argomento: IVA - Giurisprudenza
La Corte di Cassazione con la sentenza n. 25492 del 10 ottobre 2019, ricostruisce la natura dei certificati Co2 e li qualifica ai fini Iva quale prestazione di servizi, escludendo la vocazione accessoria alla produzione di energia. La fattispecie offre l’occasione per evidenziare, da un lato, la tutela ambientale del sistema europeo di scambio delle quote di emissione e, dall’altro, il rapporto tra il regime dell’inversione contabile e la neutralità dell’imposta.
» visualizza: il documento ()PAROLE CHIAVE: certificati CO2 - ambiente - neutralità
di Paolo Barabino
I certificati Co2, invece, si rivolgono alle attività energetiche, di produzione e trasformazione di metalli ferrosi, all’industria di prodotti minerali nonché ad altre attività (pasta per carta a partire dal legno, carta e cartoni. Così l’allegato I della “Direttiva 2003/87CE del 13 ottobre 2003 che istituisce un sistema per lo scambio di quote di emissioni dei gas a effetto serra nella Comunità e che modifica la direttiva 96/61/CE del Consiglio” in ragione della attitudine delle attività citate di produrre gas serra rappresentato da biossido di carbonio.) e costituiscono il diritto di emettere una tonnellata di biossido di carbonio equivalente per un periodo determinato (così l’art. 3 della Direttiva n. 2003/87/CE del 13 ottobre 2003, recepita dall’art. 3, lett. p), DLGS n. 216/2006 e art. 3, lett. pp), DLGS n. 30/2013).
Il “Sistema Europeo di Scambio di Quote di Emissione” (EU ETS) è stato istituito a livello europeo attraverso la Direttiva 2003/87/CE, in attuazione del Protocollo di Kyoto, per ridurre le emissioni di gas a effetto serra nei settori energivori: viene fissato un tetto massimo di emissioni al di sotto del quale i partecipanti possono emettere Co2 in ragione delle quote acquistate e vendute sul mercato.
Il quantitativo complessivo delle quote, stabilito a livello europeo, è programmato per conseguire una graduale riduzione delle emissioni di gas serra e per incrementare il target climatico 2030 al 55% di riduzione rispetto ai livelli del 1990 (cfr. Rapporto sulle aste di quote europee di emissione, III trimetre 2020, GSE, 28 ottobre 2020).
La sentenza in nota ruota attorno alla nozione dei certificati Co2 o meglio al rapporto tra la natura e la fiscalità delle quote di emissione osservato nel momento della loro circolazione. La vicenda coinvolge una società residente che aveva acquistato dei certificati Co2 da un soggetto francese con conseguente “autofatturazione” applicando l’aliquota Iva ridotta del 10% in luogo di quella ordinaria, al tempo pari al 20%. La Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso proposto alla Agenzia delle Entrate, qualifica i certificati in oggetto come beni immateriali e la loro cessione quali prestazioni di servizi da assoggettare ad aliquota Iva ordinaria, escludendo così il carattere dell’accessorietà rispetto alla produzione o alla distribuzione di energia.
Gli spunti di riflessione possono essere molteplici, a partire dalla tutela ambientale perseguita tramite il sistema delle quote di emissione di gas a effetto serra, per giungere alla rilevanza fiscale dei certificati Co2 che in ambito Iva fluttua tra il principio di neutralità e quello di territorialità.
