argomento: Sanzioni e contenzioso -
Giurisprudenza
L’articolo è incentrato sui principi dettati della Corte di Giustizia nell’ambito delle sanzioni amministrative ed, in particolare, su quelli a tutela del contribuente. L’autore pone l’accento sulla minore tutela del contribuente nell’ambito dei tributi non armonizzati, auspicando che la Corte Costituzionale, nell’ambito delle “discriminazioni a rovescio”, applichi il medesimo modello interpretativo adottato dalla Corte di Giustizia.
PAROLE CHIAVE: sanzioni amministrative -
effettività -
proporzionalità
di Enrico Traversa
- Un esame sia pure sommario della giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di sanzioni tributarie può senz’altro legittimare la conclusione che il contribuente assoggettato ad imposte disciplinate con direttive di armonizzazione dell’Unione europea può contare su un consistente “arsenale” di strumenti giuridici che questo medesimo contribuente può invocare a propria difesa basandosi sulle pronunce della Corte stessa. In primo luogo, infatti, il soggetto passivo di imposte armonizzate potrà contare sull’applicazione nei suoi confronti della Carta dei diritti fondamentali, dato che tutte le leggi nazionali che recepiscono le direttive di armonizzazione fiscale dell’Unione europea e le completano con la previsione di sanzioni in caso di violazioni, costituiscono norme “di attuazione del diritto dell’Unione” ai sensi dell’art. 51, par. 1, della Carta medesima. Il contribuente destinatario di provvedimenti sanzionatori potrà pertanto invocare tutti i principi generali dell’ordinamento dell’Unione sanciti in vari articoli della Carta stessa, in primis il principio di proporzionalità delle pene (art. 49.3), il diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva (art. 47), il diritto di difesa in giudizio (art. 48) e il diritto a non essere perseguito o sanzionato due volte per la stessa infrazione (art. 50). In secondo luogo, il debitore di imposte armonizzate potrà contare per la propria difesa su un’abbondante e dettagliata giurisprudenza della Corte di giustizia costituita da ormai più di un centinaio di pronunce con le quali la giurisdizione suprema dell’Unione ha affermato l’illegittimità delle sanzioni tributarie discriminatorie, l’illegittimità delle sanzioni tributarie eccessive, l’illegittimità delle sanzioni “improprie” in quanto prive di nesso logico con l’infrazione fiscale commessa e delle sanzioni “improprie” in quanto inflitte per violazione di requisiti unicamente “formali” (diniego del diritto ad un’esenzione IVA obbligatoria o del diritto alla detrazione dell’IVA pagata “a monte”).
Da un punto di vista ratione materiae la maggior parte delle sentenze in materia di sanzioni tributarie riguarda ovviamente la direttiva IVA 2006/112/CE, ma va d’altra parte rilevato che la Corte di giustizia è stata adita da vari giudici nazionali con questioni pregiudiziali aventi ad oggetto anche imposte disciplinate da altre direttive europee di armonizzazione fiscale, quali la direttiva 83/182/CEE relativa alle esenzioni per importazione temporanea di autoveicoli (Sent. C-389/95, Klattner), la direttiva 92/12/CEE (abrogata e sostituita dalla direttiva 2008/118/CE) sul regime generale di circolazione dei prodotti soggetti ad accisa (Sent. C-81/15, Karelia), la direttiva 1999/62/CE sulla tassazione dei veicoli pesanti (Sent. C-497/15, Euro-Team), la direttiva 2003/96/CE sulla tassazione dei prodotti energetici (Sent. C-68/18, Petrotel) alle quali si sono aggiunte di recente la direttiva 2010/24/UE sull’assistenza reciproca in materia di recupero di crediti tributari (Sent. C-34/17, Donnellan e la direttiva 2011/16/UE sullo scambio di informazioni (Sent.C-685/15, Berlioz Investment Fund).
