argomento: IRPEF - Legislazione e prassi
Tra le misure introdotte dal D.L. 34/2019, cd. Decreto Crescita, vi sono significative modifiche alle disposizioni fiscali volte ad incentivare il “rientro dei cervelli” in Italia. Rilevante la proposta normativa che concerne il criterio valutativo sulla residenza fiscale prescindendo dall’iscrizione all’AIRE purché sussista la residenza in un altro Stato ai sensi di una Convenzione contro le doppie imposizioni. Tale spiraglio normativo non può che produrre i suoi effetti anche al di là dei regimi agevolativi previsti, scardinando così il consolidato orientamento dell’amministrazione finanziaria e della giurisprudenza in merito alla presunzione assoluta di residenza attinente al requisito formale ex art. 2, comma 2, del Tuir.
PAROLE CHIAVE: residenza fiscale - residenza del contribuente - Aire - presunzioni - convenzioni contro le doppie imposizioni
di Erica Serafini
L’art. 5 del Decreto Crescita 2019 (D.L. 30 aprile 2019, n. 34), introduce significative novità ai fini dell’accesso ai benefici fiscali di cui agli articoli 16 del D.lgs 14 settembre 2015, n. 147 (“regime speciale per lavoratori impatriati”) e 44 del D.L. 31 maggio 2010, n. 78 (“incentivi per il rientro in Italia di ricercatori residenti all’estero”).
Alla luce della nuova normativa, per accedere al regime agevolato non è più necessaria la pregressa iscrizione all’AIRE da parte dei lavoratori cd. “rimpatriati” e dei docenti/ricercatori universitari per i periodi trascorsi all’estero purché abbiano avuto la residenza fiscale in un altro Stato con il quale vige una Convenzione contro le doppie imposizioni sui redditi per il periodo minimo richiesto dall’art. 16, comma 1, lettera a), del D.lgs 14 settembre 2015, n. 147 (vale a dire nei due periodi d’imposta precedenti al rimpatrio).
La nuova previsione normativa supera la consolidata interpretazione fornita dal Fisco (V., Ris. Ag. Entr. 7 agosto 2008, n. 351/E, Ris. Ag. Entr. 6 luglio 2018, n. 51/E e Circ. Ag. Entr. 23 maggio 2017, n. 17/E) e soprattutto dalla Corte di Cassazione secondo cui “ai fini delle imposte sui redditi le persone iscritte nell’anagrafe della popolazione residente si considerano, in applicazione del criterio formale dettato dall’art. 2 d.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917, in ogni caso residenti, e pertanto soggetti passivi d’imposta, in Italia, con la conseguenza che, ai fini predetti, essendo l’iscrizione indicata preclusiva di ogni ulteriore accertamento, il trasferimento della residenza all’Estero non rileva fino a quando non risulti la cancellazione dall’anagrafe di un Comune italiano” (V. Cass., sez. trib., 25 giugno 2018, n. 16634). Alla luce delle posizioni appena descritte, il dato formale dell’iscrizione anagrafica nei registri della popolazione residente e la conseguente mancata iscrizione all’AIRE, determina da sempre il configurarsi di una presunzione assoluta di residenza, al contrario degli atri due criteri fattuali (quali la residenza e il domicilio disciplinati dall’art. 43 c.c. e previsti in via alternativa dallo stesso art. 2, comma 2, del Tuir ai fini della definizione di soggetti passivi d’imposta), che determinano presunzioni relative di residenza.
Questo orientamento iperformalista dell’art. 2, comma 2, del Tuir è stato oggetto di critiche da parte della dottrina (V. MELIS, La nozione di residenza fiscale delle persone fisiche nell’ordinamento tributario italiano, in Rass. Trib., 1995, 1043 ss; MAISTO, Iscrizione anagrafica e residenza fiscale ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, in Riv. dir. trib., 1998, 221 ss; MARINO, La residenza nel diritto tributario, Padova, 1999, 22 ss.): è, infatti, chiaro che una interpretazione esclusivamente letterale dell’art. 2, comma 2 del Tuir, si pone radicalmente in contrasto con i principi enunciati agli artt. 2, 3 e 53 Cost., dando vita a circostanze paradossali, che non trovano alcuna giustificazione in relazione al fatto che, oltre tutto, il legislatore civilistico, in misura assai maggiore rispetto al legislatore tributario, valorizza i profili sostanziali piuttosto che quelli formali considerando le risultanze anagrafiche come presunzioni semplici, contro le quali è ammissibile la prova contraria (V. Cass., sez. trib., 20 aprile 2006, n. 9319).
