Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

23/02/2024 - L'Amministrazione Finanziaria non può riqualificare autonomamente i contratti certificati secondo la legge Biagi

argomento: Sanzioni e contenzioso - Giurisprudenza

Nella sentenza che si annota la Corte di Giustizia Tributaria (CGT) dell’Emilia-Romagna interviene per la prima volta sul tema della riqualificazione dei contratti certificati da parte dell’Agenzia delle Entrate, attualmente oggetto di discussione presso la Corte di Cassazione. Si afferma che per l’appalto certificato secondo la procedura prevista dalla c.d. Legge Biagi è esclusa la possibilità per l’Ufficio di sindacare direttamente la qualificazione giuridica del contratto riqualificandolo in somministrazione illecita di manodopera. Infatti, la certificazione è destinata a produrre effetti nei confronti dei soggetti terzi, inclusa l’Amministrazione finanziaria, che dunque non può disconoscerne la validità se non seguendo la procedura prevista dalla stessa Legge Biagi. A tale riguardo, la CGT conferma anche l’esclusiva competenza del Giudice del Lavoro a decidere sulle contestazioni di erronea qualificazione o difformità dallo schema negoziale relative a contratti di lavoro certificati.

PAROLE CHIAVE: contratto di appalto - somministrazione di manodopera - legge Biagi - Agenzia delle Entrate - doppio binario


di Alessia Fidelangeli

1. La controversia oggetto della sentenza della Corte di Giustizia Tributaria (CGT) dell’Emilia-Romagna del 3 ottobre 2022, n. 1115 trae origine da un accertamento dell’Agenzia delle Entrate di Modena relativo al 2015. Con l’avviso di accertamento l’Agenzia aveva riqualificato un contratto, originariamente ricondotto a un contratto di appalto ex art. 78 d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (cd. Legge Biagi), come somministrazione di manodopera. In conseguenza, si erano riprese a tassazione ai fini IVA e IRAP le somme relative ai suddetti contratti.

Nella sentenza di primo grado la Commissione Tributaria Provinciale (CTP) di Modena si era concentrata su due aspetti specifici: in primo luogo, sul potere dell’Agenzia delle Entrate di procedere alla riqualificazione contrattuale; in secondo luogo, sulla correttezza della qualificazione proposta dall’Agenzia delle Entrate come contratto di somministrazione di manodopera alla luce della sentenza di assoluzione penale intervenuta nel frattempo sui medesimi fatti. Per quanto riguarda il primo aspetto, la CTP aveva ritenuto che fosse nel potere dell’Amministrazione finanziaria riqualificare i contratti. Nel merito aveva invece ritenuto che l’intervenuta assoluzione in sede penale non potesse avere incidenza in ambito fiscale in ragione del doppio binario che stabilisce la completa autonomia del processo penale e tributario.

Nell’appello alla CGT dell’Emilia-Romagna la parte ricorrente eccepisce che l’Agenzia delle Entrate non possa unilateralmente riqualificare il contratto senza seguire l’apposita procedura di contestazione di cui all’art. 80 della Legge Biagi.

È bene precisare che la fattispecie esaminata dai giudici tributari riguarda una specifica tipologia di contratti di appalto: quelli sottoposti volontariamente dalle parti del rapporto di lavoro alla speciale procedura di certificazione disciplinata dall’art. 78 della Legge Biagi.

La questione della qualificazione di determinate forme contrattuali come appalto oppure somministrazione di manodopera è già stata oggetto di attenzione da parte della dottrina giuslavorista (F. Bacchini, Somministrazione irregolare e costituzione giudiziale del rapporto di lavoro con l’utilizzatore, in Lavoro nella giurisprudenza, 2014, n. 11, p. 1002 ss.; P. Rausei, La disciplina del contratto di somministrazione, in Dir. prat. lav., 2017, n. 22, p. 1345 ss.; per quanto riguarda la giurisprudenza della Corte di Cassazione si vedano, tra le molte, Cass. civ., Sez. lavoro, 29 agosto 2003, n. 12663 e n. 12664; Cass. civ., Sez. lavoro, 25 giugno 2001, n. 8643; Cass. civ., Sez. lavoro, 5 maggio 1999, n. 4502; Cass. civ., Sez. lavoro, 21 maggio 1998, n. 5087). Anche la dottrina tributaria si è occupata della possibilità di riqualificare i suddetti contratti da parte dell’Amministrazione finanziaria (G. Confente, N. Fasano, Riqualificazione ai fini fiscali di appalti ad alta intensità di manodopera in somministrazione illecita di personale, in Il fisco, 2021, 36, p. 3428 ss.; A. Gaeta, Fatture per appalto di servizi a fronte di somministrazione di manodopera: l’IVA è indetraibile, in Il fisco, 2021, n. 34, p. 3291 ss.; F. Russo, L’indetraibilità dell’IVA negli appalti labour intensive non genuini, in Corr. trib., 2018, n. 36, p. 2767 ss.).

Tuttavia, la più precisa questione della riqualificazione di un contratto certificato ai sensi della Legge Biagi non sembra essere stata oggetto di attenzione in dottrina, malgrado il frequente ricorso a contratti di appalto cd. labour intensive, caratterizzati dalla prevalenza della forza lavoro sugli altri fattori produttivi e da uno scarso impiego di beni strumentali (G. Confente, N. Fasano, Riqualificazione ai fini fiscali di appalti, cit.).

