argomento: Profili europei e Internazionali - Giurisprudenza
La sentenza affronta il caso di un contribuente, fiscalmente residente negli Emirati Arabi, che richiede il rimborso delle ritenute sul reddito da lavoro dipendente operate dal datore di lavoro italiano. Posto che la Convenzione Italia-UAE prevede, all’art. 15, il potere impositivo “soltanto” nel paese della residenza i Giudici di Cassazione stabiliscono che tale presupposto non richiede la certificazione specifica ex art. 28 della medesima Convenzione.
» visualizza: il documento (Corte di Cass., sent. 18 dicembre 2023, n. 35284)PAROLE CHIAVE: convenzione contro le doppie imposizioni - redditi di lavoro dipendente - ritenuta alla fonte - residenza fiscale estera
di Alessandra Magliaro, Sandro Censi
1. La sentenza in commento offre lo spunto per analizzare da un diverso punto di vista il principio, oramai consolidato in ambito di tassazione transnazionale, dell’individuazione dello Stato avente potestà impositiva.
Nel caso esaminato il contribuente, residente fiscale negli Emirati Arabi Uniti, chiedeva all’Agenzia delle Entrate il rimborso delle ritenute operate dal proprio datore di lavoro italiano. L’Amministrazione finanziaria negava tale rimborso poiché non era stato prodotto dal contribuente il certificato previsto dall’art. 28 della Convenzione tra i due Paesi. I Giudici di legittimità, correttamente, hanno dapprima accertato che il contribuente, ai sensi dell’art. 15, comma 1 della Convenzione doveva essere assoggettato a tassazione solo nello Stato di residenza. Successivamente i Giudici hanno stabilito che l’assenza della certificazione prevista dall’art. 28 della Convenzione non preclude l’applicabilità della disciplina convenzionale.
2. Come detto, elemento imprescindibile per l’esame della fattispecie, è quello di individuare, nell’ipotesi di reddito transnazionale, quale sia lo Stato che abbia la potestà impositiva.
Si rende dunque necessario delineare, dapprima, i possibili sistemi fiscali applicabili.
In via di prima approssimazione questi possono essere così schematicamente sintetizzati e divisi:
– sistemi che hanno una tassazione worldwide taxation principle: in questo caso il fiscalmente residente in uno Stato viene ivi tassato per tutti i redditi ovunque prodotti nel mondo (questo è il metodo più utilizzato ed è quello previsto dalla normativa italiana);
– sistemi che hanno una tassazione territoriale: il contribuente viene tassato da ciascuno Stato solo sui redditi prodotti sul territorio dello stesso (tassazione del reddito nello Stato della fonte);
– sistemi non dom (non domiciliato) ispirati alle tradizioni anglosassoni, in cui sono combinati il sistema worldwide ed il sistema territoriale;
– sistemi che hanno una tassazione su base di cittadinanza. (soltanto due Paesi hanno adottato ad oggi tale sistema, e cioè gli Stati Uniti e l’Eritrea).
È comunque possibile che, a seguito dell’applicazione dei citati criteri, si verifichino delle ipotesi di doppia imposizione. In tali casi, al fine di dirimere i possibili contrasti, si dovrà fare riferimento alle Convenzioni contro le doppie imposizioni.
Tali Convenzioni, una volta recepite nell’ordinamento interno, hanno valore di fonte primaria ai sensi dell’art. 10 e dell’art. 117 della Costituzione. Con riferimento ai principi costituzionali la Cassazione (Cass., Sez. trib., 14 novembre 2019, n. 29635) ha ricordato, infatti, che le Convenzioni, una volta recepite nel nostro ordinamento interno con legge di ratifica, acquistano il valore di fonte primaria, ai sensi dell’art. 10 Cost., comma 1 e dell’art. 117 Cost. È stato inoltre affermato che le “Convenzioni, per il carattere di specialità del loro ambito di formazione, così come le altre norme internazionali pattizie, prevalgono sulle corrispondenti norme nazionali, dovendo la potestà legislativa essere esercitata nei vincoli derivanti, tra l’altro, dagli obblighi internazionali”. (Cass. 19 gennaio 2009, n. 1138 e Cass. 15 luglio 2016, n. 14474)
Al fine di eliminare o limitare la doppia imposizione, due metodi alternativi sono previsti dai sistemi tributari dei Paesi:
Poiché, come detto, l’art. 15 della Convenzione tra l’Italia e gli Emirati Arabi Uniti, nell’ipotesi di reddito da lavoro dipendente, prevede che il contribuente sia assoggettato a tassazione solo nello Stato di residenza è evidente che il metodo utilizzato in questa ipotesi è quello dell’esenzione. Ed invero l’avverbio solamente/soltanto (only) è quello comunemente utilizzato quando tra le modalità per evitare la citata doppia imposizione si sceglie quella dell’esenzione (Cfr Cass. n. 13217/2022, in il fisco, 2022, pag. 2361 e Cass. n. 21865/2018 in il fisco, 2018, pag. 3969, entrambe con nostro commento e, da ultimo, Cass. n. 10548/2023).
