Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
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17/05/2024 - L'accertamento con adesione vincola solo le parti che vi hanno aderito

argomento: Attuazione del tributo - Giurisprudenza

La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, conferma il suo orientamento in tema di efficacia vincolante dell’accertamento con adesione solo per le parti che lo hanno sottoscritto. In particolare, secondo i giudici, in caso di cessione di azienda, l’accertamento con adesione concluso dall’Agenzia delle Entrate con la parte acquirente non produce effetti sulla parte venditrice per determinare la plusvalenza realizzata da quest’ultima con la cessione.

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PAROLE CHIAVE: accertamento con adesione - cessione di azienda - efficacia


di Anna Rita Ciarcia

1. La Corte di Cassazione, con l’ordinanza 19 dicembre 2023, n. 35462, in commento, è intervenuta in merito all’efficacia vincolativa dell’accertamento con adesione.

La vicenda trae origine da una cessione di azienda. In particolare l’Ufficio aveva proceduto a notificare alla ricorrente (società cedente) un avviso di accertamento per maggior IRES; la maggiore imposta era stata determinata a seguito di un accertamento con adesione stipulato tra la stessa Agenzia delle Entrate e la società acquirente alla quale era stato, a sua volta, notificato un avviso di accertamento con il quale si richiedeva una maggiore imposta di registro, sulla base della plusvalenza che si assumeva essere stata realizzata a seguito della suddetta cessione.

L’Ufficio, quindi, aveva ritenuto di poter estendere gli effetti del concordato stipulato con la società acquirente, in materia di imposta di registro, alla società cedente, richiedendo il pagamento in materia di IRES.

Secondo la Corte, tuttavia, l’accertamento con adesione sottoscritto con la parte acquirente di una cessione di azienda non ha effetti sulla parte venditrice per l’eventuale plusvalenza realizzata a seguito della cessione.

 

2. Nel caso esaminato dalla Corte, secondo l’Agenzia delle Entrate costituiva valida presunzione, per determinare, ai fini IRES, in capo al venditore la plusvalenza derivante dalla cessione di una azienda, il valore dell’azienda (comprensivo di avviamento) indicato in sede di accertamento con adesione, stipulato, ai fini di imposta di registro, dal soggetto acquirente.

Preliminarmente, in merito alla possibilità, per l’Ufficio, di poter utilizzare (in termini generali) il valore di mercato accertato ai fini dell’imposta di registro, in sede di quantificazione, ai fini del reddito, della plusvalenza derivante dalla cessione d’azienda (o di immobili), occorre precisare che la Suprema Corte, in un primo momento, aveva riconosciuto tale opportunità per l’amministrazione finanziaria, creando un collegamento tra le disposizioni riguardanti la disciplina dell’imposta sui trasferimenti e quelle concernenti la disciplina dell’imposizione reddituale (CORASANITI, Brevi note in merito alla rettifica della plusvalenza da cessione di azienda sulla base del valore definitivamente accertato ai fini dell’imposta di registro, in Dir. prat. trib., 2010, II, p. 67).

Il dualismo tra queste disposizioni (le prime, incentrate sul valore corrente; le seconde, incentrate sui prezzi praticati) era ricomposto dalla Corte che aveva individuato uno strettissimo legame tra valore accertato ai fini del registro e prezzo concretamente applicato in occasione del trasferimento del complesso produttivo (Cass., sez. VI - 5, sent. 1° aprile 2015, n. 6666; Cass., sez. V, sent. 21 febbraio 2007 n. 4057, in Corr. trib., 2007, 22, p. 1805, con commento di GIARETTA, Plusvalenze da cessione di azienda tra corrispettivo e valore normale). La Corte aveva concordato con l’Amministrazione finanziaria nel ritenerla “vincolata” ad utilizzare un’uniforme valutazione del medesimo bene, per effetto dei principi costituzionali di uguaglianza, imparzialità e capacità contributiva, non potendo ritenersi ragionevole che per un medesimo bene possano essere considerati due valori, distinti a seconda della tipologia dell’imposta da applicare. Attribuire, infatti, allo stesso bene, in un medesimo contesto negoziale, due diversi valori fiscali, a seconda del soggetto dal quale ciascuna imposta è dovuta, finirebbe fatalmente con l’apparire “stridente... col più elementare senso di giustizia” (DAMIANI, Plusvalenze da cessione di immobili: diarchia di valori tra imposta di registro e imposta sui redditi, in GT – Riv. giur. trib., 2017, 12, p. 954).