2. Per comprendere la decisione della Corte occorre preliminarmente esaminare il contesto normativo in cui la controversia si inserisce.

Il contratto di appalto è definito dell’art. 1655 del Codice civile come il contratto col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in denaro. Il contratto di somministrazione di lavoro è definito dall’art. 30 del d.lgs. 81/2015 come «il contratto, a tempo indeterminato o determinato, con il quale un'agenzia di somministrazione autorizzata, ai sensi del decreto legislativo n. 276/2003, mette a disposizione di un utilizzatore uno o più lavoratori suoi dipendenti, i quali, per tutta la durata della missione, svolgono la propria attività nell'interesse e sotto la direzione e il controllo dell'utilizzatore» (per un approfondimento v. C. Garofalo, La somministrazione di lavoro nel jobs act tra tutele e promozione dell’occupazione, in Lavoro nella Giur., 2015, n. 12, p. 1143 ss.).

Nel 2003 la legge delega in materia di occupazione e riforma del mercato del lavoro (l. 14 febbraio 2003, n. 30) ha introdotto una procedura di certificazione relativa alla qualificazione del contratto di lavoro e dei suoi effetti (per un approfondimento v. E. Ghera, Contratti di lavoro (certificazione dei), in Dig. disc. priv., sez. comm., 2009). La certificazione ha lo scopo di attribuire piena forza legale al contratto e di ridurre il contenzioso, limitando la possibilità di ricorso in giudizio alle ipotesi di erronea qualificazione del programma negoziale da parte dell’organo preposto alla certificazione e di difformità tra il programma negoziale effettivamente realizzato dalle parti in sede di certificazione. Il Titolo VIII (artt. 75-84) della Legge Biagi, in attuazione della l. 30/2003 appena menzionata, contiene la disciplina delle procedure di certificazione. Lo stesso decreto legislativo, all’art. 29, individua la distinzione tra contratto di appalto e di somministrazione. Soltanto nella prima delle due fattispecie l’organizzazione dei mezzi necessari e l’assunzione del rischio d’impresa gravano sull’appaltatore.

Nella vicenda all’origine della sentenza che si annota il contratto di appalto era stato oggetto della procedura di certificazione prevista dall’art. 78 della Legge Biagi («Procedimento di certificazione e codici di buone pratiche»). La disposizione prevede che la procedura di certificazione è volontaria, che le procedure di certificazione devono essere comunicate alla Direzione provinciale del lavoro, che il procedimento di certificazione deve concludersi entro il termine di trenta giorni dal ricevimento dell’istanza e che copia del contratto può essere richiesta dalle autorità pubbliche nei confronti delle quali l'atto di certificazione è destinato a produrre effetti.

Secondo la procedura prevista dall’art. 78 nell’istanza congiunta che avvia la procedura di certificazione le parti indicano, tra gli altri elementi, effetti in relazione ai quali le parti richiedono la certificazione. Più specificamente, la certificazione produce effetti interni ed esterni. I secondi attengono alla costituzione della posizione amministrativa, previdenziale e fiscale delle parti (E. Ghera, Contratti di lavoro (certificazione dei), cit.) e si producono anche nei confronti delle autorità pubbliche destinatarie degli effetti dell’atto amministrativo. A tale proposito, l’art. 79 («Efficacia giuridica della certificazione») precisa che l'atto emesso dalla commissione ha effetti che permangono anche verso terzi e sono dunque vincolanti nei loro confronti, fino all'eventuale sentenza di annullamento pronunciata dal giudice civile oppure amministrativo, su ricorso giurisdizionale nei casi previsti al successivo art. 80.

Alla luce della suddetta disciplina si è sostenuto che l’effetto dell’atto di certificazione non coincide con il mero accertamento dell’esistenza del contratto e della qualificazione voluta dalle parti. Al contrario si tratta di un vero e proprio atto di certazione, cioè di un atto produttivo di certezza legale nella qualificazione dei rapporti interprivati nei confronti delle autorità pubbliche destinatarie degli effetti dell'atto amministrativo (E. Ghera, Contratti di lavoro (certificazione dei), cit., che richiama E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2000, p. 332 ss. M.S. Giannini, Diritto amministrativo, I, Milano, pp. 1993, 484-485). La peculiarità della certificazione di cui si discute è che l’esercizio del potere di certazione avviene in ragione della valutazione di una fattispecie contrattuale voluta dalle parti, e non di una semplice ricognizione della stessa. La dottrina ha individuato proprio in tale circostanza la ragione per cui l’accertamento ha efficacia preclusiva nei confronti dei terzi (cfr. L. Nogler, La certificazione dei contratti di lavoro, in DLRI, 2004, p. 203 ss.).

Dunque, l’art. 79 dispone la permanenza dell’efficacia dell’accertamento fino al momento in cui sia stato accolto, con sentenza di merito, uno dei ricorsi giurisdizionali esperibili ai sensi dell’art. 80 («rimedi esperibili nei confronti della certificazione»). Tale disposizione indica i presupposti dell’azione in giudizio e prevede che le parti e i terzi, nei cui confronti l’atto può produrre effetti, possono proporre ricorso nei confronti dell’atto di certificazione presso l’autorità giudiziaria per erronea qualificazione del contratto oppure difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione (si è sottolineato in E. Ghera, Contratti di lavoro (certificazione dei), cit., che tali ragioni corrispondono con le ragioni di fatto e di diritto che rilevano nel giudizio di qualificazione della fattispecie di lavoro subordinato secondo la giurisprudenza di merito e di legittimità).

