<p>Le nuove sanzioni tributarie - Lattanzi</p>
Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

02/05/2024 - Prime riflessioni in merito alla inutilizzabilità delle prove per vizi dell'attività istruttoria introdotta dalla riforma dello Statuto del contribuente di cui al D.Lgs. n. 219/2023

argomento: Attuazione del tributo - Legislazione e prassi

Introducendo il divieto di utilizzo delle prove illegittimamente reperite, il legislatore ha inteso porre rimedio a una lacuna dell’ordinamento tributario, come interpretato dalla giurisprudenza consolidata della Corte di Cassazione. La riforma incide, pertanto, su molteplici orientamenti giurisprudenziali, che erano invece diretti ad ammettere l’utilizzabilità di prove reperite in violazione della relativa disciplina. È tuttavia opportuna una più ampia riforma della disciplina dell’attività istruttoria, tesa a meglio delineare i presupposti e le condizioni per l’esercizio dei diversi poteri istruttori nonché i mezzi di tutela, anche preventivi, a disposizione del contribuente. Ciò sia per evitare che siano lasciati eccessivi margini di discrezionalità in capo ai verificatori, che potrebbero sfociare in arbitri e abusi, sia per scongiurare il possibile affermarsi di indirizzi interpretativi diretti ad aggirare il divieto di utilizzabilità delle prove reperite illegittimamente.

PAROLE CHIAVE: inutilizzabilità delle prove - Statuto dei diritti del contribuente - diritti fondamentali


di Giulio Chiarizia

1. L’art. 1, comma 1, lett. g), del D.Lgs. 30 dicembre 2019 ha introdotto l’art. 7 quinquies nella L. n. 212/2000, c.d. Statuto del contribuente, concernente i “vizi dell’attività istruttori”. In base a tale disposizione: “Non sono utilizzabili ai fini dell’accertamento amministrativo o giudiziale del tributo gli elementi di prova acquisiti oltre i termini di cui all’articolo 12, comma 5, ovvero in violazione di legge”.

La suddetta norma, in vigore dal 18 gennaio 2024, sembra essere emanata in attuazione dei principi della legge delega n. 111/2023 di cui agli artt. 4, comma 1, lett. b), 17, comma 1, lett. h) e 18, comma 1, lett. b), diretti a rafforzare il principio della certezza del diritto e ad “assicurare un’adeguata tutela del contribuente nel corso delle attività istruttorie poste in essere dall’Amministrazione finanziaria”.

Il legislatore ha, dunque, posto rimedio a una lacuna dell’ordinamento tributario, come interpretato dalla giurisprudenza consolidata della Corte di Cassazione, secondo la quale in tale ambito non era ravvisabile una norma generale che disponesse l’inutilizzabilità delle prove illegittime.

Secondo la Cassazione, infatti, il principio generale di inutilizzabilità̀ delle prove illegittimamente acquisite sarebbe stato valido esclusivamente in ambito penale (ex art. 191 c.p.p.), sicché l’acquisizione irrituale di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento fiscale non avrebbe comportato la inutilizzabilità degli stessi “in mancanza di una specifica previsione in tal senso” (cfr. Cass. n. 10664/2021; in senso conforme Cass. n. 10442/2003; Cass. n. 1543/2003; Cass. n. 1383/2002; Cass. n. 1343/2002; Cass. n. 13005/2001; Cass. n. 8344/2001). L’inutilizzabilità delle prove illegittimamente reperite poteva eventualmente derivare esclusivamente dalla violazione di specifiche disposizioni tributarie sul potere degli uffici o del giudice tributario di avvalersi di prove illegittimamente acquisite (cfr. artt. 33 del D.P.R. n. 600/1973 e 52 e 63 del D.P.R. n. 633/1972 e Cass. n. 958/2018; Cass. n. 18077/2010; Cass. n. 8990/2007) ovvero dalla violazione di diritti fondamentali di rango costituzionale, quali l’inviolabilità della libertà personale o del domicilio, da cui discende direttamente – sebbene in modo implicito – il divieto di inutilizzabilità delle prove in violazione delle relative garanzie (cfr. Cass. n. 673/2019; Cass. n. 14701/2018; Cass. n. 8605/2015; Cass. n. 8606/2015; Cass. n. 24923/2011; Cass. n. 20253/2005).