Successivamente, tuttavia, l’orientamento della Corte si è modificato in ragione della novella legislativa recata dall’art. 5, comma 3, del D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147, che ha escluso l’automatica utilizzabilità dei valori accertati ai fini dell’imposta di registro per l’imposta sui redditi (PURI, La legge “chiude” la scorciatoia delle plusvalenze presunte, in Notariato, 2016, 5, p. 509), e richiede, per conferire valenza al criterio presuntivo, sempre utilizzabile in base agli artt. 38, 39 del D.P.R. n. 600/1973 e 54 del D.P.R. n. 633/1972, che siano evidenziati ulteriori elementi di supporto alla rettifica (Cass., sez. V, sent. 4 novembre 2016, n. 22416).

Pertanto, l’Amministrazione finanziaria non può procedere ad accertare, in via induttiva, la plusvalenza patrimoniale realizzata a seguito di cessione di immobile o di azienda solo sulla base del valore dichiarato, accertato o definito ai fini di altra imposta commisurata al valore del bene, come per il caso dell’imposta di registro, posto che la base imponibile ai fini reddituali è data non già dal valore del bene, ma dalla differenza tra i corrispettivi percepiti nel periodo di imposta e il prezzo di acquisto del bene ceduto, aumentato di ogni altro costo inerente al bene medesimo (Cass., sez. V, ord. 30 ottobre 2018, n. 27614).

L’Ufficio finanziario, quindi, avrà bisogno di necessari ulteriori elementi gravi, precisi e concordanti; solo a questo punto l’onere della prova si sposterà sul contribuente, il quale dovrà fornire prove di segno contrario idonee a superare quelle offerte dall’Agenzia delle Entrate. Pertanto, per le cessioni di immobili e di aziende, l’esistenza di un maggior corrispettivo di cessione non è presumibile soltanto sulla base del valore anche se dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro (Cass., sez. V, ord. 26 gennaio 2021, n. 1581).

Nel caso de quo, quindi, a maggior ragione non potrà utilizzarsi il maggior valore determinato ai fini dell’imposta di registro, anche per il fatto che, nella circostanza in esame, non è in discussione un accertamento definitivo sic et simpliciter, ma un accertamento con adesione prestato da un contribuente diverso da quello nei cui confronti tale accertamento (sia pure in via presuntiva) è invocato.

Tale tipo di accertamento, infatti, avendo natura di concordato tra l’amministrazione e il contribuente ed essendo caratterizzato dal carattere volontario dell’adesione, non può che avere efficacia nei confronti del soggetto che tale adesione ha prestato, dovendo escludersi che possa acquisire valore anche indiretto (quale presunzione idonea a determinare perciò solo inversione dell’onere della prova) nei confronti di chi (come nella specie) abbia impugnato l’atto impositivo fondato sul valore accertato con adesione in relazione ad altra imposta e rispetto a diverso soggetto. Una differente interpretazione vanificherebbe il carattere volontario dell’adesione; inoltre, l’estensione degli effetti dell’accertamento con adesione relativo ad altri coobbligati può ammettersi solo in bonam partem ed in assenza di una espressa volontà contraria del contribuente. Non appare possibile, tuttavia, comprendere appieno le conclusioni da ultimo raggiunte dalla Corte senza ripercorrere brevemente le posizioni espresse in precedenza nella sentenza n. 262/2020 e, ancor prima, nella sentenza n. 163/2019. La Corte, infatti, era già stata chiamata in precedenza a scrutinare la costituzionalità dell’art. 14 del D.Lgs. n. 23/2011 proprio nella formulazione susseguente alla L. n. 147/2013; tuttavia in quell’occasione non aveva inteso addentrarsi nel merito, eludendo le aspettative di quanti tra i commentatori avevano intravisto la sussistenza dell'antinomia denunciata dal rimettente (cfr. FARRI, I principi di capacità contributiva e di uguaglianza alla prova della parziale indeducibilità dell’IMU dal reddito d'impresa, in Riv. dir. trib., 2019, 2, pp. 56-78). Tuttavia, con quella sentenza la Corte, soffermandosi nel sanzionare la formulazione dei quesiti devoluti dal rimettente, reputava opportuno procedere alla declaratoria di inammissibilità.