Nell’ipotesi in cui l’autorità giurisdizionale accerti l’erroneità della qualificazione, la sentenza ha effetto ex tunc, cioè dal momento della conclusione dell’accordo contrattuale, in caso di erronea qualificazione; dal momento in cui la sentenza accerta che ha avuto inizio la difformità stessa, nel caso di riqualificazione del rapporto (art. 80 c. 2). La disposizione prevede anche che il comportamento complessivo tenuto dalle parti in sede di certificazione debba essere valutato dal giudice del lavoro (art. 80 c. 3). Il ricorso al giudice del lavoro è dunque l’unico strumento per contestare la certificazione e le regole applicabili al giudizio sono quelle ordinarie del processo (E. Ghera, Contratti di lavoro (certificazione dei), cit.). È previsto, però, che chiunque presenti ricorso giurisdizionale contro la certificazione deve previamente rivolgersi alla commissione di certificazione che ha adottato l'atto di certificazione per espletare un tentativo di conciliazione (c. 4). Nella vicenda all’origine della sentenza che si annota la contribuente censurava proprio la circostanza che l’Amministrazione finanziaria non avesse seguito la specifica procedura di contestazione di cui all'art. 80, pur dovendo essere considerata parte terza rispetto agli effetti del contratto ex art. 79.

3. La CGT dell’Emilia-Romagna ritiene l’appello fondato in quanto l’art. 79 prevede che gli effetti della certificazione del contratto di lavoro permangono fino al momento in cui sia stato accolto, con sentenza di merito, uno dei ricorsi giurisdizionali esperibili ai sensi dell'art. 80. Secondo la CGT tra i terzi verso cui l’atto spiega efficacia ex art. 79, rientrerebbero tutte le pubbliche amministrazioni, inclusa l’Amministrazione finanziaria. Qualora l’Amministrazione finanziaria potesse riqualificare i contratti, si svuoterebbero di significato la certificazione e gli effetti che la stessa dispiega verso i terzi.

A suffragio di tale posizione, la Corte richiama l’assenza di posizioni giurisprudenziali contrarie e la posizione conforme della dottrina. Dal momento che non sembra potersi rinvenire letteratura in ambito tributario che si sia espressa su tale punto specifico, appare plausibile che la CGT faccia riferimento alla dottrina giuslavoristica (cfr., ex multis, A. Battistutta, La certificazione del contratto di lavoro, in LG, 2005, n. 1, p. 14 ss; V. Brino, La certificazione dei contratti di lavoro tra qualificazione del rapporto e volontà assistita, in LD, 2006, nn. 2-3, p. 383 ss.; L. De Angelis, Delega al governo in materia di certificazione. La certificazione dei rapporti di lavoro, in M.T. Carinci (a cura di), La legge delega in materia di occupazione e mercato del lavoro, Milano, 2004, p. 233 ss.; E. Ghera, Contratti di lavoro (certificazione dei), cit.; G. Perone, Osservazioni sul valore giuridico della certificazione regolata dal d.lgs. n. 276 del 2003, in DL, 2004, nn. 1-2, p. 1 ss.). Come si è in parte già evidenziato, essa ha infatti sottolineato che il ricorso al giudice del lavoro è l’unico strumento per contestare la certificazione e che la certificazione produce effetti esterni al contratto nei confronti delle autorità pubbliche (v. il prec. para. 2), coerentemente con la circostanza che, ai sensi dell’art. 78, le parti devono indicare nell’istanza di certificazione gli effetti civili, amministrativi, previdenziali o fiscali in relazione ai quali viene richiesta la certificazione del contratto.

Secondo la CGT nemmeno l’art. 2 c. 3 d.lgs. 546/1992, che prevede il generale potere delle Corti di Giustizia Tributaria di risolvere incidentalmente le questioni da cui dipende la decisione sulla controversia tributaria, consentirebbe di giungere a conclusioni diverse (sull'art. 2 c. 3 d.lgs. 546/1992 v. ex multis E. M. Ruffini, L'evoluzione della giurisdizione tributaria e gli atti impugnabili, in Corr. giur., 2009, n. 7, p. 914 ss.; C. Beccalli, Giurisdizione tributaria: il nuovo art. 2 del d.lgs. n. 546/1992, al vaglio dell’Agenzia delle Entrate (Circolare n. 25/E del 21 marzo 2022), in Il fisco, 2002, n. 16, p. 2383 ss.; P. Russo, L’ampliamento della giurisdizione tributaria e del novero degli atti impugnabili: riflessi sugli organi e sull’oggetto del processo, in Rass. trib., 2009, 6, 1551).

L’art. 2 c. 3 d.lgs. 546/1992, nella precedente formulazione riconducibile all’art. 39, era stata oggetto di attenzione anche da parte della Corte Costituzionale nella sentenza del 26 febbraio 1998, n. 31. Secondo la Corte Costituzionale l’art. 39 avrebbe consentito la sospensione del processo tributario nei soli casi previsti dalla norma e il giudice tributario avrebbe dovuto decidere in via incidentale tutte le questioni pregiudiziali diverse da quelle contemplate dall’art. 39 (sulla questione v. anche C. Beccalli, Giurisdizione tributaria: il nuovo art. 2, cit.).