Tale interpretazione non era invero l’unica possibile, posto che a diverso risultato interpretativo si poteva giungere valorizzando l’art. 70 del D.P.R. n. 600/1973, secondo il quale: “per quanto non è diversamente disposto dal presente decreto si applicano, in materia di accertamento delle violazioni e di sanzioni, le norme del codice penale e del codice di procedura penale” (cfr. pure l’art. 75 del D.P.R. n. 633/1972), il cui art. 191 c.p.p. stabilisce il principio secondo cui “le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate” (principio specificatamente ribadito anche in materia di rogatorie internazionali dall’art. 729, comma 1, c.p.p.).

Quest’ultimo approccio ermeneutico era stato fatto proprio dalla sentenza n. 9320/2003 della Cassazione, secondo cui l’inutilizzabilità di un documento in sede di giudizio tributario “discende solo dall’avvenuta acquisizione della prova ‘in violazione dei divieti stabiliti dalla legge’, come dispone l’art. 191 c.p.p.: norma applicabile in materia di accertamento tributario, in virtù del rinvio operato dall’art. 70 comma secondo DPR 600/1973 alle norme del rito penale (non essendo formalmente codificato nel sistema tributario la regola della inutilizzabilità degli atti)”. Tale sentenza era tuttavia rimasta isolata.

Pertanto, per effetto del nuovo articolo 7 quinquies, le prove raccolte in violazione di legge, compresa l’inosservanza dei termini massimi di presenza presso la sede del contribuente di cui all’art. 12, comma 5, della L. n. 212/2000, sono ora inutilizzabili, con la conseguenza che il precedente e opposto orientamento giurisprudenziale deve ritenersi superato.

La riforma ha, dunque, il pregio di valorizzare il rispetto del principio di legalità nell’ambito della disciplina della istruttoria tributaria, che era stato del tutto depotenziato, con sacrificio delle garanzie dei contribuenti a favore delle esigenze di accertamento tributario. Pertanto, la ratio della norma dovrebbe essere quella di promuovere il rispetto della legalità nella fase istruttoria, dissuadendo i verificatori dal reperire prove utilizzando mezzi illegittimi.

La lettera della nuova disposizione è ampia, contenendo un generico riferimento alle “violazioni di legge”, e deve essere altresì interpretata nel nuovo quadro normativo della disciplina della istruttoria tributaria e dei rapporti tra amministrazione e contribuente (che si caratterizza per l’introduzione dell’obbligo generalizzato del contraddittorio preventivo, della nuova disciplina della motivazione e dei vizi degli atti impositivi, dell’applicazione del principio di proporzionalità anche alle misure di contrasto dell’elusione e dell’evasione, etc.).

E’ stato dunque riconosciuto un livello di tutela maggiore rispetto a quello garantito dall’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, considerato che la giurisprudenza della Corte di Strasburgo è ferma nel ritenere che detto articolo non preveda di per sé l’inutilizzabilità di una prova acquisita illegittimamente, posto che le relative conseguenze sono rimesse alla disciplina nazionale, ferma restando la necessità di verificare che il procedimento nel suo complesso abbia  rispettato i canoni di equità del processo (cfr. Corte EDU, 1 marzo 2007, Heglas c. Rep. Ceca, n. 5935/02, p. 85; 26 aprile 2007, Dumitri Papescu c. Romania, n. 71525/01; 9 maggio 2003, Papageorgiou c. Grecia, n. 59506/00, p.35; 21 gennaio 1999, Garcia Ruiz c. Spagna, n. 30544/96; 23 aprile 1998, Bernard c. Francia, p. 37; 16 dicembre 1992, Edwards c. Regno Unito, n. 13071/87, pp. 34 e 35).

Nonostante l’ampiezza della norma e la sua ratio garantista, non sembra che l’articolo 7 quinquies si spinga sino ad accogliere la nota dottrina statunitense del “fruit of the poisonous tree”, cioè la dottrina del frutto dell’albero “avvelenante”. Secondo tale teoria sarebbero inutilizzabili – seppure vi siano diverse eccezioni – le prove (vale a dire i frutti) che derivano da una precedente prova ottenuta illegittimamente (ossia, l’albero “avvelenante”), come avviene quando, ad esempio, a seguito di un accesso domiciliare illegittimo, viene ritrovata una chiave di una cassetta di sicurezza, al cui interno è poi ritrovata una prova.