- Questa delimitazione ratione materiae del campo di applicazione della giurisprudenza europea riguardante le sanzione tributarie comporta come ovvio corollario che non possono avvalersi delle ampie tutele previste dal diritto dell’Unione tutti quei contribuenti colpiti da sanzioni inflitte dall’amministrazione in relazione a violazioni di leggi nazionali disciplinanti imposte non armonizzate a livello europeo, in primo luogo le imposte sui redditi (una recente questione pregiudiziale della Corte di cassazione belga riguardante una presunta disparità di trattamento “alla rovescia” fra procedimento di accertamento dell’imposta sui redditi, oggetto del processo a quo, e procedimento di accertamento dell’IVA dal punto di vista delle prove ammissibili, è stata dalla Corte di giustizia nel caso-469/18 del 24.10.2019 ritenuta addirittura irricevibile per mancanza di collegamento con una qualsiasi disposizione di diritto dell’Unione). Mutuando un’espressione tratta dalla giurisprudenza della Corte in materia di libertà fondamentali di circolazione (Ex multis: ordinanza di irricevibilità C-246/14 del 15.10.2014, De Bellis), si è in presenza in quest’ultima ipotesi di fattispecie sanzionatorie “puramente interne” ad uno Stato membro, ovvero riguardanti contribuenti “puramente interni” a tale Stato in quanto queste medesime fattispecie si situano fuori dall’ambito di applicazione del diritto dell’Unione e restano quindi interamente disciplinate dal diritto tributario e dai principi costituzionali dello Stato membro che ha istituito l’imposta non armonizzata. Da questa constatazione deriva come ulteriore conseguenza che, nella misura in cui i principi costituzionali e la legislazione fiscale di uno Stato membro comportano per il contribuente “puramente interno” una tutela di minore effettività rispetto a quella assicurata dall’ordinamento dell’Unione, si è in presenza di una singolare fattispecie di “discriminazione a rovescio” nella quale il discriminato è il debitore dell’imposta non armonizzata destinatario del provvedimento sanzionatorio (tale situazione è stata individuata e cosí definita da S.GIANONCELLI, I principi UE nella giurisprudenza tributaria della cassazione: primato del diritto europeo e discriminazioni a rovescio, in Riv. trim. Dir. Trib., 2014, n. 3).
- Per la Corte di giustizia non vi è dubbio che nell’ambito delle quattro libertà fondamentali di circolazione garantite dal Trattato UE, la soluzione del problema delle “discriminazioni a rovescio” vada trovata nell’ambito dell’ordinamento giuridico di ciascuno Stato membro (C-64/96 del 5.06.1997, Uecker, punto 23). Questo principio può essere agevolmente trasposto anche alla disparità di tutela in giudizio che si può riscontrare in caso di imposizione di sanzioni tributarie, fra un contribuente “puramente interno” e un contribuente soggetto ad un’imposta armonizzata. E’ quindi all’interno dell’ordinamento italiano che sarà necessario individuare, sia il principio generale alla stregua del quale valutare la legittimità delle “discriminazioni a rovescio” in materia di sanzioni tributarie, sia il procedimento per porre rimedio a tali situazioni di obiettiva ingiustizia. E’ da tempo acquisito, sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza costituzionale, che il parametro sulla base del quale valutare in generale la legittimità delle “discriminazioni a rovescio” sia l’art. 3 della costituzione, ovvero il principio di uguaglianza (sulle «discriminazioni a rovescio» si veda l’ampia analisi di A. ARENA, Le situazioni puramente interne nel diritto dell’Unione europea”, Napoli, 2019, pagg. 86-97). Quest’ultimo può essere attuato nell’ordinamento interno, in primo luogo con un intervento ad hoc del legislatore italiano, come quello disposto agli articoli 32, lett. i), e 53 della legge 24 dicembre 2012, n. 234 (“Norme generali sulla partecipazione dell’Italia) in forza dei quali né il legislatore delegato (art. 32, lett. i), né l’interprete – giudice o amministrazione – (art. 53) possono creare situazioni nelle quali i cittadini italiani si trovano a dover subire un “trattamento sfavorevole” con “effetti discriminatori” rispetto ai cittadini di altri Stati membri. A questo riguardo va rilevato che la sopra delineata disparità di trattamento sotto il profilo della tutele invocabili in caso di sanzioni tributarie non può rientrare in alcun modo nel campo di applicazione degli artt. 32.i) e 53 della legge n. 234/2012, i cui termini di paragone al fine di stabilire l’esistenza di un “trattamento sfavorevole” sono, da un lato, i cittadini di altri Stati membri ed i diritti ad essi conferiti dall’ordinamento italiano (Quid dei diritti conferiti direttamente dall’ordinamento dell’Unione ai cittadini di altri Stati membri residenti in Italia, quale ad esempio il diritto previsto all’art. 7, par. 2, del regolamento n. 492/ 2011 – atto per definizione direttamente applicabile - ai medesimi “vantaggi fiscali” di cui beneficiano i lavoratori italiani?), e dall’altro i cittadini italiani ed i diritti ad essi afferenti. Ne consegue che, in mancanza di un intervento legislativo ad hoc, spetterà alla Corte costituzionale porre un rimedio alle “discriminazioni a rovescio” riscontrabili nel settore delle sanzioni tributarie, mediante proprie pronunce aventi ad oggetto l’applicazione del principio di uguaglianza alle norme legislative interne sulla base delle quali tali medesime sanzioni sono state inflitte (Soluzione nettamente preferita anche da A.ARENA, op.cit., pag. 96).