La CGT, senza affrontare direttamente il dibattito sulla portata dell’art. 2 c. 3 d. lgs. 546/1992, afferma che esso si configura come una norma processuale, mentre l’articolo 79 è una norma sostanziale con riflessi processuali. Se si applicasse l’art. 2 c. 3 d. lgs. 546/1992 al caso di specie, si giungerebbe alla soppressione di una procedura impugnatoria prevista dalla legge. Dal momento che la procedura impugnatoria di cui alla Legge Biagi è una normativa successiva e speciale rispetto all'articolo 2 comma 3, ciò risulterebbe in una violazione delle regole interpretative relative alla successione delle leggi nel tempo e, quindi, del principio lex posterior derogat priori. La CGT sembra quindi suggerire in termini più generali che, qualora l’operato del giudice tributario risulti in una violazione di una disposizione di legge successiva, il giudice tributario non possa adottare una decisione incidentale ex art. 2 c. 3 d.lgs. 546/1992.

In sintesi, deve ritenersi che non è consentito all’Agenzia delle Entrate unilateralmente riqualificare il contratto di appalto certificato, senza seguire la specifica procedura di contestazione di cui all'art. 80 della Legge Biagi, per due ordini di ragioni. In primo luogo, così facendo, si consentirebbe a un soggetto terzo, nei cui confronti la certificazione è destinata a produrre effetti, di disconoscere la validità della certificazione rilasciata dalla competente commissione di certificazione. In secondo luogo, la competenza esclusiva a decidere sulle contestazioni di erronea qualificazione spetta al giudice del lavoro in quanto la Legge Biagi, disciplina successiva e speciale, non può ritenersi derogata in ragione del potere delle Corti di Giustizia Tributaria di risolvere incidentalmente le questioni da cui dipende la decisione sulla controversia tributaria di cui all’art. 2 c. 3 d. lgs. 546/1992.

4. Sebbene la circostanza che la certificazione dispieghi effetti anche ai fini fiscali e che la competenza esclusiva del giudice del lavoro sia stata affermata in una disposizione successiva al d.lgs. 546/1992 sembrino far propendere per la prevalenza degli artt. 78-80 della Legge Biagi, l’interpretazione proposta dalla CGT presenta vari profili critici.

Innanzitutto, l’efficacia in ambito tributario di una certificazione relativa ad un rapporto di lavoro rimanda alla nota questione del rapporto tra i concetti utilizzati in ambito tributario e le nozioni relative ad altri settori del diritto. La materia tributaria, com’è noto, si caratterizza per la stretta correlazione con le fattispecie, gli istituti o i principi relativi ad altri ambiti dell’ordinamento. Al contempo essa è caratterizzata da un tendenziale particolarismo delle nozioni in esso impiegate. Il rapporto tra le nozioni utilizzate in ambito fiscale e le corrispondenti nozioni utilizzate in ambito civilistico è stato oggetto di attenzione in letteratura (v., tra gli altri, A. Berliri, Sulle cause della incertezza nell’individuazione e interpretazione della norma tributaria applicabile ad una determinata fattispecie, in Giur. imp., 1976, p. 117 ss.; F. Bosello, La formulazione della norma tributaria e le categorie giuridiche civilistiche, in Dir. prat. trib., 1981, I, p. 1434 ss.; S. Cipollina, La legge civile e la legge fiscale. Il problema dell’elusione fiscale, Padova, 1992; F. Paparella, L’autonomia del diritto tributario ed i rapporti con gli altri settori dell’ordinamento tra ponderazione dei valori, crisi del diritto e tendenze alla semplificazione dei saperi giuridici, in Riv. dir. trib., 2019, I, p. 587 ss.). In particolare, in relazione al suddetto dibattito, si condivide l’opinione, sostenuta da autorevole dottrina, secondo la quale, quando si utilizza un concetto che afferisce ad un certo ambito del diritto, a meno che non si specifichi in senso contrario, si può comunque fare riferimento ad una diversa interpretazione rispetto al ramo del diritto di partenza (F. Bosello, La formulazione della norma tributaria, cit., 1436).