Il tema giungeva nuovamente al vaglio della Consulta durante il corso dell’anno 2020, seppur con riferimento alla formulazione originaria dell’art. 14 cit. – valida solo per i periodi d’imposta 2011-2012 – che escludeva tout court la deducibilità dell’IMU dagli imponibili IRES (sent. n. 262/2020). Per via della irragionevole preclusione assoluta, quel giudizio si concludeva con la declaratoria di parziale incostituzionalità per contrasto con gli artt. 3, 41, 53 Cost. L’illegittimità, ad avviso della Corte, si sostanziava nell’incoerenza della scelta legislativa di vietare la deduzione dell’imposta municipale sugli immobili strumentali con il presupposto che caratterizza l’IRES, costituito nel possesso di un “reddito complessivo netto” (ex art. 75, comma 1, TUIR) e la conseguente deducibilità costo inerente all’esercizio dell’impresa in quanto finalizzati proprio alla produzione del reddito (cfr. QUATTROCCHI, Sulla deducibilità, ai fini Ires, dell’Imu sugli immobili strumentali, in Riv. dir. trib., 2021, 5, pp. 246-268).

 

3. Si evidenzia che non mancano casi di estensione plurisoggettiva di efficacia dell’accertamento con adesione.

Nel caso, ad esempio, di consolidato fiscale, si può ritenere un’estensione degli effetti della definizione con adesione dell’accertamento di primo livello da parte di una società consolidata sulla responsabilità nei confronti del fisco della società consolidante che non abbia né partecipato al procedimento di accertamento con adesione (e, quindi, non abbia sottoscritto, unitamente alla consolidata, il relativo atto di adesione) né tempestivamente impugnato l’avviso di accertamento di secondo livello, che è divenuto, perciò, definitivo.

Tale conclusione è giustificata in ragione del vincolo di solidarietà esistente tra consolidante e consolidata, ex art. 1304 c.c., comma 1, pertanto, l’accertamento con adesione di “primo livello” della consolidata deve ritenersi idoneo a produrre effetti nei confronti della consolidante che abbia dichiarato, in qualunque forma, di volerne profittare (Cass., sez. V, sentt. 21 novembre 2019, n. 30348 e 22 febbraio 2022, n. 5691).

Più dibattuta è invece l’estensione di efficacia della definizione in accertamento (del p.v.c. o) dell’atto impositivo della società nei confronti della esistenza di maggiori utili presuntivamente distribuiti ai soci (numerosa in merito la dottrina, si vedano, tra gli altri, COPPOLA, La questione dell’onere della prova contraria (vincolata) in capo ai soci di società a ristretta base azionaria, in Riv. tel. dir. trib., 15 novembre 2021; CIARCIA, La presunzione di distribuzione di utili ai soci – nota a Cass., sez. VI-5, 25 ottobre 2021, n. 29794, in Tax News, 2022, 1, p. 35; SERRANÒ, La presunzione di distribuzione di utili extracontabili e la legittimità dell’accertamento sul socio implicano il rispetto del contraddittorio endoprocedimentale e del litisconsorzio necessario, in Dir. prat. trib., 2022, 2, p. 550; SCHIAVOLIN, La giurisprudenza sulla distribuzione presunta di utili nelle società di capitali a base ristretta si allontana sempre più dai dati normativi, in Dir. prat. trib., 2023, 4, p. 1244).

