argomento: Sanzioni e contenzioso - Legislazione e prassi
A seguito del D.L. 26 ottobre 2019, n. 124, il ravvedimento operoso consente di escludere la punibilità delle fattispecie di dichiarazione fraudolenta ma non della indebita compensazione di crediti inesistenti. Tale mancanza comporta il rischio di reprimere più duramente condotte caratterizzate da una minore offensività in fattispecie complesse quali i crediti per ricerca e sviluppo il cui erroneo utilizzo in compensazione, a seguito dellRisoluzione n. 40/E del 2019, potrebbe essere punito con una sanzione sproporzionata.
PAROLE CHIAVE: ravvedimento operoso - non punibilità - indebita compensazione - crediti inesistenti - ricerca e sviluppo
di Marta Ancona
Tra le modifiche introdotte dal D.L. 26 ottobre 2019, n. 124 (convertito dalla legge 19 dicembre 2019, n. 157) (“DL 124/2019”) alla disciplina penale tributaria (D.lgs. 10 marzo 2000 n. 74, “D.lgs. 74/2000”), vi è l’ampliamento del novero dei reati non punibili nelle ipotesi in cui il contribuente scelga di sanare le violazioni commesse ricorrendo all’istituto del ravvedimento operoso.
L’attuale formulazione del comma 2 dell’art. 13 del D.lgs. 74/2000 consente infatti, in caso di integrale pagamento del debito tributario prima che l’interessato abbia notizia dell’apertura del procedimento (amministrativo o penale), di escludere la rilevanza penale non solo dei reati di dichiarazione infedele e di omessa dichiarazione (art. 4 e 5 del D.lgs. 74/2000), ma anche dei reati di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e mediante altri artifici (artt. 2 e 3 D.lgs. 74/2000).
Con tale previsione il Legislatore, in sede di conversione, ha inteso mitigare l’inasprimento delle pene previsto dal richiamato DL 124/2019 per quest’ultime ipotesi delittuose connotate da particolare gravità, consentendo pertanto che il tempestivo ravvedimento delle violazioni fiscali possa non solo attenuare le conseguenze penali della condotta tipica (art. 13 bis D.lgs. 74/2000) ma possa altresì condurre alla loro totale eliminazione (il nuovo art. 2 D.lgs. 74/2000 commina, in caso di elementi passivi fittizi superiori a 100 mila euro, la pena detentiva da 4 a 8 anni, mentre nel nuovo art. 3 D.lgs. 74/2000 la pena detentiva è aumentata da 3 a 8 anni).
Tra le fattispecie ricomprese nell’ambito di applicazione della riformulata disposizione non figura, tuttavia, il reato di indebita compensazione di crediti inesistenti previsto dall’art. 10 - quater, comma 2 D.lgs. 74/2000 che punisce con la pena della reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chi, agendo con intento fraudolento, utilizza in compensazione crediti mai esistiti per un importo annuo superiore a 50 mila euro al solo fine di non versare le imposte dovute (In dottrina, ex multis: Badodi, “Indebita compensazione”, in C. Nocerino - S. Putinati, La riforma dei reati tributari. Le novità del D.Lgs. n. 158/2015, Torino, 2015, pag. 237 ss.; Bruno, “Commento agli artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater, D.Lgs. 74/2000 mod. D.Lgs. 158/2015”, in I nuovi reati tributari. Commento al D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158, Milano, 2016, pag. 225 ss; C. Santoriello, “Il reato di indebita compensazione si applica anche ai crediti previdenziali”, in il fisco, n. 9/2015, pag. 883; A. Iorio - S. Mecca, “I nuovi reati di omesso versamento e indebita compensazione”, in Corr. Trib., n. 43/2015, pag. 4263).
L’assenza di qualsivoglia richiamo nell’alveo dell’art. 13 D.lgs. 74/2000, rubricato “Cause di non punibilità. Pagamento del debito tributario”, all’art. 10 – quater, comma 2 D.lgs. 74/2000 implica che la punibilità di tale reato non potrà essere esclusa neppure nelle ipotesi in cui il contribuente si avveda in tempo utile delle violazioni commesse e paghi per intero imposte sanzioni ed interessi così come previsto dalla norma.