- A questo riguardo risultano rilevanti due sentenze degli anni novanta conseguenti ad altrettante sentenze della Corte di giustizia. Con la prima la Corte costituzionale (Sent.n. 249 del 13.06.1995) ha esteso ai lettori di lingua straniera di nazionalità italiana il diritto a contratti di lavoro dipendente a durata indeterminata riconosciuto dalla Corte di giustizia ai lettori di lingua straniera aventi la nazionalità di un altro Stato membro dell’Unione. In questo caso, la Corte costituzionale è pervenuta all’eliminazione di tale “discriminazione a rovescio” senza applicare l’art. 3 Cost., ma semplicemente dichiarando che la sentenza della Corte di giustizia che aveva dichiarato contraria all’art. 48 del Trattato (all’epoca) CEE la discriminazione a danno dei lettori di lingua madre cittadini di altri Stati membri (Sent.C-33/88, del 2.08.1993, Allué ) “proprio per evitare un’irrazionale discriminazione…..non può non estendere la sua portata anche ai lettori di lingua madre straniera aventi la cittadinanza italiana” (Corte cost., sent. n. 249/1995, punto 3.4). La seconda sentenza della Corte costituzionale fa seguito alla sentenza con la quale la Corte di giustizia (sent. C-407/85 del 14.07.1988, Drei Glocken) aveva dichiarato contrarie alla disposizione del Trattato CEE sulla libera circolazione delle merci (art. 30) le norme legislative italiane che proibivano la vendita in Italia di pasta di grano tenero (Artt. 28, 29, 30 e 36 della legge n. 580 del 4.07.1967). Questa sentenza presenta invece profili di maggiore interesse in quanto con questa sua pronuncia la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una delle norme di legge censurate dalla Corte di giustizia - l’art. 30 della legge n. 580/1967 - per violazione dell’art. 3 Cost. a conclusione, questa volta, di un accurato confronto fra due categorie di operatori economici in situazioni perfettamente comparabili, i produttori italiani di paste alimentari e i produttori di altri Stati membri che intendevano esportare in Italia le loro paste alimentari di grano tenero (Artt. 28, 29, 30 e 36 della legge n. 580 del 4.07.1967). Dopo aver fatto espresso riferimento al problema delle “discriminazioni a rovescio” consistenti, come nella fattispecie, in “situazioni di disparità di trattamento in danno delle imprese di uno Stato membro, che si verificano come effetto indiretto dell’applicazione del diritto comunitario” (Corte cost., sent. n. 443/1997, punto 5), la Corte costituzionale è pervenuta alla conclusione secondo la quale “il principio di non discriminazione tra imprese che agiscono sullo stesso mercato in rapporto di concorrenza, opera…… come istanza di adeguamento del diritto interno ai principi stabiliti del Trattato…” (punto 6). Sulla base di tale motivazione, la Corte costituzionale ha poi dichiarato l’illegittimità dell’art. 30 della legge n. 580/1967 per violazione dell’art. 3 e dell’art. 41 Cost. “nella parte in cui non prevede che alle imprese aventi stabilimento in Italia, è consentita….l’utilizzazione di ingredienti legittimamente impiegati..” in altri Stati membri. Merita di essere rilevato che Corte costituzionale si è basata esplicitamente sul principio di non discriminazione ex art. 3 Cost. per estendere, mediante un’esemplare sentenza manipolativa della portata della norma legislativa applicabile nella fattispecie, alle imprese italiane produttrici di pasta - le imprese “puramente interne” - gli effetti della sentenza Drei Glocken della Corte di giustizia.