Più coerente l’orientamento della Cassazione secondo il quale la sopravvenuta definizione dell’accertamento formalizzata per la società di capitale non neutralizza, in concomitanza, gli effetti dell’accertamento mosso dall’AdE nei confronti dei singoli soci, in qualità di persone fisiche, precludendo pertanto l’unitarietà dell’accertamento di cui all’art. 4, comma 2, del D.Lgs. n. 218/1997 (Cass., sez. V, ord. 29 novembre 2021, n. 37193).

Ciò in quanto deve escludersi, in considerazione della finalità propria del concordato, che l’istanza di adesione formulata dalla società estenda la propria efficacia ai soci che non abbiano proposto, a loro volta, analoga istanza (Cass., sez. V, ord. 20 dicembre 2018, n. 32959); l’accertamento definito con adesione, che non è soggetto ad impugnazione, non è integrabile o modificabile da parte dell’ufficio, riguarda la sola società ed il maggior reddito accertato in capo ad essa non si presume distribuito ai soci, incombendo sull’Ufficio l’onere della prova in ordine alla distribuzione di esso. Ne consegue che l’avviso di accertamento notificato al socio mantiene la propria autonomia e gli elementi addotti dalla società in sede di accertamento con adesione potranno essere considerati, nella fase contenziosa instauratasi tra l’amministrazione ed il socio, solo quali elementi di prova da valutare unitamente alle prove offerte dal contribuente (Cass., sez. V, ord. 24 gennaio 2019, n. 1947), nel rispetto del diritto alla difesa riconosciuto al socio; se la società ha definito la propria posizione con una procedura per adesione, il verosimile maggior reddito accertato (che però, sicuramente sarà inferiore rispetto al reddito inizialmente accertato alla società) con questa modalità potrà, eventualmente, rappresentare un elemento per dimostrare il conseguimento da parte della società di redditi non dichiarati, da cui consegue la presunzione di distribuzione al socio, il quale, però, potrà fornire la più ampia prova contraria. Infatti, il socio non partecipa al procedimento di accertamento del maggior reddito a carico della società di capitali, pertanto lo stesso deve sempre avere la possibilità di contestare la pretesa dell’ufficio, anche quando questa si fondi sul maggior reddito societario concordato per adesione della persona giuridica.

Pertanto, al fine di garantire il diritto di difesa si dovrà sempre consentire ai soci di provare, con mezzi ammissibili, qualsiasi fatto che il giudice di merito consideri rilevante nel caso concreto, in quanto idoneo a dimostrare non solo l’impossibilità, ma anche l’improbabilità della distribuzione presunta dall’amministrazione finanziaria.

 

4. La riforma introdotta dall’art. 5, comma 3, D.Lgs. n. 147/2015, come visto, ha vietato all’Amministrazione finanziaria di presumere ai fini delle imposte sui redditi l’occultamento del corrispettivo ponendo a base della ripresa impositiva unicamente il valore del bene come individuato nell’ambito delle imposte d’atto; nello specifico, per l’imposta di registro, l’art. 52, comma 1, D.P.R. n. 131/1986, concernente la rettifica del valore degli immobili e delle aziende, dispone che l’ufficio, se ritiene che per i beni immobili o diritti reali immobiliari o che hanno per oggetto aziende o diritti reali su di esse – ex 51, commi 3 e 4, stesso decreto – hanno un valore venale superiore al valore dichiarato o al corrispettivo pattuito, provvede con lo stesso atto alla rettifica e alla liquidazione della maggiore imposta, con gli interessi e le sanzioni.