Emerge sin da subito sia l’importanza di strumenti premiali (Sulla rilevanza di strumenti premiali in ambito energetico cfr. A. E. La Scala, I principi fondamentali in materia tributaria in seno alla Costituzione dell’unione Europea, Milano, 2005, p. 321 e ss.) e, dunque, di una valorizzazione del corollario “chi non inquina non paga” (Cfr. A. Giovannini, Il Re fisco è nudo, Milano, 2016, p. 126 ss.; V. Ficari, Nuovi elementi di capacità contributiva ed ambiente: l’alba di un nuovo giorno …fiscalmente più verde?, in Riv. trim. dir. trib., n. 4/2016, p. 827 ss.) che l’opportuna coesistenza tra i tributi ambientali e i permessi di emissione Co2 (Entrambi gli strumenti citati possono essere utili per colmare eventuali lacune laddove ad esempio l’ETS non coinvolga alcuni settori. Così, R. Alfano, Tributi ambientali. Profili interni ed europei, Torino, 2012, p. 133 e ss.).
Il sistema in oggetto prevede che la massima quantità di emissioni inquinanti sia fissata dall’organo pubblico e sia suddivisa in diritti d’inquinamento affinché le imprese possano optare tra l’acquisto di certificati Co2 o l’attuazione di tecniche produttive meno dannose per l’ambiente, cosicché un aumento dei prezzi dei diritti dovrebbe indurre a propendere per tecnologie ecosostenibili (Cfr. R. Alfano, L’Emission Trading Scheme: applicazione del principio “chi inquina paga”, positività e negatività rispetto al prelievo ambientale, in Innovazione e diritto, n. 5/2009, p. 1 e ss.).
I certificati Co2, strumento per la tutela ambientale, offrono così all’imprenditore un doppio ruolo, da un lato, destinatario di obblighi e sanzioni e, dall’altro, attore consapevole nel preservare l’ambiente tramite l’alternativa quote di emissione/riduzione delle emissioni inquinanti.
Sul fronte della natura giuridica delle quote di emissione di gas serra, istituite in Italia in attuazione della Direttiva Emissions Trading 2003/87/CE, si è verificata una certa difficoltà di qualificazione: “biens meubles incorporels” è la definizione legislativa presente nell’ordinamento francese, a differenza di quello italiano, ove gli interpreti del diritto si muovono dalla nozione di concessione amministrativa a quella di strumento finanziario (Nell’ambito del diritto privato comparato vedasi V. Jacometti, La direttiva Emissions Trading e la sua attuazione in Italia: alcune osservazioni critiche al termine della prima fase, in Riv. giur. amb., n. 2/2008, p. 273 e ss.).
Il giudice di legittimità riassume le differenti ipotesi qualificatorie negando la natura di titolo di credito (a causa dell’assenza di una specifica prestazione sottesa e della determinazione del valore economico), di titoli di legittimazione (non rinvenendo un rapporto contrattuale/obbligatorio), di titoli rappresentativi di merci (in ragione del non trasferimento del potere di disposizione dell’energia) e di strumenti finanziari: tale ultima “veste” merita di essere sottolineata considerato che essa è stata esclusa sebbene il legislatore nazionale abbia annoverato proprio le quote di emissione tra gli strumenti finanziari (art. 1, lett. p) D.Lgs. n. 129/2017, in attuazione della Direttiva n. 2014/65/UE, modificata dalla Direttiva n. 2016/1034/UE) al fine, tuttavia, di rafforzare l’integrità e di salvaguardare il buon funzionamento di tali mercati ostacolando fenomeni “fraudolenti” (così la sentenza in nota e il Comitato consultivo Iva dell’8 luglio 2016, D.G. Taxud, c.1 2016-6526943-910).
In definitiva, i certificati Co2 hanno la natura di bene immateriale (come stabilito anche dalla CGE C-453/15, punto 22, 8 dicembre 2016) e (si anticipa sin da ora che) la relativa cessione diviene assimilabile ad una prestazione di servizi con conseguente applicazione dell’aliquota ordinaria dell’imposta sul valore aggiunto.
Il soggetto passivo Iva residente ha adempiuto ai propri doveri stimando tuttavia l’operazione come accessoria all’attività di produzione o distribuzione di energia elettrica e, dunque, applicando l’aliquota ridotta del 10% in luogo di quella ordinaria.