Altrettanto noto è che l’art. 49 Tuir, nel definire i redditi di lavoro dipendente, faccia riferimento a quei redditi che derivano da rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro «alle dipendenze e sotto la direzione di altri», in tal modo evocando l’art. 2094 c.c. («alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore»). Anche la questione specifica del rapporto tra il concetto di subordinazione ai fini civilistici e fiscali è stata oggetto di attenzione in dottrina (v. G. Puoti, Il lavoro dipendente nel diritto tributario, Milano, 1975; C. Sacchetto, Relazione tra normativa civilistica e fiscale. Il rapporto di lavoro, in Rass. trib., 1989, I, p. 384 ss.; G. Tinelli, Lavoro nel diritto tributario, VIII ed., Torino, 1992, p. 391 ss.; A. Uricchio, La qualificazione del reddito di lavoro dipendente tra definizioni normative e itinerari della giurisprudenza, in Dir. prat. trib., 2002, p. 50 ss.; Id., Il reddito dei lavori tra autonomia e dipendenza, Bari, 2006). In particolare, si è sostenuto che, per quanto l’individuazione dei redditi di lavoro dipendente sia coerente con l’elaborazione civilistica, vi sono varie differenze tra fattispecie tributaria e civilistica (A. Uricchio, Il reddito dei lavori, cit., p. 69). Ciò è ragionevole quando si considera la diversa ratio delle due discipline. La disciplina civilistica, infatti, è ispirata dall’obiettivo di garantire la tutela del contraente più debole, e dunque del lavoratore; la disciplina tributaria, invece, dall’obiettivo di individuare correttamente la tipologia di reddito prodotto per applicare conseguentemente i diversi criteri di determinazione della base imponibile. Dunque, ai fini qualificatori, in ambito civilistico assumono rilevanza gli elementi soggettivi del rapporto che possono provare la condizione di inferiorità del lavoratore rispetto al datore di lavoro; in ambito tributario rilevano soprattutto gli elementi oggettivi che consentono di dimostrare l’eterodirezione dell’attività lavorativa (A. Uricchio, Il reddito dei lavori, cit., p. 71-72). Proprio la rilevanza di fattori che dimostrino la dipendenza della prestazione lavorativa dall’iniziativa altrui in ambito fiscale ha indotto autorevole dottrina a sostenere che sia necessario verificare caso per caso il concreto atteggiarsi del rapporto di lavoro, al di là della qualificazione data dalle parti (F. Crovato, Il lavoro dipendente nel sistema delle imposte sui redditi, Padova, 2001, p. 25; C. Sacchetto, Relazione tra norma civilistica e fiscale, cit., p. 384; G. Tinelli, Lavoro (nel diritto tributario), cit.; A. Uricchio, Il reddito dei lavori, cit., p. 71).

L’interpretazione promossa dalla CGT dell’Emilia-Romagna sembrerebbe mettere in discussione la ricostruzione della dottrina, la quale tende a valorizzare il concreto manifestarsi del rapporto di lavoro ai fini della qualificazione. Infatti, la CGT suggerisce che la certificazione da parte di un organismo qualificato garantisca la corretta qualificazione dello stesso. Più specificamente, la motivazione della sentenza ci sembra dover essere letta nel senso che, nel momento in cui è lo stesso dato legislativo a prevedere che una certa qualificazione abbia effetti anche ai fini fiscali, sono la certezza del diritto e il legittimo affidamento a richiedere che gli effetti della qualificazione vincolino anche l’Amministrazione finanziaria.

Inoltre, la vicenda che si annota induce a interrogarsi sul rapporto tra l’esclusività del potere di controllo e di accertamento che compete all’Agenzia delle Entrate e la specialità della procedura amministrativa/giurisdizionale prevista dalla Legge Biagi. La previsione di una speciale procedura di impugnazione dei contratti certificati presso il giudice del lavoro pone dei limiti ai poteri dell’Agenzia in sede di accertamento; infatti, l’Agenzia non può mettere in discussione la qualificazione del contratto certificato se non adendo il giudice del lavoro. Ritenere che l’Amministrazione non possa riqualificare il contratto perché, per procedere in questo senso, esiste una procedura speciale, dato che il contratto è certificato, pone dei limiti ai poteri dell’Agenzia in sede di accertamento. Innanzitutto, dal momento che la sentenza fornisce indicazioni rilevanti in relazione ai limiti della potestà di riqualificare contratti dell’Amministrazione finanziaria, la questione avrebbe meritato argomenti più solidi rispetto al mero riferimento all’interpretazione letterale delle norme e alla successione delle leggi nel tempo. Tali argomenti avrebbero potuto, ad esempio, prendere in considerazione in modo più esplicito il bilanciamento tra la certezza del diritto, che la procedura di certificazione garantisce, e i poteri dell’Agenzia, a tutela dell’interesse fiscale. Come si è già detto, infatti, nel caso di specie, sembrerebbe che la ragione per cui il legislatore ha previsto che la certificazione dispieghi effetti ai fini fiscali e possa essere impugnata solo dinanzi al giudice del lavoro, attribuendogli una competenza di fatto esclusiva sui contratti certificati, sia riconducibile alle esigenze di certezza del diritto che la certificazione persegue.  

In secondo luogo, la soluzione proposta dalla sentenza è suscettibile di sollevare problemi di coordinamento rispetto ai termini di decadenza previsti per l’azione di accertamento perché il giudizio del lavoro sulla qualificazione del contratto potrebbe non esaurirsi prima della scadenza dei termini per l’accertamento. Nei casi in cui l’Agenzia impugna il contratto innanzi al giudice del lavoro secondo la procedura prevista dall’art. 80 della Legge Biagi, dunque, si dovrebbe consentire di emettere comunque l’avviso anche prima dell’esito del giudizio in sede lavoristica.