In base all’art. 7 quinquies, invece, solo le prove illegittimamente raccolte saranno inutilizzabili e non anche le prove legittimamente raccolte, sebbene a seguito di precedenti elementi reperiti illegittimamente.

 

2. La formulazione dell’articolo 7 quinquies è, come detto, ampia e induce a ritenere che diversi orientamenti giurisprudenziali dovranno essere rivisti.

Più nello specifico, sembra corretto ritenere che gli elementi di prova reperiti a seguito di un’attività di indagine penale in violazione delle relative garanzie e norme (ad es., per non essere state attivate le garanzie ex art. 220 disp. att. c.p.p., come spesso avviene quando viene “interrogato” il personale di una impresa oggetto di verifica fiscale) non possano continuare a essere acquisiti ai fini tributari.

In passato, invece, nonostante le Sezioni Unite penali avessero affermato che “i divieti probatori penali producono i loro effetti, se violati, in qualsiasi settore dell’ordinamento, proprio perché la logica che presiede alla garanzia della inutilizzabilità non è interna ed esclusiva al processo penale” (cfr. Cass., SS.UU., n. 13426/2010), la Cassazione tributaria ha ammesso l’utilizzabilità nel procedimento di accertamento fiscale degli elementi raccolti a carico del contribuente senza il rispetto delle garanzie prescritte per il procedimento penale, in ragione, tra l’altro, della assenza nel settore tributario di una norma analoga all’art. 191 c.p.p. (cfr. Cass. n. 16950/2015).

Per effetto del nuovo articolo 7 quinquies (nonché della riconosciuta rilevanza del giudicato penale ex art. 20 della legge delega n. 111/2023), questo orientamento dovrebbe essere superato, posto che l’inutilizzabilità delle prove discende dalla “violazione di legge” in generale e non già solo di quella concernente l’istruttoria tributaria.

L’articolo 7 quinquies dovrebbe altresì comportare effetti pratici di rilievo con riguardo alle ispezioni informatiche dirette ad acquisire e-mail, SMS o altre tipologie di messaggi elettronici (quali ad es. WhatsApp), tenuto conto delle recenti sentenze nn. 170/2023 e 227/2023 della Corte Costituzionale.

La Consulta ha infatti chiarito che detti messaggi elettronici, che configurano una forma di corrispondenza agli effetti degli articoli 15 e 68, terzo comma, della Costituzione, mantengano tale natura anche quando, ricevuti e letti dal destinatario, siano conservati nella memoria dei dispositivi elettronici del destinatario o del mittente. In tale prospettiva, la libertà e la segretezza della corrispondenza possono essere limitate soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge.

Tale chiara e condivisibile posizione della Corte costituzionale mette in crisi il consolidato orientamento secondo cui: «Le comunicazioni via e-mail già “aperte” e visionate dal destinatario sono direttamente acquisibili dai verificatori» (cfr. Guardia di Finanza, Manuale 2008, Parte III, Capitolo 2, paragrafo 2.c.(5)), per cui, stando a detto orientamento, il provvedimento di autorizzazione sarebbe necessario solo con riguardo alle e-mail e messaggi elettronici non ancora letti ovvero per i quali è eccepito il segreto professionale.

Invece, valorizzando le citate sentenze dalla Corte costituzionale, per effettuare una verifica delle e-mail e dei messaggi memorizzati su dispositivi elettronici, i verificatori dovranno chiedere sempre la preventiva autorizzazione all’Autorità giudiziaria ex art. 52, comma 3, del D.P.R. n. 633/1972, pena l’inutilizzabilità delle stesse a supporto della pretesa tributaria.

 

3. Il nuovo l’articolo 7 quinquies, diretto a dare centralità al rispetto delle prerogative difensive del contribuente nel corso della istruttoria tributaria, potrebbe tuttavia essere “depotenziato” da orientamenti giurisprudenziali diretti a svilire quelle garanzie che, invece, la riforma ha inteso tutelare ovvero a negare la rilevanza della violazione di determinati requisiti o condizioni per l’esercizio di poteri istruttori sulla base dell’assunto che essi non sarebbero stati previsti a tutela dei contribuenti.

