argomento: Principi generali e fonti - Giurisprudenza
L’art. 110, comma 7, T.U.I.R. è finalizzato alla repressione del fenomeno economico del transfer pricing in sé considerato, di conseguenza grava sull’Amministrazione finanziaria la prova riguardante solo l'esistenza di transazioni, tra imprese collegate, ad un prezzo apparentemente inferiore a quello normale. Sul contribuente, invece, grava l'onere di dimostrare che tali transazioni siano intervenute per valori di mercato da considerarsi normali alla stregua dell'art. 9, comma 3, T.U.I.R.
» visualizza: il documento (Cass., sent. n. 9615 del 13 marzo 2019)PAROLE CHIAVE: trasfer pricing - royalties - valore normale
Svolgimento del processo
In particolare, secondo il giudice di appello, l'assetto verticistico del gruppo, la partecipazione per oltre il 99% della cedente svizzera nella società concessionaria (odierna ricorrente), il contenuto del contratto (che prevedeva solo la concessione di un limitato diritto di esclusiva all'utilizzo del marchio) non giustificavano la percentuale del 3,5%, cui doveva aggiungersi l'ulteriore percentuale dell'1,6% quale contributo sugli investimenti di promozione e sviluppo dell'immagine della società licenziante. Secondo la C.T.R. l'Ufficio aveva, quindi, correttamente rideterminato il valore delle prestazioni entro il 2%, attenendosi alla Circolare n. 32/09/2267 sui criteri guida per la determinazione del valore normale delle royalties secondo le indicazioni del rapporto redatto dall'OCSE nel 1979.
La C.T.R. riteneva, inoltre, che l'adozione dei criteri indicati nella circolare citata costituisse una seria presunzione, che spostava sul contribuente l'onere di provare la normalità del valore pattuito.
Nel caso di specie, secondo i giudici di appello, la società ricorrente non aveva dimostrato la sussistenza delle condizioni (relative ai dati tecnici dell'impresa, al contenuto del contratto e all'effettiva utilità del licenziatario) che, secondo i parametri contenuti nella circolare citata, consentivano di ritenere normale un valore superiore al 2%.
La C.T.R., infine, riteneva corretta anche la rideterminazione operata dall'Ufficio della base di calcolo delle percentuali dovute a titolo di royalties dalla ricorrente alla controllante, dovendosi escludere dalla stessa, sia il fatturato derivante dalle vendite effettuate alle consociate estere, perchè non inerente, sia i bonus di vendita (cioè gli sconti) riconosciuti agli acquirenti.
Motivi della decisione
1.1. Preliminarmente, va rilevato che i motivi di ricorso riguardano solo la statuizione della sentenza relativa alla percentuale delle royalties applicata dalla controllante alla controllata e ritenuta dall'Ufficio superiore rispetto al "valore normale".
Con il primo motivo, la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1 e art. 40, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
La ricorrente sostiene che i giudici di appello avrebbero confuso i presupposti che legittimano il ricorso al metodo di accertamento analitico induttivo, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, con i metodi per la determinazione del quantum della ripresa a tassazione.
Secondo la società, nel caso in esame, l'Ufficio avrebbe fatto ricorso all'accertamento analitico induttivo del reddito in assenza di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti, ma facendo meramente rinvio ai parametri della circolare 22 settembre 1980, n. 32, rideterminando il valore normale dei canoni nella misura del 2% del fatturato.
Con il secondo motivo, la ricorrente censura, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), l'omessa motivazione su fatti decisivi e controversi, consistenti nell'omesso esame dei documenti prodotti dalla società a dimostrazione della congruità delle royalties, quali il contratto con V. del 3/9/1985 (dal quale emergeva che le percentuali di royalties per la realizzazione stilistica, lo sfruttamento del marchio e il contributo all'immagine erano pari al 13%), i dati contabili (da cui risultavano i risultati economici raggiunti grazie alle licenze), la certificazione di un revisore indipendente, le specifiche caratteristiche del settore economico (tessile per l'arredamento, con elevata tecnologia ed obsolescenza del prodotto inferiore all'anno).