La sentenza solleva poi la questione delle ragioni per cui il giudice tributario, quale giudice del rapporto, non possa procedere alla riqualificazione del contratto in via incidentale di cui all’art. 2 c. 3 d.lgs. 546/1992. La distinzione tra norma processuale, relativa al potere di cognizione incidentale, e norma sostanziale, relativa alla disciplina della Legge Biagi, a sostegno dell’impossibilità per il giudice tributario di procedere alla riqualificazione non appare del tutto convincente. Al contrario appare più persuasiva l’ulteriore ragione addotta, secondo la quale la procedura impugnatoria di cui alla Legge Biagi si configura come normativa successiva rispetto all’art. 2 c. 3 d.lgs. 546/1992 e, per tale ragione, deve prevalere. Tuttavia, ci sembra che sia difficile risolvere il problema del rapporto tra la disposizione prevista dal Codice del processo tributario e la Legge Biagi facendo ricorso unicamente ai criteri della specialità e della successione delle leggi nel tempo. Entrambe le norme, infatti, sono in qualche modo speciali, a seconda della prospettiva che si assume e degli elementi che si valorizzano. Da un lato, l’art. 2 c. 3 d. lgs. 546/1992 prevede la giurisdizione esclusiva sulle questioni tributarie e, in questa prospettiva, conferisce al giudice tributario il potere di conoscere in via incidentale ogni questione da cui dipenda la decisione della controversia. Dall’altro lato, dagli artt. 78-80 della Legge Biagi sembra doversi desumere che il giudice del lavoro abbia competenza esclusiva per materia sui contratti certificati e che l’impugnazione di tale contratto certificato richieda una specifica procedura. Inoltre, sebbene la successione delle leggi del tempo giustifichi la prevalenza della Legge Biagi sul d.lgs. 546/1992, non si comprende in modo chiaro la ratio della disciplina legislativa il cui esito è che le Corti di Giustizia Tributaria non possano rimettere in discussione la qualificazione della fattispecie negoziale contenuta nel contratto certificato ai soli fini della risoluzione della diversa questione tributaria sollevata e senza efficacia di giudicato. La ragione per cui i contratti certificati debbono essere impugnati dinanzi al giudice del lavoro potrebbe essere che le Corti di Giustizia Tributaria sono soggette anch’esse al vincolo di certazione oppure, in alternativa, che sulla giurisdizione speciale tributaria prevale, anche per la risoluzione della questione incidentale nel processo tributario, la specializzazione del giudice ordinario del lavoro nei casi in cui una disposizione di legge investa il secondo dei due giudici dell'onere di giudicare delle certificazioni. Dalla lettura della sentenza non si riesce a desumere quale delle due soluzioni sia quella abbracciata dalla CGT dell’Emilia-Romagna, sebbene ci sembri più ragionevole propendere per la prima ipotesi piuttosto che per una speciale posizione del giudice del lavoro rispetto al giudice tributario.

Infine, occorre specificare che, affinché la certificazione abbia effetti ai fini fiscali è necessario che le parti abbiano fatto riferimento a tali effetti in sede di certificazione (secondo l’art. 78 c. 2 della Legge Biagi «l’atto  di  certificazione  deve contenere esplicita menzione degli  effetti,  civili, amministrativi, previdenziali o fiscali, in relazione ai quali le parti richiedono la certificazione»). Inoltre, anche qualora la CGT avesse deciso diversamente, ritenendo prevalente la competenza del giudice tributario, oppure nell’ipotesi in cui la certificazione non faccia esplicita menzione degli effetti fiscali, ci sembra che la certificazione potrebbe essere comunque considerata una prova qualificata. Di conseguenza, contro di essa l’Agenzia, su cui incombe l’onere della prova, dovrebbe dare una prova particolarmente forte, precisa e attendibile (per la giurisprudenza relativa alla relazione dei revisori quale prova qualificata, v. da ultimo Cass., sez. trib., 30 ottobre 2019, n. 27793).

5. La CGT Emilia-Romagna dichiara assorbiti gli ulteriori motivi di impugnazione, e in particolare quello relativo alla cognizione del giudice penale, il quale aveva sostenuto con sentenza di assoluzione passata in giudicato che non vi fosse alcuna somministrazione di manodopera.

Infatti, con la sentenza che si annota, la CGT ribadisce che la sentenza di assoluzione penale non comporta l’automatico annullamento dell'accertamento, confermando dunque l’assenza di vincoli di pregiudizialità e l’autonomia dei giudizi penale e tributario (v., tra i molti, che si sono espressi su questo tema F. Capasso, Giudicato penale e processo tributario: le condizioni ed i limiti di efficacia delle sentenze di assoluzione, in Riv. Guardia di Finanza, 2011, p. 254 ss.; R. Lancia, La posizione della recente giurisprudenza di legittimità sul valore del giudicato penale di assoluzione nel processo tributario, in Dir. pen. glob., 2022, p. 55 ss.; O. Mazza, I controversi rapporti fra processo penale e tributario, in Rass. trib., 2020, n. 1, p. 233 ss.; F. Pistolesi, Crisi e prospettive del principio del “doppio binario” nei rapporti fra processo e procedimento tributario e giudizio penale, in Riv. dir. trib., 2014, I, p. 29 ss.).

Infatti, in ragione della differente disciplina in tema di prove e relative valutazioni, è del tutto plausibile che si giunga a decisioni divergenti nei due giudizi (G. Chiarizia, Ne bis in idem europeo e autonomia del processo tributario: le contraddizioni della Cassazione, in Corr. trib., 2018, n. 14, p. 1098 ss.). Ad esempio, nel processo tributario esistono limitazioni della prova, come il divieto di prova testimoniale, che non si applicano nel processo penale, oppure sono previste presunzioni semplici, inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna. Di conseguenza l'imputato assolto in sede penale, anche con formula piena, può essere ritenuto responsabile fiscalmente qualora l'atto impositivo risulti fondato su validi indizi, insufficienti per un giudizio di responsabilità penale, ma adeguati, fino a prova contraria, nel giudizio tributario (Cass. civ., Sez. V, 27 marzo 2015, n. 6211).