Ci si riferisce, con riguardo alla prima fattispecie, all’orientamento che, in tema di validità del consenso del contribuente all’apertura di pieghi sigillati, borse, casseforti e mobili in genere, ha ritenuto che non fosse necessario un consenso consapevole e informato (cioè, che il contribuente fosse stato previamente informato dai verificatori del diritto a opporsi e che, in tal caso, l’apertura coattiva sarebbe stata possibile solo previa autorizzazione del Procuratore della Repubblica ai sensi dell’art. 52, comma 3 del D.P.R. n. 633/1972). Ciò in quanto – a dire della Cassazione, sulla base di una discutibile interpretazione formalistica e diretta a limitare i diritti dei contribuenti – siffatto obbligo di informazione non sarebbe previsto da alcuna norma (cfr. Cass., SS.UU., n. 3182/2022).

Con riguardo alla seconda fattispecie, si richiama la consolidata giurisprudenza secondo cui, per la trasmissione all’A.d.E. di atti, documenti e notizie acquisite nell’ambito di un’indagine o di un processo penale, la mancanza della “previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria”, richiesta dagli artt. 63, comma 1 del D.P.R. n. 633/1972 e 33, comma 3, del D.P.R. n. 600/1973, avrebbe rilevanza esclusivamente interna, a tutela della riservatezza delle indagini penali e non anche del contribuente, con la conseguenza che la relativa violazione sarebbe irrilevante in sede tributaria (cfr., tra le tante, Cass. n. 23729/2013; Cass. 7279/2009; Cass. n. 11203/2007; Cass. n. 2450/2007; Cass. 28695/2005).

Fermo restando che tali orientamenti dovrebbero essere rimeditati in ragione del nuovo quadro normativo, che tra l’altro valorizza espressamente il principio proporzionalità anche con riguardo “alle misure di contrasto dell’elusione e dell’evasione fiscale” ai sensi del nuovo art. 10 ter, comma 3 della L. n. 212/2000, è comunque opportuno che il Legislatore intervenga a disciplinare meglio e compiutamente la fase istruttoria nel suo complesso, compresi i presupposti – sostanziali e procedurali – per ricorrere all’utilizzo dei diversi poteri istruttori, nonché gli strumenti difensivi del contribuente, anche di carattere inibitorio, per opporsi a eventuali abusi e arbitri.

In tal modo, infatti, per un verso, si verrebbe a evitare che l’applicazione concreta dei nuovi articoli 7 quinquies e 10 ter possa essere frustrata da interpretazioni sbilanciate a favore delle esigenze erariali e, per altro verso, si rispetterebbe in modo pieno ed effettivo il principio di legalità, come inteso dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Quest’ultima ha, infatti, chiarito che le ingerenze del rispetto della vita privata e del domicilio del contribuente, tutelato dall’art. 8 della CEDU, per essere legittime, devono essere “previste dalla legge”, che sia anche sufficientemente accessibile e prevedibile nonché rispettosa dei principi dello Stato di diritto e di proporzionalità.

Dunque, è essenziale che le norme interne circoscrivano in modo chiaro e adeguato i presupposti e l’estensione dei poteri delle Autorità nazionali. Le garanzie convenzionali sono infatti violate nel caso in cui l’ordinamento nazionale riconosca alle Autorità fiscali poteri eccessivamente ampi e discrezionali, in particolare in merito alla valutazione dell’opportunità di adottare misure ispettive che incidano sui diritti garantiti dall’art. 8 della CEDU, al numero delle ingerenze, alla loro gravità ed estensione temporale nonché al rapporto con altre misure istruttorie alternative e meno lesive dei diritti dell’interessato (Corte EDU, 25 febbraio 1993, Funke c. Francia, n. 10828/84, §§ 57-58; 25 febbraio 1993, Crémieux c. Francia, n. 11471/85, § 40; 25 febbraio 1993, Miailhe c. France (no. 1), n. 12661/87, § 38. Anche l’eccessiva genericità dell’ordine di perquisizione può essere motivo di violazione delle garanzie dell’art. 8 della CEDU: Corte EDU, 15 giugno 2003, Ernst e altri c. Belgio, n. 33400/96, §§ 109-117; 24 aprile 2018, Benedik c. Slovenia, n. 62357/14, §§ 129-133). Seguendo tale approccio interpretativo, la Corte di Strasburgo ha inoltre avuto modo di affermare che le garanzie da riconoscere ai contribuenti sottoposti a ispezione debbano essere adeguate ed effettive, al fine di poter contrastare eventuali abusi e condotte arbitrarie (Cfr. Corte EDU, Funke, cit., § 57; 6 settembre 1978, Klass e altri c. Germania, n. 5029/71 [CG], § 50).

