argomento: Principi generali e fonti - Legislazione e prassi
PAROLE CHIAVE: finanza pubblica - risorse UE - finanza locale
di Lorenzo del Federico
La G. Giappichelli Editore ha pubblicato nel mese di novembre un volume collettaneo dal titolo “La finanza pubblica nei vari livelli di governo. La prospettiva italiana, dai comuni all’Unione Europea, a cura di L. del Federico e C. Verrigni, con contributi di A. Amori, S. Ariatti, P. dè Capitani, V. Scalera.
Il libro si pone l’obiettivo di identificare ed inquadrare le forme di finanziamento dei diversi livelli di Governo, dai Comuni all’Unione Europea, nella prospettiva dell’ordinamento giuridico Italiano.
Le ricerche sono state svolte in un periodo in cui il tema del finanziamento dell’Unione Europea e del federalismo fiscale ha subito una fase di stallo, che soltanto in questi ultimi mesi sembra rianimarsi in occasione del dibattito politico-istituzionale sul bilancio dell’Unione e sul federalismo
differenziato in Italia.
Ed invero la principale preoccupazione della ricerca non è stata certo quella della prospettiva evolutiva Europea e/o federalista Italiana, quanto piuttosto quella di acquisire dati conoscitivi utili ai fini di un compiuto quadro del sistema di finanziamento dei diversi livelli di Governo, giacché
troppo spesso sia l’analisi giuridica, sia il dibattito politico istituzionale trascurano i dati di base.
Per ognuno dei diversi livelli di Governo si pongono questioni specifiche di fondo.
I Comuni
Il c.d. federalismo fiscale presentato come alternativa al “centralismo”, aveva come obiettivo quello di ridurre il peso delle imposte erariali mediante una riforma del sistema tributario e l’ampliamento della potestà impositiva degli enti locali. Si era ipotizzato di delineare una potestà impositiva correlata ai servizi locali, al fine di aumentare la quota del gettito fiscale impiegato a vantaggio della comunità che l’ha creata.
I nuovi spazi di autonomia tributaria riconosciuti dalla legge delega sul federalismo fiscale n. 42/2009 e dai successivi decreti attuativi hanno concesso agli enti territoriali scarni margini per applicare nuove forme di tributi propri con indici di capacità contributiva differenziati da quelli
classici che tradizionalmente colpiscono il reddito, il patrimonio ed il consumo.
In concreto, il federalismo si dovrebbe realizzare attraverso uno spostamento dell’incidenza del prelievo fiscale dallo Stato agli enti locali; da un lato, con l’eliminazione dei trasferimenti statali e la riduzione dell’apporto della finanza derivata e, dall’altro, con il riconoscimento in capo alle autonomie locali di un’autosufficienza finanziaria che consegue alla ripartizione, tra i diversi livelli di governo, sia di tributi propri che del gettito delle compartecipazioni dei tributi erariali il cui assortimento dipende dalla tipologia di funzioni che sono rivolte a finanziare.
Purtroppo, nell’attuale contesto tale assetto ha creato una sorta di deresponsabilizzazione dello Stato centrale che trasla l’intera gestione finanziaria sull’ente locale che, oltre a ricevere scarsi finanziamenti da Stato e Regione deve, in ogni caso, assicurare ai cittadini i servizi pubblici essenziali di sua competenza.
Per i Comuni resta insoluto e sullo sfondo anche il risalente problema dell’eccessiva numerosità e dello squilibrio tra le modeste entrate tributarie proprie ed i trasferimenti finanziari dello Stato e delle Regioni.
È noto da tempo che le ridotte dimensioni demografiche e territoriali dei comuni italiani, che comportano apparati amministrativi e mezzi finanziari inadeguati, rappresentano un vero e proprio impedimento per una gestione efficiente delle funzioni amministrative e dei servizi essenziali.
La ricerca ha evidenziato che la dimensione demografica ideale di un ente territoriale di base si attesta fra i 20.000 ed i 40.000 abitanti; viceversa in Italia i comuni di tale consistenza sono poco più di 250 su un totale di 7.982, e ben 4.770 hanno meno di 3.000 abitanti.
Il fenomeno non è soltanto italiano, ed invero in tutta Europa si assiste dagli anni settanta ad un processo di riassetto dei comuni, sulla scia dell’esperienza francese avviata negli anni 70 e del coevo Rapporto Redeliffe - Maud, che, con particolare riferimento al Regno Unito, propose un grande accorpamento territoriale in entità ottimali di 250.000 abitanti per la gestione dei servizi locali. Prima dei vari processi di riassetto il numero dei comuni era di 37.000 in Francia e di 12.500 nel Regno Unito.
L’esperienza europea è caratterizzata per lo più da procedure di riassetto tendenti alla fusione fra comuni, mentre la via italiana è risultata incerta e quanto mai tenue; anzi dalle soppressioni autoritarie degli anni trenta ad oggi il numero dei comuni italiani è a lungo cresciuto (7.314 nel 1931, 7.810 nel 1951, 8.035 nel 1961, 8.092 nel 1990, 8.104 nel 2012, 7.982 nel 2017).
