Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

01/12/2021 - La buona fede del soggetto passivo nelle operazioni soggettivamente inesistenti e l’adozione di protocolli preventivi per la gestione del rischio fiscale.

argomento: IVA - Giurisprudenza

La pronuncia in commento affronta, nuovamente, il delicato tema della ripartizione dell’onere probatorio nelle ipotesi di operazioni soggettivamente inesistenti e dell’annesso diritto di detrazione dell’Iva. Tale questione, ormai consolidatasi nella giurisprudenza nazionale (ed europea), trova qui ulteriore conferma. L’Agenzia delle Entrate, in sostanza, è gravata dal dimostrare i presupposti oggettivi e soggettivi dell’operazione evasiva, mentre al soggetto passivo spetta l’eventuale prova contraria della buona fede di non essere stato a conoscenza che la transazione si iscriveva in una transazione avente natura evasiva. Tale sede, pertanto, può divenire l’occasione utile per soffermarsi su di una questione, per così dire, “evolutiva”: ossia, l’individuazione degli elementi sintomatici per dimostrare la buona fede del cessionario di beni e servizi di non essere stato a conoscenza della frode Iva. Non essendo tali elementi sintomatici espressamente tipizzati dal legislatore, l’utilizzo di protocolli preventivi all’interno dei Modelli di Organizzazione, Gestione e Controllo ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001 potrebbe divenire la strategia più idonea per la formalizzazione e, successivamente, l’applicazione estesa di tali principi di condotta all’interno dell’ambiente societario.

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PAROLE CHIAVE: operazioni soggettivamente inesistenti - buona fede - modelli di gestione


di Davide Stefani

 

  1. La fattispecie in esame verte sul delicato tema della ripartizione dell’onere probatorio in ipotesi di operazioni soggettivamente inesistenti e del relativo esercizio del diritto di detrazione dell’Iva. Tale questione, occorre precisare, ha ormai trovato consolidamento nell’ambito della giurisprudenza di legittimità nazionale (e della giurisprudenza europea), che suddivide l’onere probatorio tra le parti attribuendo all’Agenzia delle Entrate il dovere di dimostrare i presupposti oggettivi e soggettivi dell’operazione evasiva, mentre sul soggetto passivo – eventualmente – incombe la prova contraria della buona fede, ossia di non essere stato a conoscenza che la transazione si iscriveva in un meccanismo avente natura evasiva.

Scopo del presente lavoro, pertanto, è di analizzare ed individuare i criteri di diligenza non espressamente tipizzati, a mezzo dei quali i soggetti passivi (il cessionario e, nell’ambito delle operazioni intracomunitarie, il cedente di beni e servizi) possono dimostrare la propria buona fede di non essere stati coinvolti, consapevolmente, in una frode Iva. È, infatti, lo stato di incolpevole ignoranza a legittimare l’esercizio del diritto di detrazione dell’imposta armonizzata assolta per l’esecuzione della prestazione.

Apprezzabile, in questo senso, è l’enucleazione di una serie di elementi di rilevanza sintomatica idonei a dimostrare la buona fede del contribuente; elementi che potrebbero essere introdotti nelle prassi e nelle procedure amministrative già esistenti all’interno della società, anche attraverso l’adozione di un Modello di organizzazione, gestione e controllo di cui al d.lgs. n. 231 del 2001.

L’ordinanza in commento, occorre precisare, non menziona e non si riferisce al suddetto «Modello 231» come strumento di compliance normativa idoneo a diminuire il rischio di essere coinvolti in tali fattispecie illecite. Nonostante ciò, gli indici comportamentali individuati dalla giurisprudenza, che l’imprenditore diligente dovrebbe preventivamente assolvere per diminuire il rischio fiscale, coincidono – in larga parte – proprio con i criteri di prudenza ed accortezza di regola adottati dalle Società per prevenire il rischio-reato circoscritto nell’ambito di applicazione del d.lgs. n. 231 del 2001.