L’ipotesi qualificatoria dei certificati Co2 alla stregua di natura accessoria alla produzione o alla distribuzione di energia sarebbe da ricondurre (nel silenzio della sentenza sul punto) all’art. 12 del D.P.R. n. 633/1972, rubricato “cessioni e prestazioni accessorie”, con individuazione dell’aliquota del 10% in ragione dell’art. 16 del D.P.R. n. 633/1972 e della parte III dell’allegata tabella A ove è tipizzata la fattispecie dell’energia elettrica.
Tuttavia, la norma sopra citata riconosce la natura accessoria di una prestazione se effettuata direttamente dal prestatore e se tra le due operazioni sussiste un nesso tale da costituire una sola prestazione economica (Così come osservato dalla Corte di Giustizia rilevando l’assenza di tale legame indissolubile tra la prestazione di assicurazione e la prestazione di leasing. Cfr. Sentenza del 17 gennaio 2013, causa C-224/11della Corte Giustizia Unione Europea, Sez. VI - Pres. A. Rosas - Rel. A. Rosas - Avv. V. Trstenjak, commentata da A. Salvati, Prestazioni assicurative e accessorietà ai fini Iva, in Rass. trib., n. 5/2013, p. 1161 e ss.): ebbene, nel caso di specie, non pare che sussista un legame inscindibile tra la produzione di energia e la contemporanea erogazione di certificati Co2, in ragione delle scelte che l’imprenditore può svolgere per attuare processi produttivi maggiormente ecosostenibili, inoltre emerge una differenziazione soggettiva tra chi produce energia e chi cede il diritto ad inquinare.
Esclusa così la qualifica accessoria dei certificati Co2 la Suprema Corte, condivisibilmente, li riconduce all’interno della disciplina delle prestazioni di servizi richiamando proprio la definizione fornita dall’art. 3 del D.P.R. n. 633/1972 il quale al secondo comma, punto 2), indica “le cessioni, concessioni, licenze e simili relative a diritti o beni similari ai precedenti”.
Si sottolinea che la coerenza di tale qualificazione è individuabile già nella definizione che in generale il legislatore ha fornito con il primo comma del medesimo art. 3 annoverando le obbligazioni di fare, non fare e permettere.
Si giunge in tal modo ad una ricostruzione della natura giuridica dei certificati Co2 (istituiti con la direttiva 2003/87/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, modificata nel 2018 per migliorare ed estendere l’EU ETS al periodo 2021-2030) i quali costituiscono quote di emissione dell’Unione europea ovverosia il diritto, trasferibile, di emettere una tonnellata di equivalente di Co2 riferito ad un periodo predeterminato (Cfr. punto 7 degli “Orientamenti relativi a determinati aiuti di Stato nell’ambito del sistema per lo scambio di quote di emissione dei gas a effetto serra dopo il 2021”, Bruxelles, 21.9.2020 C(2020) 6400 final), che in ambito Iva rappresentano prestazioni di servizi riconducibili ad obbligazioni di permettere, a diritti assimilabili alle concessioni/licenze.
Ciò premesso, si vuole suggerire una prospettiva dinamica dei certificati Co2 che coinvolga la loro circolazione al fine di evidenziarne le peculiarità secondo una fiscalità che tenga conto del differente modo di atteggiarsi sia del diritto di emissione che dei soggetti percipienti.