A ben vedere infatti tale fattispecie delittuosa, oltre a non essere ricompresa tra quelle di cui al riformulato comma 2 dell’art. 13, non è contemplata neppure al comma 1 di tale disposizione che continua a riconoscere la non punibilità, in caso di pagamento di quanto dovuto entro la dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, soltanto in caso indebito utilizzo in compensazione di crediti non spettanti ai sensi del comma 1 dell’art. 10 quater.
La mancata inclusione del comma 2 dell’art. 10 quater tuttavia, oltre ad essere difficilmente comprensibile alla luce della ratio delle modifiche apportate all’art. 13, crea un’ingiustificata anomalia a livello sistematico comportando il rischio di reprimere più duramente condotte caratterizzate da una minore offensività.
Si pensi al caso della compensazione dei crediti per ricerca e sviluppo riconosciuti dall’art. 3, del DL 23 dicembre 2013, n. 145 (“DL 145/2013”) che, alla luce dei chiarimenti forniti dall’Agenzia delle Entrate nella risoluzione del 2 aprile 2019, n. 40, potrebbero risultare privi dei presupposti costitutivi e indurre i contribuenti a ravvedersi tempestivamente per evitare future contestazioni (l’art. 3 DL 145/2013 - così come modificato da ultimo dalla legge di bilancio per il 2019 - riconosce ai contribuenti un credito di imposta commisurato all’eccedenza degli investimenti agevolati effettuati nei periodi d’imposta 2015-2020 rispetto alla media degli stessi investimenti, realizzati nei periodi 2012-2014, calcolata secondo particolari regole).
Riassumendo brevemente i termini della questione, il richiamato documento di prassi ha escluso dalle cd. attività agevolate le cd. "innovazioni di processo" (secondo il par. 1.3, punto 15 della Comunicazione della Commissione 198/01 del 27 giugno 2014 costituisce “«innovazione di processo»: l’applicazione di un metodo di produzione o di distribuzione nuovo o sensibilmente migliorato (inclusi cambiamenti significativi nelle tecniche, nelle attrezzature o nel software), esclusi i cambiamenti o i miglioramenti minori, l’aumento delle capacità di produzione o di servizio ottenuto con l’aggiunta di sistemi di fabbricazione o di sistemi logistici che sono molto simili a quelli già in uso, la cessazione dell’utilizzazione di un processo, la mera sostituzione o estensione di beni strumentali, i cambiamenti derivanti unicamente da variazioni del prezzo dei fattori, la produzione personalizzata, l’adattamento ai mercati locali, le consuete modifiche stagionali e altri cambiamenti ciclici nonché il commercio di prodotti nuovi o sensibilmente migliorati”).
In risposta ad una interrogazione parlamentare, il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha ritenuto tali indicazioni meramente ricognitive delle fattispecie agevolabili in quanto in linea con il dettato normativo e con i precedenti documenti di prassi pubblicati dall’Agenzia delle Entrate a commento della previgente versione del credito di imposta per attività di ricerca e sviluppo (art.1, commi 280-284, della l. n. 296/2007), norma, quest’ultima, sostanzialmente sovrapponibile a quella in vigore (“Con la risoluzione n. 40/E del 2 aprile 2019, l’Agenzia delle entrate non ha introdotto alcuna modifica dei criteri di individuazione delle attività ammissibili al credito di imposta” […] “come chiaramente evidenziato dalla stessa risoluzione durante la vigenza della precedente versione del credito per la ricerca e sviluppo – e, cioè, quella prevista dall’art. 1, commi 280-284, della l. n. 296/2007 – l’Amministrazione finanziaria aveva escluso dal novero delle attività agevolabili quelle rientranti nell’innovazione di processo (cfr. circolare 46/E del 13 giugno 2008)”cfr. risposta all’interrogazione parlamentare n. 5-02356 del 26 giugno 2019. […] “(stante l'identità del dato normativo odierno, rispetto a quello del precedente credito d'imposta, in punto di definizioni delle attività ammissibili al beneficio, non sembra possa dubitarsi che le affermazioni contenute nel citato documento di prassi del 2008 siano da considerarsi tuttora valide e applicabili, quindi, anche nel nuovo contesto normativo”, cfr. Risoluzione AE n. 40/E del 2019).
