorso ben diverso sarebbe stato, invece, se il legislatore fosse intervenuto prima che l’obbligazione tributaria si fosse perfezionata. In tal caso, infatti, come ad esempio quanto interviene a modificare la disciplina dei tributi periodici nel corso del periodo d’imposta, anche solo nell’ultimo giorno (c.d. retroattività “non autentica”), si riconosce in favore del legislatore una maggiore discrezionalità o, per usare le parole della Corte EDU, margine di apprezzamento, con conseguente legittimità della modifica normativa (Corte Cost. n. 341/2000; Corte Cost. n. 16/2002). E ciò anche, con riguardo al nostro ordinamento, in deroga al principio generale sancito dall’art. 3 della legge n. 212/2000, che purtroppo, pur essendo espressione di principi generali e costituzionali, è stato ritenuto non costituzionalizzato.

7. Circa le possibili ricadute pratiche del metro di giudizio adottato dalla Corte belga - invero, in linea con quello della Corte EDU e della Corte di Giustizia, e non sconosciuto neppure alla nostra Corte costituzionale (Corte Cost. n. 45/1964) - si osserva che sarebbe senz’altro retroattivo l’incremento dell’aliquota dal 12 al 26 per cento dell’imposta sostitutiva sui maggiori valori iscritti nel bilancio in corso al 31 dicembre 2013, per effetto della rivalutazione obbligatoria delle quote in Banca d’Italia ex 6 del d.l. n. 133/2013, previsto dall’art. 4, comma 12, del decreto legge 24 aprile 2014, n. 66, che ha modificato la disciplina originaria dell’imposta in questione introdotta dall’art. 1, comma 148 della legge n. 147/2013. Infatti, l’incremento di quattordici punti percentuali dell’imposta sostituiva in questione (con pagamento in un’unica rata in luogo delle tre rate annuali originarie) è stato previsto successivamente alla chiusura del periodo d’imposta 2013 e, quindi, al perfezionamento di tutti gli elementi costitutivi del tributo (i.e., presupposto, base imponibile, aliquota e, dunque, importo dovuto).

In tale prospettiva, al fine di stabilire la natura retroattiva della norma, è irrilevante la circostanza che l’incremento dell’aliquota sia stato introdotto anteriormente alla scadenza del termine del versamento dell’imposta.

Dalla natura retroattiva della modifica normativa consegue che essa, per essere costituzionalmente legittima, non solo non deve spezzare il “nesso” con la capacità contributiva (come sembra accadere nella fattispecie, essendo la norma introdotta solo quattro mesi dopo il termine del periodo d’imposta), ma dovrebbe altresì essere giustificata da un “impellente”-“imperativo” motivo di interesse generale, da valutarsi in modo circoscritto, diverso dal solo interesse finanziario dello Stato, secondo i criteri affermati dalla Corte EDU. Criteri a cui pure si rifà la Consulta nel verificare la ragionevolezza dell’intervento legislativo retroattivo, attraverso il bilanciamento tra i contrapposti interessi aventi rilevanza costituzionale, tra i quali, a favore dei contribuenti, si annoverano quelli della certezza del diritto e dell’affidamento.

La Corte costituzionale, tuttavia, pure investita della relativa questione, l’ha dichiarata inammissibile con la recente sentenza n. 108/2023, in quanto il giudice a quo non avrebbe chiarito le ragioni per cui tale «supposta retroattività della normativa censurata violerebbe i parametri invocati», costituiti dagli artt. 3, 41 e 53 Cost., aggiungendo che tale lacuna non sarebbe colmabile con le argomentazioni sviluppate dalle parti costituite. A ogni modo, prescindendo dalle lacune della motivazione della ordinanza di rimessione, si osserva che è difficile individuare un interesse generale “impellente” idoneo a giustificare il macroscopico e non prevedibile innalzamento di ben quattordici punti percentuali dell’aliquota in questione, laddove si escluda la rilevanza dell’interesse finanziario dello Stato a giustificazione delle norme retroattive (in quanto detto interesse non giustifica l’alterazione dei principi della certezza del diritto e della tutela dell’affidamento, dovendo il legislatore di norma provvedere per il futuro). Nel caso di specie, infatti, non sussiste l’esigenza di correggere alcun difetto o lacuna della norma originaria ovvero contrastare l’evasione o l’elusione dell’imposta in questione.