In maniera per certi versi simile a quanto già osservato per i certificati verdi (Cfr. P. Barabino, op. cit., p. 767 e ss.) la circolazione si sviluppa su due fronti, quello della gratuità e quello dell’onerosità, già emersi anche nella prassi contabile [Il principio contabile OIC 8, quote di emissione di gas ad effetto serra, evidenzia la differenza di trattamento contabile a seconda che il certificato Co2 coinvolga una società che rientra nella disciplina per la riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra o una società trader: si contabilizzeranno, nel primo caso, i) costi e ricavi relativi alle quote di emissione con “oneri di sistema” da iscrivere nella voce del conto economico B14) Oneri diversi di gestione, o specularmente “altri ricavi”, voce A5); ii) mentre eventuali sopravvenienze passive confluiranno nella voce B14) “oneri diversi di gestione” e quelle attive tra “altri ricavi”, voce A5). Nel secondo caso, la società trader registrerà ordinari costi (della produzione, voce B6), ricavi (delle vendite, voce A1) e rimanenze (di prodotti finiti e merci, voce CI.4) in ragione del ruolo di intermediario.]: le conseguenze sul piano dell’imposta indiretta si sviluppano in ragione dei diritti attribuiti rispettivamente con o senza corrispettivo al fine di ridurre il rischio di delocalizzazione ovvero per collocarli su base d’asta.
In primo luogo, l’acquisizione a titolo gratuito delle quote (riferibile alle ipotesi di contrasto del fenomeno di migrazione delle emissioni Co2) rappresenta un’operazione esclusa ex art. 3 DPR 633/72 proprio in ragione dell’assenza del corrispettivo a fronte dell’attribuzione del certificato.
Inoltre, in secondo luogo, assume rilevanza la corrispettività dei certificati Co2, con riferimento a quelli attribuiti a titolo oneroso, dal 2013, tramite specifica asta sul mercato ove il GSE (Gestore dei Servizi Energetici) è il responsabile del collocamento delle quote di emissione italiane sulla piattaforma comune europea (Le aste si svolgono su piattaforme individuate tramite gara d’appalto e gestite nelle modalità previste dal Regolamento 1031/2010).
Le quote attribuite tramite asta assumono la veste di prestazione di servizi, indipendentemente dalla natura del soggetto percipiente (impresa produttrice di Co2 oppure intermediaria; cfr. P. Centore, Regime IVA delle cessioni di beni immateriali, in Corr. trib., n. 30/1997, p. 2208 e ss.): l’operazione rientra così nel punto 2 del secondo comma dell’art. 3 DPR 633/72 il quale indica tra le prestazioni di servizi le “invenzioni industriali, …marchi, …, concessioni, licenze e simili relative a diritti o beni similari ai precedenti.” (Cfr. Risoluzione n. 395 del 27 dicembre 2002, la quale ha affermato che «un contributo assume rilevanza ai fini IVA se erogato a fronte di un'obbligazione di dare, fare, non fare o permettere, ossia quando si è in presenza di un rapporto obbligatorio a prestazioni corrispettive». Nello stesso senso vedasi le Risoluzioni n. 309 del 25 settembre 2002, n. 54 del 24 aprile 2001).
La prestazione di servizi nel caso di specie (acquisto da soggetto estero) diviene imponibile e registrata attraverso la c.d. inversione contabile in applicazione del principio di territorialità del tributo: si appalesa in tal modo il presupposto territoriale dei certificati Co2 in funzione della attitudine a far parte di transazioni anche oltre i confini nazionali (a differenza di quanto avveniva per i certificati verdi ove gli scambi dei titoli era circoscritto all’ambito nazionale. La Risoluzione n. 71/E del 20 marzo 2009, nel quale si effettua una analisi della territorialità ai fini IVA sia dei certificati verdi che dei certificati CO2, con particolare attenzione a quest’ultimi ove si dovrà osservare il luogo di effettivo utilizzo ex art. 7, quarto comma, lett. f), DPR 633/1972).