I summenzionati articoli, relativi ai principi ispiratori dell’imposizione sui redditi, quali il principio di capacità contributiva, di eguaglianza sostanziale e di territorialità, prevedono che i soggetti su cui ricade l’obbligo di contribuire alle spese pubbliche, in ragione della rispettiva capacità contributiva, debbano presentare un effettivo “collegamento” con il territorio della Repubblica e che la misura di detta contribuzione sia modulata avendo riguardo al grado di detto “collegamento” (Sul tema si v. ARGINELLI – CUZZOLARO, Osservazioni (critiche) in merito alla sussistenza di una presunzione assoluta di residenza fiscale degli iscritti nelle anagrafi della popolazione residente, in Riv. dir. trib., 2019, pagg. 12 - 17).
Pertanto, una interpretazione dell’articolo 2, comma 2, del Tuir orientata al rispetto dei principi costituzionali, dovrebbe permettere ai soggetti residenti effettivamente all’estero di dimostrare la carenza di un sostanziale “collegamento” con il territorio dello Stato e di evitare lecitamente l’assoggettamento all’imposizione.
In questa chiave di lettura, appare risolutivo l’intervento del Legislatore che, richiamando la nozione di residenza convenzionale prevista dall’art. 4, paragrafo 2 della Convenzione Ocse, apre uno spiraglio normativo verso il superamento della presunzione assoluta di residenza dovuta alla mancata cancellazione dall’anagrafe della popolazione residente.
Nel dettaglio, la normativa contenuta nell’art. 4, par. 2 della Convezione Ocse stabilisce le modalità di definizione della residenza fiscale in base ai parametri tie break rules che consentono di risolvere i conflitti di residenza. Ne consegue che il soggetto deve essere considerato residente: (i) nello Stato contraente nel quale ha una abitazione permanente, ovvero nello Stato nel quale le sue relazioni personali ed economiche sono più strette; (ii) nello Stato contraente in cui soggiorna abitualmente; (iii) nel solo Stato di cui abbia la nazionalità; (iv) in base alla procedura amichevole disciplinata dall’art. 25 della Convenzione stessa.
Le disposizioni sopra richiamate non rappresentano criteri alternativi tra loro, ma seguono un ordine gerarchico, presupponendo dunque che, qualora il primo dei criteri non sia stato integrato, avrà rilievo il secondo e così via. A tal proposito, è evidente che tali criteri (a parte il criterio della nazionalità) siano caratterizzati dal requisito dell’effettività, e che in base a ciò si può desumere che la mera iscrizione al registro dei residenti non può essere considerata criterio di collegamento rilevante ai fini dell’imposizione sui redditi.
Il richiamo alla normativa convenzionale del Decreto Crescita rispetta quel principio di specialità tra norma interna e norma internazionale e considera, oltretutto, l’art. 117, comma 1, Cost. in base al quale “la potestà legislativa è esercitata (…) nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.
Alla luce di quanto sopra esposto, si auspica che la soluzione normativa proposta dal Legislatore nel Decreto Crescita possa illustrare all’amministrazione finanziaria, o ai giudici stessi nel corso di un processo, come si debba procedere in merito all’iter da seguire per identificare un soggetto fiscalmente residente in Italia, dando soprattutto la possibilità al contribuente di dimostrare l’effettiva residenza nello Stato estero anche secondo i criteri stabiliti dall’art. 4, par. 2, della Convenzione contro le doppie imposizioni, a prescindere dal dato meramente formale dell’iscrizione anagrafica, così sottraendosi all’imposizione fiscale in Italia, nel rispetto dei principi costituzionali sopra richiamati.