Pertanto, ancorché il cd. «Modello 231» non sia obbligatorio ai sensi dell’art. 6 del citato decreto legislativo e sia riferito esclusivamente alle fattispecie di natura penale, l’adozione di specifici protocolli preventivi, in linea astratta, potrebbe agevolare anche la dimostrazione della buona fede del soggetto passivo nell’ambito del procedimento tributario, soprattutto quando l’Agenzia delle Entrate contesti, come nella fattispecie in esame, l’esercizio del diritto di detrazione poiché l’operazione si iscriveva, a monte, in un’operazione avente natura evasiva (vedi infra, par. 3).

 

  1. Prima di analizzare le regole di cautela e di prevenzione del rischio fiscale, è opportuno soffermarsi, seppure brevemente, sul criterio di ripartizione dell’onere probatorio tra le parti.

La ripartizione dell’onere probatorio, in particolare, si fonda sulla combinazione di un criterio avente natura oggettiva ed uno avente natura soggettiva. Nel primo caso, l’Agenzia delle Entrante deve dimostrare l’esistenza, sul piano oggettivo, di un meccanismo fraudolento che consenta di fondare il rimprovero di diniego del diritto alla detrazione dell’Iva. Con riferimento al requisito soggettivo, invece, è necessario provare, anche mediante presunzioni, la conoscenza della frode da parte del soggetto passivo, al quale spetta – in ultima istanza – l’onere di dimostrare l’incolpevole ignoranza di essere stato coinvolto in un’operazione abusiva.

Tale orientamento “soggettivistico” a favore del soggetto passivo, invero, eleva lo stato soggettivo rappresentato dalla buona fede, intesa come “incolpevole ignoranza” di essere coinvolto in una frode Iva, quale presupposto necessario ed indefettibile per esercitare il diritto di detrazione dell’imposta armonizzata. Ciò avviene in un’ottica di “premiazione” e di “responsabilizzazione” dell’imprenditore che, nell’ambito dell’attività economica, monitora e previene diligentemente i rischi della specie fiscale.

Tale criterio, in particolare, ha soppiantato il previgente orientamento “oggettivistico”, fatto proprio inizialmente da parte della giurisprudenza nazionale, in contrasto con l’insegnamento della Corte di Giustizia. In particolare, il diritto di detrazione veniva negato, a priori, qualora fosse dimostrata la compartecipazione, anche inconsapevole, del soggetto passivo in una frode Iva, senza dare alcuna rilevanza all’elemento soggettivo di quest’ultimo. In sostanza, il diniego alla detrazione trovava giustificazione anche sulla base del fatto che la transazione commerciale fosse avvenuta, a monte od a valle, in un’operazione evasiva (non potendo qui analizzare lo sviluppo e le varie fasi dell’evoluzione giurisprudenziale nazionale ed europea si rinvia, in generale, a A. Giovanardi, Le frodi Iva. Profili ricostruttivi, Torino, 2013, pag. 68 e seguenti; G. Moschetti, Diniego di detrazione per consapevolezza nel contrasto alle frodi IVA: alla luce dei principi di certezza del diritto e proporzionalità, Padova, 2012, pag. 79; S. Dorigo, Frodi carosello e detraibilità dell’Iva da parte del cessionario: il difficile percorso “comunitario” della giurisprudenza della Corte di Cassazione, in Dir. prat. trib., 2009, pag. 1251; S. Arnella, D. Mirarchi, Detraibilità IVA risultante da fatture soggettivamente inesistenti se c’è buona fede, in L’Iva, 2015, pag. 49; F. Amatucci, Frodi carosello e “consapevolezza” del cessionario IVA, in Riv. trim. dir. trib., 2012, pag. 10; G. Petrillo, Il principio di proporzionalità e diniego di detrazione per “consapevolezza” nelle frodi IVA, in Riv. trim. dir. trib., 2017, pag. 431; E. G. Comaschi, Fatture per operazioni inesistenti: actore non probante, reus absolvitur, in Dir. e prat. trib., 2011, pag. 43; F. Cerioni, La prova della frode fiscale relativa all’imposta sul valore aggiunto e della «mala fede» del contribuente nella giurisprudenza europea e nazionale, in Dir. e prat. trib., 2014, pag. 145; D. Peruzza, L’indetraibilità dell’IVA per il committente che ‘sapeva o avrebbe dovuto sapere’, in Riv. trim. dir. trib., 2014, pag. 769; M. Logozzo, Iva e fatturazione per operazioni inesistenti, in Riv. dir. trib., 2011, pag. 297).