In particolare, l’art. 51, comma 4, citato, stabilisce, con riguardo agli atti che hanno per oggetto aziende, che il valore dei beni dichiarato dalle parti viene controllato dall’ufficio facendo riferimento al loro valore complessivo compreso l’avviamento al netto delle passività risultanti dalle scritture contabili obbligatorie o da atti aventi data certa a norma del codice civile tranne quelli che l’alienante si sia espressamente impegnato ad estinguere (SERVIDIO, Plusvalenza accertabile anche se il valore non è rideterminato ai fini dell’imposta di registro, in Immobili & proprietà, 2021, 8-9, p. 517).

Ai fini dell’imposta di registro, il controllo degli atti che hanno per oggetto aziende avviene con riferimento al valore complessivo dei beni che compongono l’azienda, mentre la rettifica del valore dei beni deve avvenire con l’indicazione del valore attribuito a ciascuno dei beni in relazione ai quali l’ufficio ritiene che il valore venale risulti superiore al valore dichiarato. Il collegamento che inevitabilmente si viene a determinare tra il valore complessivo dei beni che compongono l’azienda, compreso il valore di avviamento, indicato nell’atto di cessione dell’azienda, e il valore dei beni ceduti che entrano nel calcolo delle plusvalenze realizzate dalla cessione dell’azienda e da assoggettare ad imposizione sui redditi, interessa anche la fase del controllo del valore dei beni e dell’avviamento dichiarato nell’atto di cessione. La circostanza che siano previsti principi diversi in ordine alla determinazione del valore dei beni che vengono ceduti: il valore di mercato per l’imposta di registro, il prezzo di cessione per il calcolo delle plusvalenze imponibili ai fini delle imposte sui redditi, non circoscrive la rettifica del valore del bene dichiarato nell’atto di cessione per adeguarlo al valore di mercato al solo ambito dell’imposta di registro. E anche se dopo l’entrata in vigore dell’art. 5, comma 3, D.Lgs. n. 147/2015, non si può più presumere che il valore accertato ai fini dell’imposta di registro corrisponda al corrispettivo percepito da porre a base per la rettifica o la determinazione delle plusvalenze realizzate da cessione dei beni strumentali, non si può negare che il valore di mercato accertato ai fini dell’imposta di registro sia elemento utile per provare che non esiste proporzione tra il valore dei beni ceduti indicato nell’atto di cessione dell’azienda e il corrispettivo realmente percepito (MENTI, L’avviamento e le passività inerenti nella cessione di azienda, in Dir. prat. trib., 2020, 2, p. 611).

 

5. Nell’ipotesi di una cessione di azienda, l’Ufficio finanziario, a seguito della modifica legislativa del 2015, non potrà più utilizzare solamente il valore determinato ai fini dell’imposta di registro per calcolare la plusvalenza ai fini reddituali. L’intervento era ritenuto necessario anche in considerazione delle differenze strutturali tra i due tributi in merito al diverso criterio di determinazione della base imponibile con ovvie ricadute sulla successiva attività accertatrice. Per l’imposta di registro è la normativa stessa che stabilisce il metodo di determinazione della base imponibile nell’astratta potenzialità economica dell’atto registrato e dunque il valore venale in comune commercio piuttosto che la ricchezza effettiva, nelle imposte dirette, al contrario, si vuole individuare il corrispettivo effettivamente percepito.

La diversità dei tributi porta, dunque, a ritenere improbabile che il valore accertato ai fini del registro possa rappresentare l’elemento fondante dell’accertamento ai fini delle dirette o, meglio, la premessa maggiore di una presunzione che comprovi l’identità tra valore di mercato e prezzo reale.

Nel caso de quo, dunque, a maggior ragione non potrà ritenersi fondante una plusvalenza determinata, ai fini dell’imposta di registro, a seguito di accertamento con adesione tra società acquirente e Agenzia delle Entrate, a giustificare una maggiore pretesa Ires alla società cedente, soggetto terzo ed estraneo al concordato stipulato. 

Quest’ultimo, infatti, vincola solo le parti tra cui viene effettuato l’accordo; la natura di accordo bilaterale consensuale dell’accertamento con adesione non giustifica l’efficacia vincolante nei confronti di soggetti terzi.