Si segnala, infine, una questione che non pare essere stata eccepita nel caso in oggetto sulla legittimità del recupero a tassazione della differenza tra l’Iva ridotta e quella ordinaria rispetto all’applicazione della c.d. inversione contabile: la rettifica dell’aliquota da parte della Agenzia delle Entrate non avrebbe dovuto alterare nella sostanza la liquidazione del tributo, se non per l’ammontare, in ragione della operazione tendenzialmente priva di manifestazione finanziaria alla luce del meccanismo della doppia annotazione. Detto diversamente, l’accertamento e la riscossione di una maggiore imposta liquidata secondo l’inversione contabile lede il principio di neutralità dell’Iva e non riconosce la mera natura di errore formale e materiale non adatta ad incide sulla sostanza dell’operazione, portando ad una contraddizione in termini laddove il reverse charge rappresenta una puntuale e “istantanea” applicazione del principio di neutralità dell’imposta sul valore aggiunto. D’altronde già la giurisprudenza della Corte di Giustizia (CGE C-95/07 e C-96/07 Ecotrade; CGE C-590/13 Idexx; CGE C-424/12 Fatorie), e sempre più quella di legittimità, hanno affrontato il tema degli adempimenti formali rispetto al riconoscimento del diritto di detrazione e, dunque, del principio di neutralità garantendolo anche in caso di omessa annotazione delle fatture nel registro degli acquisti (cfr. Cass. n. 25871/2015). Nel caso di specie, il meccanismo del reverse charge è stato attuato ma con una aliquota inferiore (quella ridotta del 10% in luogo di quella ordinaria) rispetto a quella accertata coinvolgendo dunque un aspetto sostanziale dell’applicazione del tributo ma che, tuttavia, non avrebbe dovuto comportare una ripresa a tassazione: infatti, riconosciuta e incontestata l’effettiva esistenza dell’operazione di acquisto da soggetto estero europeo (intracomunitario) la rettifica dell’aliquota, e della conseguente imposta, sarebbe dovuta avvenire sia nel registro degli acquisti che in quello delle vendite, senza comportare una forma di evasione del tributo in termini di minor gettito (sul rapporto tra certificati Co2 e sulla Direttiva anti frodi cfr. S. Armella, Operazioni di “emission trading”: la qualificazione giuridica influenza la territorialità, in Corr. trib., n. 11/2011, p. 916 e ss.) e consentendo, dunque, la piena realizzazione della neutralizzazione del tributo (sugli effetti della doppia registrazione in termini di riscossione e neutralità cfr. M. Basilavecchia, Gli adempimenti per il reverse charge, in Rass. trib., n. 2/2014, p. 327 e ss.).
Tale riflessione è, inoltre, coerente con la riduzione delle sanzioni collegate a vizi formali in materia di reverse charge (comma 9bis, comma 9-bis.1, 9-bis.2, 9-bis.3, art. 6, D. Lgs. n. 471/1997, norme relative a meri errori formali collegati a ipotesi di applicazione o meno dell’inversione contabile; cfr. P. Centore, Reverse charge e sanzioni: un equilibrio ancora da individuare, in Dir. prat. trib., n. 1/2017, p. 193 e ss.; P. Pacitto, Omessa registrazione degli acquisti intracomunitari e detrazione Iva, in Rass. trib., n. 4/2014, p. 837 e ss.) fattispecie ove la proporzionalità della sanzione viene ricondotta, per l’appunto, alla neutralità del tributo.
I recenti orientamenti in materia di aiuti di Stato nell’ambito del sistema per lo scambio di quote di emissioni dei gas a effetto serra, adottati dalla Commissione europea ed entrati in vigore il primo gennaio 2021, mostrano una “dinamicità” nel raffigurare la scelta effettuata a livello europeo sulla lotta ai cambiamenti climatici al punto da derogare espressamente al divieto di aiuti di Stato, o meglio, da rendere compatibili con l’art. 107 TFUE le misure compensative dei “costi indiretti delle emissioni”.