- Resta a questo punto da esaminare se sulla base di questo precedente particolarmente pertinente rappresentato dalla propria sentenza n. 443/1997 “produttori di pasta”, la Corte costituzionale potrebbe procedere ad un’analoga applicazione del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost. alle norme di legge italiane che per ipotesi riservassero una “disparità di trattamento” sotto il profilo sanzionatorio a danno dei debitori di imposte non armonizzate quali le imposte sui redditi, rispetto ai soggetti passivi IVA. Un argomento decisivo a favore di questa possibilità può essere tratto dalla sentenza Scialdone della Corte di giustizia (C-574/15 del 2.05.2018), avente ad oggetto l’interpretazione dell’art. 325, par. 2, TFUE” (a mente del quale Gli Stati membri adottano, per combattere contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione, le stesse misure che adottano per combattere contro la frode che lede i loro interessi finanziari). Si tratta all’evidenza di una disposizione del Trattato straordinariamente rilevante ai fini dell’applicazione alle sanzioni tributarie del “giudizio di eguaglianza” affidato alla Corte costituzionale italiana, in quanto impone agli Stati membri di allineare costantemente i propri regimi sanzionatori relativi all’IVA, che costituisce una risorsa propria del bilancio dell’Unione, ai regimi sanzionatori relativi alle imposte non armonizzate sui redditi il cui gettito rappresenta invece un’entrata essenziale per gli “interessi finanziari” degli Stati membri medesimi (Corte cost., sent. n. 443/1997, punto 6, secondo paragrafo). Oggetto indiretto della sentenza Scialdone erano infatti gli articoli 10-bis e 10-ter del D.lgs. n. 74/2000 che, dopo le modificazioni introdotte dal D.lgs. n. 158/2015, prevedono ora due diverse soglie di punibilità, rispettivamente per il reato di omesso versamento delle ritenute d’acconto relative alle imposte sui redditi (150.000 euro) e per l’omesso versamento dell’IVA (250.000 euro). Il Tribunale di Varese aveva chiesto in sostanza alla Corte di giustizia di valutare se una tale differenza fra le suddette soglie di punibilità rispettava il “principio di equivalenza” dei regimi sanzionatori tributari sancito all’art. 325, par.2 TFUE. La Corte di giustizia ha così dovuto verificare se l’omesso versamento delle ritenute alla fonte relative alle imposte sui redditi poteva essere considerata una violazione della legislazione fiscale italiana “simile per natura e importanza” (Sent. Scialdone, punti 28 e 55 ) all’omesso versamento dell’IVA dichiarata. La conclusione alla quale è pervenuta la Corte di giustizia nel caso di specie è stata negativa in quanto i due reati si distinguono tanto per i loro elementi costituivi (mentre il reato di omissione dell’IVA dichiarata attiene al solo comportamento del soggetto passivo dell’IVA, il reato di omesso versamento delle ritenute alla fonte va riferito al comportamento illecito di un terzo soggetto, il sostituto d’imposta, che dovrebbe ritrasferire all’Erario gli importi delle ritenute alla fonte.), quanto per la difficoltà a scoprirli (a causa del rilascio, da parte del sostituto d’imposta, della “certificazione” che consente ai debitori dell’imposta sui redditi di dimostrare all’amministrazione il pagamento dell’imposta dovuta). Tuttavia la rilevanza della sentenza Scialdone ai fini dell’individuazione di un rimedio alle potenziali “discriminazioni a rovescio” non sta tanto nel risultato della comparazione effettuata dalla Corte di giustizia fra i due regimi sanzionatori penali dell’omesso versamento rispettivamente dell’IVA dichiarata e delle ritenute alla fonte relative all’imposta sui redditi, quanto nel fatto che questa comparazione fra due regimi sanzionatori applicabili a due gruppi di contribuenti entrambi fiscalmente residenti nello stesso Stato membro sia perfettamente possibile. Qualora adita da un giudice italiano con una questione di legittimità costituzionale con riferimento all’art. 3 Cost., la Corte costituzionale potrebbe pertanto ispirarsi facilmente ai parametri di confronto utilizzati dalla Corte di giustizia nella sentenza Scialdone. Sulla base di questi parametri elaborati dalla Corte di giustizia ai fini dell’interpretazione dell’art. 325, par. 2 del Trattato, la Corte costituzionale potrebbe facilmente verificare se in forza del principio di eguaglianza di cui al medesimo art. 3 debbano essere estese ai contribuenti “puramente interni” destinatari di sanzioni amministrative relative alle imposte sui redditi le medesime tutele derivanti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia per i soggetti passivi IVA responsabili di infrazioni comparabili. Va rilevato, tuttavia, che gli obiettivi dell’art. 325 TFUE che non coincidono affatto con le finalità dell’art. 3 Cost, dato che la disposizione del Trattato mira a proteggere il diritto dell’Unione europea ad una protezione dei suoi interessi finanziari contro le inerzie colpevoli delle autorità nazionali che si traducono in una protezione prioritaria degli interessi finanziari del loro Stato membro di appartenenza. Obiettivo dell’art.3 Cost., come peraltro dell’art. 21 (“Non discriminazione”) della Carta dei diritti fondamentali UE, è invece quello di salvaguardare il diritto alla parità di trattamento di tutte le persone vittime di discriminazioni.
Estendendo in conclusione ai soggetti d’imposta “puramente interni” l’ammirevole giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di tutela dei diritti del contribuente soggetto ad imposte armonizzate dal legislatore dell’Unione, la Corte costituzionale darebbe un degno seguito alle parole ricche di senso scritte dai suoi giudici nella sentenza n. 443/1997 sopra esaminata (punto 5, in fine): “… all’impatto con il nostro sistema giuridico, quello spazio di sovranità che il diritto comunitario lascia allo Stato italiano può non risolversi ….in mera libertà del legislatore nazionale, ma è destinato ad essere riempito dai principi costituzionali e….ad essere occupato dal congiunto operare del principio di eguaglianza e della libertà di iniziativa economica privata, tutelati dagli artt. 3 e 41 della Costituzione….”.