1.2. I motivi sono infondati e vanno rigettati.
1.3. Secondo la ricorrente, la C.T.R. avrebbe ritenuto legittimo l'accertamento analitico - induttivo dell'Amministrazione, basato unicamente sul riferimento alla circolare 22 settembre 1980, n. 32, senza che vi fossero ulteriori elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti a giustificare la rideterminazione del valore delle royalties.
In realtà, nel caso di specie la C.T.R. ha ritenuto che l'accertamento dell'Amministrazione finanziaria fosse legittimo per la sussistenza dei presupposti di cui al T.u.i.r., art. 110, comma 7 (situazione di controllo societario e superamento del valore normale delle prestazioni rese - nella specie royalties in relazione a transazioni aventi ad oggetto beni immateriali - quali indicati nella circolare n. 32 del 1980, che recepiva le linee guida dell'OCSE).
Invero, il T.u.i.r., art. 110, comma 7, sul cd. transfer pricing, prevede che "i componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che direttamente o indirettamente controllano l'impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l'impresa, sono valutati in base al valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti, determinato a norma del comma 2, se ne deriva aumento di reddito"; il comma 2 richiama il T.U.I.R., art. 9, il quale, al comma 3, dispone che "per valore normale, salvo quanto stabilito nel comma 4 per i beni ivi considerati, si intende il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza ed al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi. Per la determinazione del valore normale si fa riferimento, in quanto possibile, ai listini ed alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o servizi e, in mancanza, ai listini delle camere di commercio ed alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d'uso. Per i beni e i servizi soggetti a disciplina dei prezzi si fa riferimento ai provvedimenti in vigore".
Secondo l'orientamento prevalente di questa Corte, la normativa in esame non integra una disciplina antielusiva in senso proprio, ma è finalizzata alla repressione del fenomeno economico del "transfer pricing" (spostamento d'imponibile fiscale a seguito di operazioni tra società appartenenti al medesimo gruppo e soggette a normative nazionali differenti) in sè considerato, sicchè la prova gravante sull'Amministrazione finanziaria riguarda non il concreto vantaggio fiscale conseguito dal contribuente, ma solo l'esistenza di transazioni, tra imprese collegate, ad un prezzo apparentemente inferiore a quello normale, mentre incombe sul contribuente, giusta le regole ordinarie di vicinanza della prova ex art. 2697 c.c., ed in materia di deduzioni fiscali, l'onere di dimostrare che tali transazioni siano intervenute per valori di mercato da considerarsi normali alla stregua di quanto specificamente previsto dal T.U.I.R., art. 9, comma 3 (Cass. n. 7493 del 15/4/2016; n. 13387 del 30/6/2016; Cass. 27018 del 15/11/2017; Cass. n. 18392 del 18/9/2015; Cass. n. 9673 del 19/4/2018).
La ratio della normativa va dunque rinvenuta nel principio di libera concorrenza enunciato nell'art. 9 del Modello di Convenzione OCSE, il quale prevede la possibilità di sottoporre a tassazione gli utili derivanti da operazioni infragruppo che siano state regolate da condizioni diverse da quelle che sarebbero state convenute fra imprese indipendenti in transazioni comparabili effettuate sul libero mercato; si tratta, quindi, di verificare la sostanza economica dell'operazione intervenuta e di metterla a confronto con analoghe operazioni realizzate, in circostanze comparabili, in condizioni di libero mercato tra soggetti indipendenti e di valutarne la conformità a queste.
Nel caso di specie, secondo la C.T.R., l'assetto verticistico del gruppo, la partecipazione per oltre il 99% della cedente svizzera nella società concessionaria (odierna ricorrente), il contenuto del contratto (che prevedeva solo la concessione di un limitato diritto di esclusiva all'utilizzo del marchio della capogruppo, che tuttavia si riservava il diritto di produzione e commercializzazione diretta ed indiretta dei medesimi prodotti), non giustificavano la percentuale del 3,5%, cui doveva aggiungersi l'ulteriore percentuale dell'1,6%, quale contributo sugli investimenti di promozione e sviluppo dell'immagine della società licenziante.