Tale norma retroattiva è altresì irragionevole, in quanto ha alterato nella sostanza la corretta formazione del risultato di esercizio al 31 dicembre 2013, per essere stata introdotta quando i bilanci di esercizio dei soggetti interessati erano stati già fisiologicamente predisposti dall’organo amministrativo e oggetto di verifica dagli organi di controllo (art. 2429 c.c.), se non anche approvati.

Ciò ha alterato la corretta formazione del risultato dell’esercizio 2013, frustrando le valutazioni circa l’accantonamento delle risorse necessarie per assolvere l’originaria imposta sostitutiva del 12% (in tre rate annuali), con le inevitabili conseguenze sull’ammontare dei dividendi distribuibili (che sono stati quindi sovrastimati) e sulla formazione delle riserve, mettendo in crisi la programmazione delle uscite di cassa, necessaria per un’equilibrata gestione delle attività della Società.

Né il repentino incremento improvviso dell’aliquota era prevedibile, non essendo stato preceduto da alcun annuncio da parte del governo o delle autorità preposte, né da un dibattito pubblico, essendo intervenuto improvvisamente a ridosso della scadenza del termine di approvazione dei bilanci. Dunque, per tali ragioni, l’efficacia retroattiva dell’art. 4, comma 12, del decreto legge 24 aprile 2014, n. 66 sembra di difficile giustificazione costituzionale.

Particolarmente complessa e foriera di dubbi di costituzionalità è, altresì, la valutazione della norma retroattiva di cui all’art. 1, comma 127, della legge n. 197/2022, con il quale il legislatore ha introdotto una norma innovativa retroattiva, senza limiti temporali (salvo quelli desumibili dalla decadenza del potere di accertamento), per tassare indiscriminatamente i proventi derivanti dal realizzazo di qualsiasi cripto-attività, con conseguente lesione del principio della certezza del diritto e possibili ingiustificate discriminazioni. Tuttavia, prescindendo in questa sede dai dubbi sulla ragionevolezza sostanziale della norma in questione, muovendo sempre nel solco dei criteri elaborati dalla giurisprudenza europea e affini a quelli della Consulta, detta norma potrebbe essere giustificata con la necessità di colmare una lacuna dell’ordinamento tributario, in relazione alla quale l’Amministrazione finanziaria aveva già da tempo tentato, seppure in modo discutibile, di rimediare in via interpretativa (A.d.E., ris. 2 settembre 2016, n. 72). L’intervento retroattivo in questione potrebbe, quindi, essere ritenuto giustificato da un “impellente” motivo di interesse generale nonché “prevedibile”, tenuto conto del vasto e duraturo dibattito in ordine alla tassazione dei proventi da cripto-attività.

Infine, altro tema “caldo” riguarda l’introduzione di una tassa sui c.d. “extraprofitti” delle banche di cui all’art. 26 del d.l. n. 104/2023, il cui gettito, stando agli annunci del Governo, dovrebbe essere destinato ad “aiuti per i mutui per le prime case” e al taglio delle tasse. Tale imposta straordinaria, seppure abbia alcuni connotati indubbiamente retroattivi (colpendo un margine di interesse in buona parte maturato anteriormente alla introduzione dell’imposta), non è una imposta retroattiva in senso proprio, essendo stata introdotta anteriormente al termine del relativo periodo d’imposta, quando cioè la base imponibile è ancora in corso di perfezionamento. Ne consegue che essa, a prescindere dalla sua idoneità a colpite l’effettivo extraprofitto delle banche (ciò che inciderebbe sotto altri profili sulla legittimità costituzionale del tributo), non si pone in contrasto con i limiti alla previsione di norme impositive retroattive, come applicati dalla Consulta e dalle altre corti supreme.