Con la sentenza che si annota, la CGT dell’Emilia-Romagna si conforma anche al filone giurisprudenziale secondo il quale la sentenza penale irrevocabile, prodotta dalle parti o acquisita d’ufficio, pur non avendo efficacia vincolante, è fonte di prova (secondo Cass. Civ., Sez. V, 22 maggio 2005, n. 10578 essa è «possibile fonte di prova di cui deve essere verificata la rilevanza nell’ambito specifico in cui detta sentenza è destinata ad operare»; secondo Cass. Civ., Sez. V, 13 febbraio 2015, n. 2938 essa è «elemento di prova, liberamente valutabile in rapporto alle ulteriori risultanze istruttorie»; secondo Cass. Civ., Sez. V, 27 febbraio 2013, n. 4924 essa è «semplice indizio od elemento di prova critica in ordine ai fatti in essa eventualmente accertati»; sulla questione si veda D. Vigoni, Giudicato penale e processo tributario (dopo due riforme), in Dir. pen. proc., 2023, n. 4, p. 564 ss.).

È interessante notare l’affermazione della CGT secondo la quale, nel giudizio tributario, la sentenza di assoluzione penale, pur non comportando l'automatico annullamento dell'accertamento, «va comunque valutata dal giudice, poiché i provvedimenti costituiscono un elemento di prova al pari di altri sui quali fondare il proprio convincimento». Con tale statuizione la CGT sembrerebbe voler affermare che, qualora il giudice tributario ritenga di discostarsi, potrà farlo, ma dovrà esprimersi nella motivazione sulle ragioni di tale scostamento in modo effettivo e congruo. La CGT richiama a suffragio della propria affermazione alcune pronunce della Corte di Cassazione (Cass. civ., Sez. V, Ord., 22 settembre 2021, n. 25632; Cass. civ., Sez. VI - 5, Ord., n. 5546; Cass. civ., Sez. V, Sent., 05 luglio 2018, n. 17624; Cass. civ., Sez. V, Ord., 05 luglio 2018, n. 17619 con nota di S. Servidio, Fattura per operazioni oggettivamente inesistenti: il semplice sospetto ferma la detrazione IVA, in L'IVA, 2020, n. 10, p. 45 ss.; Cass. civ., Sez. V, Sent., 28 ottobre 2016, n. 21873; Cass. civ., Sez. V, Sent., 27 marzo 2015, n. 6211). Ci sembra che, tra le sentenze richiamate dalla CGT, solo una sia effettivamente rilevante ai fini della suddetta questione. Infatti, soltanto nella sentenza Cass. 17624/2018 si afferma esplicitamente che il giudice è tenuto, nell'esercizio dei propri poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti (art. 116 c.p.c.), a procedere ad un suo apprezzamento del contenuto della decisione, ponendolo a confronto con gli elementi di prova acquisiti al giudizio (la sentenza richiama a sua volta la sentenza Cass. civ., Sez. VI - 5, Ord., 24 novembre 2017, n. 28174).

Diversamente, nelle sentenze Cass. 5546/2019 e Cass. 17619/2018, si afferma che, stante l’autonomia del giudizio tributario rispetto a quello penale, il giudice tributario non può limitarsi a rilevare l'esistenza di una sentenza penale definitiva in materia di reati fiscali, recependo acriticamente le conclusioni. Il giudice tributario, infatti, nell’esercizio dei propri poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti, deve procedere ad un suo apprezzamento del contenuto della decisione, ponendolo a confronto con gli altri elementi di prova acquisiti nel giudizio. Dunque, nelle due sentenze di cui si discute, l’affermazione secondo la quale il giudice tributario deve procedere ad un suo apprezzamento del contenuto della decisione sembrerebbe piuttosto legata alla circostanza che il giudice non possa limitarsi a recepire il contenuto di una sentenza di assoluzione. In altri termini, se il giudice di appello conferisce espressamente al giudicato penale una funzione orientativa del giudizio, tale giudice deve esplicitare quale sia l'ipotizzato obiettivo, pena l’insufficienza della motivazione (Cass. 6211/2015, cit.).