In particolare, secondo i Giudici, proprio in una fattispecie relativa alla Convezione Italia ed Emirati Arabi Uniti, “il dato testuale della norma pattizia convenzionale in esame, che utilizza l’espressione “… imponibile soltanto nello Stato contraente…”, porta a ritenere alla luce di una interpretazione assunta in base al significato proprio del testo, che la Convenzione implica l’attribuzione esclusiva della potestà impositiva ad uno Stato, individuato, nel caso in esame, in quello in cui il reddito viene prodotto (ossia gli Emirati Arabi Uniti), e preclude all’altro Stato contraente (ossia l’Italia) la tassazione.”(Cass. 8580/2023)
3. Un aspetto incidentalmente esaminato dalla sentenza in commento è quello relativo all’irrilevanza del mancato assoggettamento a tassazione nel Paese avente potestà impositiva. In altre parole, secondo i Giudici di legittimità, “il fatto che gli EAU non hanno un’imposta analoga all’IRPEF … non preclude l’applicabilità della disciplina convenzionale essendo sufficiente la generale soggezione del contribuente residente fiscalmente al potere impositivo di detta autorità”.
Tale approdo è oramai pacifico sia nella dottrina (VOGEL, On double taxation convention, Kluwer Law International, 1997, p. 229) sia nella giurisprudenza (si veda da ultimo Cass. 994/2024 secondo cui “la corretta interpretazione delle norme interne pattizie non richiede l’effettivo assoggettamento nell’altro Paese dell’imposizione fiscale per ottenere il rimborso in Italia, essendo sufficiente l’astratta imponibilità fiscale in quel Paese”).
4. L’aspetto più interessante e rilevante di cui si occupa, però, la sentenza in esame è quello relativo alla necessarietà della certificazione prevista dall’art. 28 della Convenzione applicabile per ottenere il rimborso. Tale articolo, nel suo primo comma, dispone che le imposte riscosse in uno Stato contraente mediante ritenuta alla fonte sono rimborsate a richiesta del contribuente qualora il diritto alla percezione di dette imposte sia limitato dalle disposizioni della medesima Convenzione. Il secondo comma dispone poi che “Le istanze di rimborso, da prodursi in osservanza dei termini stabiliti dalla legislazione dello Stato contraente tenuto ad effettuare il rimborso stesso, devono essere corredate da un attestato ufficiale dello Stato contraente di cui il contribuente è residente che certifichi la sussistenza delle condizioni richieste per aver diritto all'applicazione dei benefici previsti dalla Convenzione.”
L’Amministrazione finanziaria, lamentava l’assenza della certificazione prevista dall’art. 28 sostenendo che gli elementi di prova che, nel giudizio di merito, avevano portato ad individuare la residenza fiscale negli Emirati non potevano sostituirsi al documento previsto dal medesimo articolo.
I Giudici ricordano, in primo luogo, come non sia in contestazione la sussistenza dei requisiti per determinare la residenza fiscale all’estero, dal momento che la sussistenza dei requisiti della residenza fiscale negli Emirati, oggetto di accertamento di fatto puntuale ed analitico nei giudizi di merito, non è suscettibile di valutazione in sede di legittimità. Gli stessi Giudici stabiliscono, poi, che “l’assenza di certificazione dell’Autorità fiscale … di cui all’art. 28 non preclude l’applicabilità della disciplina convenzionale.”
In sostanza, la mancanza di un elemento formale quale la certificazione de quo non può prevalere sull’elemento sostanziale dell’accertata residenza estera.
Deve evidentemente apprezzarsi la concezione sostanzialista -e non formalista – adottata dalla Cassazione (in argomento vd. diffusamente, MONTANARI, Il principio di prevalenza della sostanza sulla forma, Padova, 2019) in linea con i recenti mutamenti legislativi relativi all’individuazione della residenza fiscale in Italia.
Ed invero fino alla recente riforma dell’art. 2 TUIR la mancata iscrizione all’Anagrafe Italiana Residenti all’Estero (AIRE), e la conseguente permanenza nell’Anagrafe della Popolazione Residente (APR), da parte del contribuente trasferito all’estero, per l’Amministrazione finanziaria (C.M. 19 maggio 1995, n. 7/95) e per i Giudici di legittimità (Cass. n. 677/2015 e n. 21970/2015) aveva valore di presunzione assoluta. Pertanto in assenza di iscrizione all’AIRE (dato formale) la provata sussistenza di residenza e domicilio esteri (elementi sostanziali) non erano sufficienti per essere qualificati come residenti fiscalmente all’estero.
A partire dall’1 gennaio 2024 il nuovo testo dell’art. 2 citato stabilisce, tra l’altro, che “Salvo prova contraria, si presumono altresì residenti le persone iscritte per la maggior parte del periodo di imposta nelle Anagrafi della popolazione residente”. La nuova formulazione dell’art. 2, pur ricomprendendo l’iscrizione all’APR tra i requisiti per la determinazione della residenza fiscale, stabilisce però altresì che si tratta di presunzione juris tantum e dunque passibile di prova contraria (sia consentito rinviare a MAGLIARO-CENSI, Le nuove regole per la residenza fiscale non fanno buon uso della migliore prassi internazionale e convenzionale, il Fisco, 44/2023, p. 4177 e da ultimo MARIANETTI-SMILARI, Residenza fiscale delle persone fisiche: superata la presunzione assoluta dell’iscrizione anagrafica, il Fisco, 3/2024, p. 207).
Non può pertanto che essere accolta favorevolmente una sentenza che, come detto, riconosca la prevalenza della sostanza sulla forma.