L’orientamento che ha caratterizzato il sistema delle autonomie locali italiane in merito alla razionalizzazione delle entità comunali ha espresso il rifiuto di complessive operazioni di riaccorpamento in forma autoritativa, privilegiando graduali processi di fusioni incentivate. Ma nonostante i buoni propositi il problema centrale delle forme e dell’entità dei mezzi di finanziamento ha costituito il punto critico del progetto di accorpamento delle entità comunali e di razionalizzazione dell’esercizio delle funzioni in forma associata.
Il nodo finanziario è risultato negativamente condizionante soprattutto in ragione della via dell’incentivazione scelta dall’ordinamento italiano, in luogo degli approcci autoritativi diffusi negli altri paesi europei.
Le Provincie
Le Province sono state travolte da interventi legislativi ispirati da contingenze politiche che hanno trascurato e compresso oltre ogni ragionevole limite l’esigenza di una prioritaria indagine di fattibilità/praticabilità.
Nell’ultimo decennio la politica ha assunto le province come bersaglio di improcrastinabili interventi riformatori …, eludendo il vero problema della finanza territoriale Italiana, che è dato per un verso dall’eccessiva numerosità dei Comuni e per l’altro dagli insostenibili privilegi di alcune delle Regioni a Statuto speciale.
Alla crisi delle Province, causata dalla frettolosa legge “Del Rio” del 2014, non è riuscita ad affiancarsi la promozione delle Città Metropolitane, venendosi così a creare un vero e proprio cortocircuito politico, finanziario ed amministrativo.
Le Regioni e lo Stato
Uno dei nodi più intricati della finanza pubblica è certamente quello dei principi del coordinamento, su cui si è bloccata ogni ipotesi di attuazione del federalismo fiscale.
Come è noto nel riparto delle potestà legislative l’art. 117, comma 2, Cost. individua le materie nelle quali lo Stato ha potestà esclusiva, ponendo tra queste il sistema tributario e contabile dello Stato, nonché la perequazione delle risorse finanziarie; il terzo comma individua le materie
di potestà legislativa concorrente fra Stato e Regioni, tra cui spicca l’armonizzazione dei bilanci pubblici ed il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; in tutte le materie di legislazione concorrente la potestà legislativa spetta alle Regioni, salvo che per la determinazione
dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato; tale limite dei principi fondamentali non opera invece per la potestà legislativa esclusiva delle Regioni, prevista dal quarto comma in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello
Stato.
Per quanto attiene ai tributi propri delle Regioni (e degli enti locali) non esiste alcuna riserva allo Stato, per cui la potestà legislativa appartiene esclusivamente alle Regioni.
Ovviamente si fa riferimento ai tributi propri autonomi, cioè istituiti direttamente dalle Regioni, e non ai meri tributi propri derivati (cioè quelli istituiti dalle leggi dello Stato ma attribuiti alle Regioni); inoltre si ipotizza la legittimità di interventi legislativi da parte delle Regioni anche in mancanza della legge sui principi del coordinamento; ma si tratta tuttavia di tesi decisamente rigettata dalla giurisprudenza costituzionale.
Invero, da una lato, confrontando il vecchio ed il nuovo testo dell’art. 119, e soprattutto in ragione dell’assetto federalista definito dagli artt. 117 e 118, risulta chiaro che si è inteso superare la vecchia logica della potestà legislativa delle regioni in materia tributaria come meramente attuativa.
D’altro lato si è ciononostante assistito ad un deciso intervento pretorio dei giudici costituzionali, che ha sancito una singolare situazione di quiescenza della fiscalità regionale e locale, quand’anche in astratto potenziata dalla riforma del Titolo V.
Quantomeno sul versante tributario la riforma ha assunto nella sostanza natura “programmatica”. Risulta infatti evidente che dal 2001 in poi l’autonomia tributaria ha subito compressioni numerose e significative, giustificate dalla Corte Costituzionale in una logica di “ultrattività” del sistema anteriore alla riforma, preservato da interventi modificativi che si temevano disparati e disomogenei.
Nella sostanza la giurisprudenza Costituzionale ha chiarito che: a) che i tributi anteriori alla riforma, istituiti e disciplinati da norme statali, ancorché con gettito riservato alle autonomie locali, non possono essere mai considerati tributi propri di queste ultime; b) che lo stato rimane anche dopo la riforma del Titolo V “signore e padrone” della sorte di tali tributi: li può modificare, ancorché sia previsto un potere normativo integrativo da parte dell’ente locale, li può abrogare, salvo il limite del non poter sopprimere, senza sostituirli, spazi di autonomia già riconosciuti; va quindi escluso un potere di intervento delle autonomie locali sulla disciplina di tali tributi, se non nei limiti precostituiti dalla disciplina statale; c) che il nuovo sistema delle competenze non può avviarsi, se non previa fissazione di (nuovi) principi di coordinamento da parte della legge statale (cui vengono attribuiti poteri di scelta anche su ambiti che in verità sembrerebbero già toccati in modo esaustivo dalla normativa costituzionale, fornendo così indirizzi pretori verso soluzioni molto prudenti); d) che la scelta tra due o tre livelli di intervento normativo sul sistema tributario locale deve considerarsi riservata alla legge sui principi di coordinamento.