6. Per quanto riguarda l’aspetto relativo alla rilevanza dell’autonomia del processo tributario rispetto a quello penale, dunque, la sentenza non sembra introdurre elementi innovativi rispetto alla giurisprudenza precedente. Diversamente, e come in parte anticipato, per quanto riguarda la possibilità per l’Amministrazione finanziaria di riqualificare contratti certificati, la pronuncia interviene in un settore in cui non vi è giurisprudenza consolidata. Infatti, com’è noto, la giurisprudenza si era già occupata del tema della legittimazione ad intervenire dell’Agenzia sulle scelte adottate in sede di redazione del bilancio, verificando il rispetto delle norme civilistiche che si riflettono sul trattamento fiscale (per le diverse posizioni assunte alla dottrina su questo tema, v. Contrino, Rapporti 'bilancio/dichiarazione' e poteri di accertamento dell'amministrazione finanziaria, in Corr. trib., 2015, p. 91 ss.; V. Massone, La questione della sindacabilità da parte dell’Amministrazione Finanziaria sulle scelte di bilancio, in Dir. prat. trib., 2021, p. 1191 ss.; A. Viotto, Le classificazioni di bilancio tra determinazione del reddito e applicabilità delle norme antielusive, in Riv. dir. trib., 2006, I, p. 69 ss.; Id., L'accertamento sulle valutazioni di bilancio: i poteri dell'amministrazione anche alla luce della recente soppressione delle deduzioni extracontabili e delle modifiche concernenti i soggetti che adottano gli IAS, in Riv. dir. trib., 2009, I, p. 205 ss.), ma non del potere dell’Agenzia di riqualificare contratti certificati e del giudice tributario di decidere delle relative controversie. Dalla motivazione della sentenza emerge che la Corte lo faccia con l’intento precipuo di consolidare un orientamento della stessa CGT dell’Emilia-Romagna relativo alla medesima società contribuente, ma ad un’annualità diversa. Infatti, con la richiamata sentenza 639/2019 la CGT Emilia-Romagna (al momento della sentenza, «CTR dell’Emilia-Romagna») aveva già affermato che l’Amministrazione finanziaria non potesse unilateralmente riqualificare un contratto di appalto in un negozio di somministrazione di manodopera, qualora il primo fosse stato certificato sulla base degli articoli 78 e 80 del d.lgs. 276/03. Dalle due sentenze emerge che l’Agenzia delle Entrate non possa decidere del contratto di appalto certificato senza seguire la procedura di cui all'art. 80 della Legge Biagi. Inoltre, al giudice del lavoro spetta la competenza esclusiva sulle contestazioni di erronea qualificazione o difformità dallo schema negoziale relative a contratti di lavoro certificati, non potendosi ritenere altrimenti in ragione dell’art. 2 c. 3 d. lgs. 546/1992.

Dal momento che proprio in relazione alla sentenza 639/2019 della CGT dell’Emilia-Romagna era stato già proposto ricorso in Cassazione, sarà interessante vedere se la Suprema Corte adotterà una prospettiva diversa da quella dei giudici di merito. Sebbene non siano presenti precedenti di Cassazioni su questo specifico tema, esiste un filone giurisprudenziale che si è occupato della questione se l’Agenzia delle Entrate potesse, in sede di accertamento, disconoscere enti qualificati in un certo modo (Onlus) a seguito di iscrizione in un apposito registro (l’Anagrafe delle Onlus fino al 22 novembre 2021, giorno antecedente l’avvio del Registro Unico del Terzo settore). Secondo la Suprema Corte, innanzitutto, se un ente intende assumere e mantenere la qualifica di Onlus è tenuto alla rigida osservanza, sia sul piano delle prescrizioni formali, sia per quanto riguarda lo svolgimento in concreto dell’attività, di ciascuna delle prescrizioni dettate dalla legge e che tali prescrizioni devono essere oggetto di interpretazione restrittiva (Cass. civ., sez. trib., 18 settembre 2015, n. 18396). Inoltre, se è vero che i requisiti di cui all’art. 10 «non sono surrogabili con il concreto accertamento di un’osservanza fattuale dei precetti relativi alle modalità di svolgimento dell’attività» (Cass. civ., sez. trib., 12 agosto, 2015, n. 16726; Cass. civ., sez. trib., 30 giugno 2011, n. 14371), è anche vero che la mancanza anche di uno solo di questi requisiti determina non solo la cancellazione dall’Anagrafe delle Onlus, ma anche il venir meno delle condizioni di riconoscimento del regime agevolato (Cass. civ., sez. trib., 17 giugno 2015, n. 16276; Cass. civ., sez. trib., 18 settembre 2015, n. 18396; Cass. civ., sez. trib., 28 febbraio 2019, n. 10300). Nel caso delle Onlus, dunque, la Cassazione aveva suggerito che, indipendentemente dalla previa cancellazione dall’Anagrafe, il venir meno di fatto di uno dei requisiti stabiliti dall’art. 10 d.lgs. 460/1997 per godere delle agevolazioni fiscali potesse essere sufficiente a negare la fruizione delle agevolazioni all’ente, nonostante l’ente non fosse stato ancora cancellato dal registro. Se la Corte di Cassazione dovesse ritenere di applicare un approccio simile a quello usato in relazione alle Onlus anche alla questione di cui si discute, potrebbe sovvertire la decisione della CGT dell’Emilia-Romagna. Ci sembra, tuttavia, che la soluzione proposta dalla Cassazione fosse motivata, nel caso delle Onlus, dall’esistenza di una disciplina estremamente rigorosa, chiaramente e fortemente mirata a limitare la concessione delle previste agevolazioni fiscali agli enti effettivamente meritevoli e, per converso, ad evitare qualsiasi ipotesi di utilizzazione ai fini elusivi dell’istituto, adoperato come schermo per lo svolgimento in concreto di attività non solidaristiche, ma aventi natura e scopo sostanzialmente commerciali (Cass. civ., sez. trib., 19 aprile 2017, n. 9832). Proprio la natura agevolativa del regime induce a dubitare della possibilità di trasporre direttamente tale orientamento giurisprudenziale anche al caso di cui si discute. Si ritiene, infatti, che nel caso di specie la soluzione della controversia non dipenda tanto dalla scelta se adottare un approccio non formale a fronte dell’obiettivo di evitare l’uso abusivo di norme agevolative, quanto di trovare il corretto bilanciamento tra le esigenze di certezza del diritto del contribuente, che ha fatto affidamento sulla certificazione del contratto, e di tutela dell’interesse erariale, garantendo all’Amministrazione la possibilità di riqualificare i contratti.