Infine, meritano di essere rimeditate e rinforzate quelle disposizioni che richiedono una autorizzazione preventiva per l’esercizio dei poteri istruttori particolarmente invasivi per i diritti e le libertà fondamentali del contribuente, specialmente laddove comportino ingerenze nel rispetto della vita privata e nella protezione di dati di carattere personale (ex artt. 7 e 8 della Carta di Nizza nonché artt. 1, comma 1, lett. b, nn. 1 e 2, e 3, comma 1, lett. a, della legge delega n. 111/2023).

La Corte di Giustizia dell’U.E. ha, infatti, rimarcato (seppure con riguardo al trattamento dei dati personali nel settore delle comunicazioni elettroniche) che il rispetto dei diritti fondamentali e del requisito di proporzionalità esige che la normativa nazionale preveda regole chiare e precise, che disciplinino la portata e l’applicazione della ingerenza istruttoria e fissino dei requisiti minimi, di modo che le persone i cui dati personali vengono in discussione dispongano di garanzie sufficienti che consentano di proteggere efficacemente tali dati contro i rischi di abusi. A tal fine, hanno concluso i giudici di Lussemburgo, “è essenziale che l’accesso delle autorità nazionali competenti ai dati conservati sia subordinato ad un controllo preventivo effettuato o da un giudice o da un’entità amministrativa indipendente” (Corte di Giustizia UE, 2 marzo 2021, causa C-746/18 [GS], H.K., p. 51), cioè che non sia coinvolta nella conduzione dell’indagine di cui trattasi e, dall’altro, abbia una posizione di neutralità nei confronti delle parti del procedimento. Ciò al fine di garantire un giusto equilibrio tra, da un lato, gli interessi connessi alle necessità dell’indagine e, dall’altro, i diritti fondamentali al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati personali.

La Corte di Giustizia ha quindi concluso nel senso che difetta del requisito di indipendenza il “pubblico ministero che dirige il procedimento di indagine ed esercita, se del caso, l’azione penale” (Corte di Giustizia UE, H.K., cit., p. 55), in quanto soggetto istituzionalmente interessato all’esito della verifica, avendo il compito, se del caso, di esercitare l’azione penale.

In tale prospettiva, andrebbero rafforzate le garanzie in materia di accertamenti bancari di cui all’art. 51, comma 2, n. 7), del D.P.R. n. 633/1972 in materia IVA e all’art. 32, comma 1, n. 7), del D.P.R. n. 600/1973 ai fini delle imposte dirette, in base alle quali è richiesto – soltanto – la “previa autorizzazione del direttore centrale dell’accertamento dell’Agenzia delle entrate o del direttore regionale della stessa, ovvero, per il Corpo della guardia di finanza, del comandante regionale”.

I vertici centrali o locali dell’Agenzia delle Entrate e/o della Guardia di Finanza non sembrano, infatti, soddisfare il requisito di “indipendenza” richiesto dalla Corte di Giustizia con il caso H.K., poiché non sono certamente Autorità neutrali rispetto alle parti contrapposte, essendo interessate ai risultati delle relative indagini. Ciò comporta che l’attuale disciplina dei controlli bancari (anche ai fini delle imposte dirette, in ragione dell’attribuzione all’Unione della materia della protezione dei “dati personali” ai sensi dell’art. 16 del TFUE) presenta rilevanti dubbi di compatibilità con le garanzie europee e, quindi, le prove in tale modo reperite potrebbero essere considerata inutilizzabili.

Analoghe considerazioni rilevano anche in relazione alla disciplina dell’accesso presso i locali del contribuente ex art. 52 del D.P.R. n. 633/1972, compresi gli accessi presso le abitazioni, in cui l’autorizzazione deve essere concessa dal Procuratore della Repubblica. Infatti, come chiarito dalla Corte di Giustizia nel caso H.K., il Pubblico Ministero difetta di indipendenza, per essere il soggetto deputato a utilizzare in sede penale le eventuali prove così reperite.