In realtà l’Agenzia delle Entrate nella risoluzione n. 40/E del 2019, mutando in parte il suo precedente orientamento interpretativo, ha circoscritto ulteriormente l’ambito oggettivo di applicazione delle attività agevolate, sancendo per la prima volta l’irrilevanza delle modifiche di processo che, pur comportando miglioramenti significativi, derivano dall’utilizzo di conoscenze già diffuse nel settore di riferimento dell’impresa e ritenendo, viceversa, rilevanti ai fini dell’agevolazione soltanto i miglioramenti significativi di processo che scaturiscono dall’impiego di conoscenze nuove (per una analisi esaustiva della questione si rinvia alla Circolare di Assonime del 14 novembre 2019, n. 23).
In virtù di ciò, è dunque possibile che vi siano contribuenti che abbiano ritenuto, sulla base delle precedenti indicazioni fornite della stessa Agenzia delle Entrate, di includere nell’ambito dell’agevolazione attività che hanno comportato miglioramenti significativi di processi (o prodotti) esistenti valutando la “significatività” dei miglioramenti in relazione alla situazione preesistente del processo (o prodotto), e hanno pertanto iscritto in dichiarazione e utilizzato in compensazione il relativo credito di imposta (nella circolare n. 5/E del 16 marzo 2016 infatti, l’Agenzia delle entrate aveva chiaramente precisato che “Non sono considerate attività di ricerca e sviluppo […] le modifiche ordinarie o periodiche apportate a prodotti, linee di produzione, processi di fabbricazione, servizi esistenti e altre operazioni in corso, anche quando tali modifiche rappresentino miglioramenti. Sono, pertanto, escluse dal perimetro dell’agevolazione le modifiche non significative di prodotti e di processi è […]. Sono agevolabili, invece, le modifiche di processo o di prodotto che apportano cambiamenti o miglioramenti significativi delle linee e/o delle tecniche di produzione o dei prodotti (quali, ad esempio, la sperimentazione di una nuova linea produttiva, la modifica delle caratteristiche tecniche e funzionali di un prodotto)”).
In tali circostanze, ancorché vi siano plurimi argomenti per escludere la fraudolenza della condotta, l’Amministrazione finanziaria potrebbe contestare l’indebita compensazione (in termini di utilizzo) di un credito inesistente ( Sul punto Assonime, nella Circolare del 14 novembre 2019, n. 23, cit. ricorda che il regime sanzionatorio amministrativo è stato introdotto per la prima volta dall’art. 27, commi 16 e ss., del d.l. n. 185/2008 per contrastare quei comportamenti connotati da aspetti fraudolenti, in cui l’artificiosa rappresentazione contabile dei crediti in sede di autoliquidazione del debito sia funzionale ad ostacolare o, comunque, a rendere infruttuosa l’azione di controllo ai danni dell’Erario e conclude, pertanto, che “la condotta delle imprese che hanno commesso errori nell’individuazione delle c.d. attività agevolate, non possa tout court considerarsi fraudolenta (rectius: insidiosa) nei casi in cui tali soggetti abbiano adempiuto ai vari oneri documentali previsti in materia e abbiano svolto in concreto attività che, in ogni caso, si innestano in più ampi processi di innovazione (di prodotto e servizio) (…). In questi casi il credito d’imposta utilizzato in compensazione non solo è stato indicato nel modello di dichiarazione e nel modello di versamento, ma trova altresì riscontro in evidenze contabili oggetto di apposita certificazione rilasciata da soggetti terzi, nonché nella documentazione prevista in materia. È necessario, dunque, pena una non giustificata violazione dei principi di equità e proporzionalità cui è informato il nostro sistema sanzionatorio – e dei quali l’Amministrazione finanziaria ha più volte fatto concreta applicazione – distinguere la condotta prima descritta da quella ben più grave delle imprese che hanno svolto attività che nemmeno in astratto possono essere ritenute c.d. agevolate e nei cui confronti