Tale evoluzione giurisprudenziale, che ha determinato il passaggio dal regime oggettivo a quello soggettivo, ha il pregio di tutelare, da un lato, il diritto alla detrazione del contribuente, sgravandolo dall’onere dell’Iva dovuta od assolta (CGUE, 21 giugno 2012, cause riunite C‑80/11 e C‑142/11, Mahagében e Dávid) e, dall’altro, a salvaguardare le pretese dell’Erario, qualora sia dimostrata l’esistenza di una frode che elide, inevitabilmente, il presupposto per esercitare la detrazione, ossia l’esecuzione della prestazione di servizi o la cessione di beni (cfr. sul punto, la giurisprudenza della Corte di Giustizia, CGUE, 6 luglio 2006, cause riunite C-439/04 e C-440/04, Kittel e Recolta Recycling; CGUE, 31 gennaio 2013, C-642/11, Stroy trans EOOD; in dottrina, A. Giovanardi, Le frodi Iva. Profili ricostruttivi, cit., pag. 140).

In generale, il principio di detrazione trova un limite in due ipotesi. La prima, qualora il soggetto passivo sia autore o complice della frode Iva. La seconda, invece, allorché quest’ultimo sia consapevole o avrebbe potuto conoscere l’esistenza della frode con la normale diligenza del meccanismo abusivo.

In ciò il sistema armonizzato Iva differisce dalla disciplina delle imposte dirette, ove la buona fede è oggettivamente irrilevante. Se, infatti, in quest’ultimo caso ai fini della legittima deduzione dei “costi da reato” è sufficiente dimostrare che i costi sostenuti siano effettivi, inerenti, certi, determinati e determinabili, in ambito Iva la prova della buona fede diviene l’unica “esimente” per godere legittimamente del diritto di detrazione (per approfondire, in tema di imposte dirette, che per ragioni sistematiche non possono essere analizzate nel presente lavoro, si rinvia E. M. Bagarotto, L’applicazione della novellata disciplina in materia di ‘costi da reato’ agli effetti reddituali degli acquisti conclusi nell’ambito delle c.d. frodi carosello, in Riv. trim. dir. trib., 2013, pag. 263; A. Manzitti, M. Fanni, Costi da reato e nuova disciplina delle operazioni inesistenti, in Corr. trib., 2012, pag. 1982; A. Russo, Cenni sul nuovo ambito della deducibilità delle fatture soggettivamente inesistenti, in Fisco, 2012, pag. 5474; in giurisprudenza, ex pluribus, Cass., Sez. V, Ord., 6 luglio 2021, n. 19169; Cass., Sez. V, Sent., 20 giugno 2012, n. 10167).

Abbandonato l’orientamento “oggettivistico”, non vi è più, dunque, alcun automatismo tra condotta fraudolenta e diniego di detrazione dell’imposta. Una sorta di automatismo, invece, permane nelle ipotesi in cui il soggetto passivo sia l’autore o il compartecipe nella frode, fattispecie, questa, in cui la sussistenza dell’elemento soggettivo deve ritenersi in re ipsa.

Anche nel sistema Iva, quindi, non sono tollerate forme, anche mascherate, di responsabilità oggettiva (in argomento, cfr. CGUE, 11 maggio 2006, C‑384/04, Federation of Technological Industries; CGUE, 12 gennaio 2006, cause riunite C-354/03, C-355/03 e C-484/03, Optigen, ove la Corte di Giustizia richiama il principio del legittimo affidamento da parte degli operatori sul mercato, sui quali non deve gravare l’obbligazione in solido di versare l’imposta che avrebbe dovuto versare un altro soggetto passivo e, al tempo stesso, afferma che non è possibile pretendere un dovere di diligenza, oltre quella ragionevolmente pretesa, al fine di assicurarsi che le operazioni compiute non facciano parte di una catena di scambi commerciali all’interno della quale risulta esservi una transazione viziata da una frode Iva).