Tale orientamento prudente e restrittivo non è tuttavia monolitico, emergendo, a tratti, pronunce più aperte.
Nella sostanza in relazione al ruolo dei principi fondamentali di coordinamento si contendono il campo due fondamentali orientamenti ispirati a diverse concezioni teoriche dell’autonomia tributaria regionale e locale, quella dell’“autonomia differenziata” e quella dell’“autonomia uniforme”.
Il primo orientamento è quello più radicalmente autonomistico – proiettato verso una inevitabile differenziazione (analogamente a quanto avvenuto per le Regioni a Statuto Speciale) – il quale riconosce la natura precettiva dell’art. 119 e quindi ammette l’immediato esercizio da parte delle Regioni della potestà legislativa tributaria, con l’unico limite dei principi di coordinamento, ritenuti comunque estrapolabili dall’ordinamento (ciò in quanto per il proprio sistema tributario –e per la verità anche per quello degli enti locali– alle Regioni compete una potestà legislativa esclusiva, rispetto alla quale la necessità del coordinamento sfuma laddove le materie imponibili non siano già occupate dal sistema tributario statale, o quantomeno rientrino nella propria sfera di competenza).
Il secondo orientamento più prudente (fatto proprio dalla giurisprudenza costituzionale e dalla dottrina prevalente) è quello dell’autonomia temperata – incentrata sul principio dell’uniformità – per il quale l’art. 119 ha natura programmatica, e quindi ammette l’esercizio da parte delle Regioni della potestà legislativa tributaria soltanto previa emanazione dell’apposita legge organica contenente i principi di coordinamento.
Sul piano ordinamentale – dopo quasi venti anni dalla riforma – si assiste ad una perdurante situazione di stallo, rispetto alla quale le recenti istanze di federalismo differenziato di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, hanno il pregio di riattivare il dibattito, pur continuando ad eludere i problemi di fondo degli squilibri tra le diverse aree territoriali del Paese, della scarsità delle risorse e degli eccessivi e degli anacronistici privilegi di alcune Regioni a statuto speciale.
Lo Stato
Per quanto riguarda lo Stato il grande protagonista è il debito pubblico e quindi il suo finanziamento attraverso il sistema dei titoli di Stato.
Il quadro delle entrate è sostanzialmente stabile; il sistema tributario risulta altrettanto stabile e probabilmente antiquato. Le ultime riforme significative risalgono alla fine degli anni 90.
Nonostante le risalenti promesse di forze politiche prima all’opposizione e poi lungamente coinvolte nel Governo del Paese, l’IRAP resta al suo posto e non viene abolita così come restano ben salde tutte le accise, i tributi ambientali hanno una rilevanza irrisoria, l’IRES ha scarso rilievo
rispetto ai tradizionali pilastri dell’IRPEF e dell’IVA.
Il sistema delle entrate statali è stabile, ma rigido. Di certo la stabilità del quadro delle entrate tributarie ne disvela una rigidità derivante da fattori di blocco di ogni serio e profondo progetto riformatore, asfissiato da un lato dall’enorme debito pubblico e dall’altro dalla situazione di stallo del federalismo fiscale e del riordino del sistema delle autonomie.
L’Unione Europea
Per quanto riguarda il bilancio ed il finanziamento dell’Unione si assiste ad un ampio e vivace dibattito che per un verso tende a mettere in discussione il tradizionale sistema delle risorse finanziarie Unionali e per l’altro spinge verso l’introduzione di un vero e proprio tributo Europeo.
Certo, un tributo Europeo destinato a finanziare le funzioni di carattere generale potrebbe avviare un processo virtuoso incentrato sulla valorizzazione di “un interesse pubblico europeo”, rispetto al quale i cittadini, proprio perché chiamati a finanziare direttamente i servizi, verrebbero coinvolti nel dibattito istituzionale, così da sviluppare un senso civico Europeo.
Tuttavia a prescindere dalle polemiche “sovraniste” e dalle aspirazioni de iure condendo, il tema delle risorse proprie dell’Unione ha vissuto in Italia un decennio di particolare rilevanza in ragione dei limiti posti alla falcidi abilità/esdebitazione dell’IVA nelle procedure concorsuali, poi superati grazie all’intervento della Corte di Giustizia.
È comunque emersa la necessità di comprendere la tipologia, l’entità e la natura giuridica delle risorse proprie dell’Unione, di cui troppo spesso si è parlato con scarsa cognizione di causa, anche da parte del Legislatore.
Il volume intende fornire dati, informazioni e nozioni giuridiche per ragionare sui temi della finanza pubblica e dei suoi livelli di Governo nella prospettiva Italiana, dai Comuni all’Unione Europea.