dovrebbe scattare la sanzione per credito inesistente”. Anche sotto il profilo penale, la dottrina è concorde nell’affermare che per la configurabilità del reato di indebita compensazione è richiesto l’elemento psicologico del dolo generico rappresentato dalla coscienza e volontà, all’atto del versamento, di utilizzare crediti non spettanti o inesistenti per un ammontare superiore a 50.000 euro per ciascun periodo di imposta; è quindi irrilevante il fine perseguito dal contribuente; la mancata richiesta del dolo specifico rende punibile il delitto anche a titolo di dolo eventuale, ovvero quando il soggetto attivo, pur ponendo in essere la condotta tipica prospettandosi altri fini specifici (come ad esempio quello di superare una crisi di liquidità dell’azienda), comunque accetti il rischio di evadere le imposte. Non potrebbe considerarsi credito inesistente, sotto il profilo dell’elemento psicologico, quello che derivi non dalla precisa volontà del contribuente di fare apparire ciò che non è, ma da un mero errore di calcolo”, così Caraccioli, Problemi interpretativi e applicativi dei reati di “indebita compensazione”, in Il fisco, n. 30/2018, e ivi ampi richiami alla dottrina).
Nelle ipotesi in cui il credito d’imposta (utilizzato in compensazione) venga recuperato per difetto del suo presupposto oggettivo, l’applicazione della sanzione per credito inesistente sembrerebbe infatti trovare fondamento innanzitutto nell’art. 13, comma 5, del d.lgs. n. 471/1997, secondo cui “si intende inesistente il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo e la cui inesistenza non sia riscontrabile mediante le procedure di liquidazione e controllo formale delle dichiarazioni” (in tal senso altresì, Assonime, Circolare n. 23/2019, cit ). Inoltre, dal superamento delle soglie di rilevanza penale discenderebbe l’imputabilità per il reato di cui al richiamato art. 10 - quater, comma 2 D.lgs. 74/2000.
La mancata inclusione di quest’ultima disposizione tra le fattispecie delittuose previste dall’art.13 D.lgs. 74/2000 crea in primo luogo incertezze circa la possibilità di effettuare o meno il ravvedimento operoso per sanare le violazioni commesse, riproponendo le perplessità già sorte in passato sulla questione. Ed invero, l’Amministrazione finanziaria ha da sempre categoricamente escluso l’utilizzabilità di tale strumento per rimediare agli errori connessi alle fattispecie più gravi della dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e mediante altri artifici (cfr. C.M. n. 180/E/1998 e incontro della stampa specializzata con l’Amministrazione finanziaria 1° febbraio 2018. Sulla validità del ravvedimento operoso per le fattispecie penalmente rilevanti -comprese quelle connotate da maggiore antigiuridicità -la Corte di Cassazione nella sentenza n. 5448 del 6 febbraio 2018, con una puntuale ricostruzione dell’evoluzione normativa del D.lgs. n. 74/2000, aveva invece implicitamente riconosciuto la legittimità dell’accesso a tale istituto anche per il reato di utilizzo di false fatture), mentre aveva ammesso la ravvedibilità dell’indebita compensazione di crediti inesistenti (oltre infatti a non esservi nell’art. 13 del 472/1997 alcuna preclusione alla possibilità di operare il ravvedimento nelle ipotesi di indebita compensazione di crediti inesistenti, tale facoltà è inoltre concessa dalla circolare MEF 101/2000 secondo cui “Nel caso di compensazione di crediti inesistenti il contribuente potrà avvalersi dell’istituto del ravvedimento, disciplinato dall’articolo 13 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, così come modificato dal d.lgs. 30 marzo 2000, n.99, effettuando il versamento delle somme a debito, corrispondenti al credito erroneamente utilizzato in compensazione, maggiorate degli interessi e con il contestuale versamento della relativa sanzione prevista per l’omesso versamento in misura ridotta in rapporto alla data del ravvedimento”).