Infatti, il “green deal europeo” all’interno del quale la Commissione delinea le politiche da adottare per conseguire la neutralità climatica in Europa entro il 2050 attraverso un ripensamento della politica energetica fa leva proprio sul sistema sovranazionale degli aiuti di Stato: il rischio costituito dai costi indiretti delle emissioni [Il punto 5 dell’introduzione della Comunicazione della Commissione, Orientamenti relativi a determinati aiuti di Stato nell’ambito del sistema per lo scambio di quote di emissione dei gas a effetto serra dopo il 2021. Bruxelles, 21.9.2020, C(2020) 6400 final , afferma: “Fintanto che molti partner internazionali non condivideranno le stesse ambizioni dell'UE, esisterà il rischio di una rilocalizzazione delle emissioni di carbonio, sia perché la produzione può essere trasferita dall’Unione verso altri paesi con minori ambizioni di riduzione delle emissioni, sia perché i prodotti dell’Unione possono essere sostituiti da prodotti importati a maggiore intensità di carbonio. Se tale rischio si materializza, non vi sarà alcuna riduzione delle emissioni globali e saranno vanificati gli sforzi dell’Unione e del suo comparto industriale per conseguire gli obiettivi climatici globali dell’accordo di Parigi, adottato il 12 dicembre 2015 a seguito della 21a conferenza delle parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici («accordo di Parigi»).”] dovuti a fenomeni di ricollocazione delle stesse fuori dal territorio europeo viene contrastato concedendo aiuti di Stato limitati al minimo necessario per ridurre la suddetta evenienza e, al contempo, non generare distorsioni della concorrenza e degli scambi conformandosi al principio di proporzionalità.
Inoltre, si può osservare che il limite prefissato di Co2 è utile e coerente con una tendenziale e graduale riduzione delle emissioni inquinanti nell’atmosfera secondo un obbligo (la restituzione al GSE delle quote in base a quanto effettivamente inquinato) che non può essere derogato corrispondendo la sanzione a causa della sua inattitudine a realizzare effetti sostitutivi o di adempimenti satisfattori (l’art. 16 della Direttiva 2003/87/CE prevede infatti che “Il pagamento dell'ammenda per le emissioni in eccesso non dispensa il gestore dall'obbligo di restituire un numero di quote di emissioni corrispondente a tali emissioni in eccesso all'atto della restituzione delle quote relative alle emissioni dell'anno civile seguente”).
Per concludere, si vuole mettere in luce la discussione in atto a livello sovranazionale che ricerca un’evoluzione del sistema attualmente in vigore delle quote di emissione Co2 verso un “Carbon Border Adjustment mechanism” (CBAM) (cfr. la Proposta di risoluzione del Parlamento Europeo sul tema “Verso un meccanismo UE di adeguamento del carbonio alla frontiera compatibile con l’OMC” (2020/2043(INI)), del 7 ottobre 2020): un meccanismo sostitutivo di quello attuale ugualmente destinato a limitare il pericolo di delocalizzazione degli impianti inquinanti e, dunque, capace di scoraggiare “emigrazioni” di fonti inquinanti che aggraverebbero l’effetto serra inteso nella sua globalità (oltre i confini del singolo Stato); il CBAM rappresenterebbe un’alternativa al regime attuale dei certificati Co2, al fine di non creare discriminazioni internazionali tra importazioni e mercato interno, contrarie all’art. III del GATT, che consentirebbe di rispettare il sistema degli aiuti di Stato (La Corte dei Conti Europea ha di recente affermato la necessità di raffinare l’attribuzione gratuita delle quote Co2 per migliorare il processo di decarbonizzazione, incrementare le finanze pubbliche e ottimizzare sul punto il funzionamento del mercato unico; cfr. p. 5 della Relazione speciale n. 18/2020 “Il sistema di scambio di quote di emissioni dell’UE: l’assegnazione gratuita di quote doveva essere più mirata”) ma rischierebbe di istituire un dazio alle importazioni in contrasto con il WTO, suggerendo allora un riconoscimento globalizzato della limitazione delle emissioni Co2 e della tutela ambientale.
Il presente contributo si riferisce alla sentenza n. 25492 della Corte di Cassazione, Sez. V del 10 ottobre 2019.