Il giudice di appello ha ritenuto che il superamento dei valori assunti come "normali" dalla circolare 22 settembre 1980, n. 32, non fosse giustificato alla luce degli elementi concreti della fattispecie e che correttamente l'Ufficio avesse rideterminato il valore delle prestazioni entro il 2%, attenendosi alla Circolare citata, che ha recepito le indicazioni del rapporto redatto dall'OCSE nel 1979.
La circolare individua tre livelli per valutare il valore normale delle royalties: il primo, non sospetto, fino al 2%; il secondo dal 2% al 5%, determinato in base ai dati tecnici dell'impresa ed al contenuto del contratto, con particolare riferimento all'utilità del licenziatario; il terzo oltre il 5% per casi eccezionali, giustificati dall'alto livello tecnologico del settore economico di riferimento.
La decisione della C.T.R. non appare in contrasto con il T.u.i.r., art. 110, comma 7 (nè con il D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 39 e 40), poichè il giudice di appello ha ritenuto che sussistesse una serie di elementi, che, unitamente considerati, concorrevano a formare un quadro indiziario idoneo a legittimare l'accertamento dell'Ufficio ai sensi dell'art. 110, comma 7; inoltre ha assunto le percentuali indicate nella circolare n. 32 del 1980 quale parametro oggettivo per la determinazione del "valore normale", in mancanza di elementi di prova contrari o diversi forniti dalla contribuente.
La soluzione adottata è in linea con il principio pacifico, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, secondo cui l'onere della prova dei presupposti dei costi ed oneri deducibili, concorrenti alla determinazione del reddito d'impresa, ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi, incombe al contribuente (v. Cass. 25/02/2010, n. 4554; Cass. 30/07/2002, n. 11240).
1.4. Con il secondo motivo, la ricorrente si duole del mancato esame degli elementi di prova da lei addotti a dimostrazione della congruità del valore delle royalties.
In particolare, la ricorrente lamenta che il giudice di appello non avrebbe considerato, nè il contratto con V. del 3/9/1985, dal quale emergerebbe la pattuizione di una percentuale ben più alta, nè i dati contabili, da cui risulterebbero i risultati economici positivi raggiunti grazie alle licenze, e le specifiche caratteristiche del settore economico, cioè quello tessile per l'arredamento, con elevata tecnologia ed obsolescenza del prodotto in un periodo inferiore all'anno.
Dalla lettura della sentenza impugnata, invece, si evince che il giudice di appello ha tenuto presente tutti tali elementi, ma non li ha considerati decisivi, ritenendo "assorbenti" le argomentazioni dell'Ufficio in ordine all'assetto verticistico del gruppo, alla partecipazione quasi totalitaria della controllata da parte della controllante, al contenuto del contratto, che prevedeva la concessione di un diritto di esclusiva limitato, alle caratteristiche del settore, che non consentivano di inquadrarlo nell'ambito di quelli "ad alto livello tecnologico", pur riconoscendo l'indiscusso pregio dei prodotti.
Per costante giurisprudenza di legittimità il citato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), nella formulazione vigente anteriormente alle modifiche apportate dal D.L. n. 83 del 2012 - (applicabile ratione temporis in ragione della data di pubblicazione della sentenza d'appello) - non conferisce alla Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione operata dal giudice del merito, al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e, in proposito, valutarne le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza, scegliendo, tra le varie risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (cfr., ad esempio, in termini, Cassazione civile, sez. III, 04/03/2010, n. 5205 Cass. 6 marzo 2006, n. 4766. Sempre nella stessa ottica, altresì, Cass. 27 febbraio 2007, n. 4500; Cass. 19 dicembre 2006, n. 27168; Cass. 8 settembre 2006, n. 19274; Cass. 25 maggio 2006, n. 12445).
Non incorre, dunque, nel vizio di omesso esame o di insufficiente motivazione il giudice del merito che, nel sovrano apprezzamento delle prove, attinga il proprio convincimento agli elementi istruttori che ritenga più attendibili ed idonei alla risoluzione della controversia.
Sussistono giusti motivi, in relazione al definitivo consolidarsi degli orientamenti giurisprudenziali in materia nel corso del giudizio di cassazione, per compensare le spese processuali tra le parti.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 13 marzo 2019.
Depositato in Cancelleria il 5 aprile 2019