A seguito della riforma, invece, il ravvedimento è ora normativamente previsto per le più gravi violazioni della dichiarazione fraudolenta (artt. 2 e 3 D.lgs. 74/2000) mentre non è espressamente confermato nelle ipotesi di indebita compensazione di crediti inesistenti, in relazione alle quali verosimilmente dovranno continuare ad applicarsi le indicazioni fornite dall’Agenzia delle Entrate.
In secondo luogo, il ravvedimento non potrà impedire al pubblico ministero di formulare un’imputazione in sede penale per indebita compensazione di crediti inesistenti ai sensi dell’art. 10 quater, comma 2, ma potrà soltanto mitigare la sanzione applicabile in sede penale (art. 13 bis D.lgs. 74/2000).
In tal modo, pure in presenza di un completo ristoro del debito erariale prima dell’avvio di qualsivoglia indagine, l’erroneo utilizzo in compensazione di un credito che, come nel caso illustrato, assume ex post i connotati dell’inesistenza, potrebbe essere punito con una sanzione sproporzionata, soprattutto se rapportata alla totale esclusione della punibilità prevista per le altre fattispecie fraudolente.
In mancanza di un espresso richiamo anche all’art. 10 quater comma 2 nell’alveo dell’art. 13, l’unica chance per il contribuente di evitare una condanna in sede penale è che la procura, a seguito dell’inclusione del credito oggetto di compensazione in dichiarazione, formuli un’imputazione per dichiarazione infedele ai sensi dell’art. 4 D.lgs. 74/2000, fattispecie invece rientrante nell’ambito di applicazione del comma 2 dell’art. 13.
L’evidenza del credito - e il suo successivo utilizzo - in dichiarazione dovrebbe infatti comportare, anche in sede di accertamento in rettifica, l’applicazione dell’unica sanzione per dichiarazione infedele.
Tale conclusione sembrerebbe peraltro confermata dall’Agenzia delle Entrate nella Risoluzione n. 36/E dell’8 maggio 2018 in cui – seppure con riferimento ad una fattispecie diversa – si afferma che la sanzione per dichiarazione infedele assorbe sia quella dell’omesso versamento del tributo che quella per la compensazione di crediti inesistenti (Risoluzione AE, n.36/E 2018: “Laddove il credito inesistente da eccedenze d’imposta sia stato esposto in dichiarazione e successivamente utilizzato, si deve procedere unicamente con l’emissione degli atti tipici di accertamento in rettifica della dichiarazione, da notificarsi entro gli ordinari termini di decadenza, con applicazione della sanzione per infedele dichiarazione. Detta sanzione […] (ii) assorbe sia quella dell’omesso versamento del tributo che quella per la compensazione di crediti inesistenti”. A commento, in dottrina, Basilavecchia, Il trattamento sanzionatorio dell’indebita compensazione, in Corriere Tributario, 28 / 2018, p. 2155; Lovecchio, Compensazione di crediti IVA inesistenti: si applicano solo le sanzioni per indebita detrazione e dichiarazione infedele”, in Il Fisco, n. 24/2018, p. 2350).
Peraltro seguendo tale impostazione, il contribuente potrebbe versare già in sede di ravvedimento la sanzione prevista per l’illecito di dichiarazione infedele (90% dell’imposta non versata) ridotta ai sensi dell’art. 13 del D.lgs. 472 del 1997, in luogo di quella comminata per l’indebita compensazione (il 100% del credito inesistente).
In tal caso, qualora l’Agenzia delle Entrate dovesse successivamente ritenere sussistente la diversa violazione dell’indebita compensazione per crediti inesistenti, gli effetti del ravvedimento effettuato sarebbero comunque “salvi” e la sanzione in misura piena dovrebbe essere irrogata soltanto sulla quota parte di imposta non oggetto di ravvedimento (come chiarito dalla prassi amministrativa Circolare 2 agosto 2013, n. 27/E. In altri termini, il 90% del credito sarebbe interamente ravveduto con il pagamento di imposta e sanzione, sul restante 10% sarebbe versata soltanto l’imposta mentre resterebbero da corrispondere le sanzioni).