Pertanto, nell’ottica di riparto dell’onere probatorio sensi dell’art. 2967 c.c., spetta all’Agenzia delle Entrate provare non solo i presupposti oggettivi della frode, ma anche lo stato di consapevolezza psicologica del contribuente di essere coinvolto in un meccanismo negoziale fraudolento e che, quindi, il soggetto passivo “sapeva o avrebbe dovuto sapere” di essere coinvolto in una frode Iva. Solo in tal caso è possibile ritenere fondato il diniego della detrazione dell’imposta (in argomento, A. Marcheselli, Frodi Iva e operazioni inesistenti: quando si risponde delle violazioni commesse dal proprio fornitore, in Riv. giur. trib., 2008, pag. 154; in tema di buona fede, si veda C. Simone, Operazioni inesistenti, buona fede e diligenza dell’operatore economico: considerazioni alla luce della struttura dell’imposta, in Rass. trib., 2017, pag. 516. È verosimile, sotto questo punto di vista, che anche la mera “connivenza” del soggetto passivo possa legittimare il diniego del diritto di detrazione, trattandosi di uno stato di “indifferenza” dal quale, però, consegue un evidente profitto).

Tale principio è sancito anche nell’ambito del d.lgs. n. 231 del 2001, ove si ravvisa nella cd. “colpa di organizzazione” il collegamento subiettivo tra la realizzazione del reato presupposto e la punizione a causa della “disorganizzazione” dell’ente (in argomento, C. E. Paliero, C. Piergallini, La colpa di organizzazione, in Resp. amm. soc. ed enti, 2006, pag. 167; M. Paone, Contestazione dell’illecito amministrativo: controlli giurisdizionali e oneri motivazionali, in Dir. pen. e proc., 2020, pag. 1089; F. Paterniti, La colpevolezza di impresa. Note sull’imputazione soggettiva dell’illecito all’ente, in Resp. amm. soc. ed enti, 2013, pag. 45).

Con l’avvento dell’orientamento “soggettivistico”, come poc’anzi esposto, il soggetto passivo è ammesso alla prova contraria, potendo dimostrare la non colpevole ignoranza di essere a conoscenza dell’esistenza, a monte od a valle, di un meccanismo fraudolento e che, nonostante tutte le misure di precauzione adottate, non era stato possibile evitare di incorrere nella transazione illecita; prova che, tuttavia, non è di facile soluzione, dovendo l’imprenditore ricostruire la catena dei processi interni alla società e, successivamente, dimostrare l’adozione di tutte le possibile cautele e accortezze esigibili dall’operatore di media diligenza, anche in considerazione della natura dell’attività svolta, la dimensione dell’ente e il mercato di operatività.

Nella fattispecie in esame, in particolare, la Suprema Corte accoglieva il ricorso per aver, sia il Giudice di primo che di secondo grado, gravato l’onere probatorio in capo all’Agenzia delle Entrate; onere probatorio, invece, che quest’ultima aveva assolto, avendo «dettagliato gli elementi di fatto (mancanza di strutture operative idonee; vendita dei beni a un prezzo inferiore a quello di acquisto; evasione dell’Iva da parte della cartiera, anomale modalità di pagamento) dai quali inferire l’inesistenza delle operazioni», mentre sarebbe spettato al cessionario dei beni dimostrare la propria buona fede e, quindi, di non essere a conoscenza dell’operazione fraudolenta; prova, questa, che non è stata correttamente assolta.

Pregevole, quindi, da questo punto di vista, lo sforzo interpretativo della giurisprudenza di legittimità, richiamata anche dall’ordinanza in commento, che nel tentativo di sopperire al gap normativo ha enucleato una serie di elementi sintomatici che, in concreto, consentirebbero di valutare, ex ante, la buona fede del contribuente di non essere coinvolto in una frode Iva (in argomento, si veda G. E. Degani, D. Peruzza, Frodi IVA: l’assenza di sede operativa del cedente non prova la consapevolezza del contribuente, in Fisco, 2019, pag. 4170).

Non potendo però esigere un dovere di diligenza e di buona fede espressamente tipizzato dal legislatore, in tale ottica, allora, probabilmente, per arginare la linea di confine tra consapevolezza e non consapevolezza, l’imprenditore potrebbe adottare in via cautelativa specifici protocolli preventivi ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001 da inserire all’interno della società ed elevare quali principi generali di condotta.

La “tipizzazione privata” di una serie di procedure e protocolli interni mediante l’adozione di un Modello di Organizzazione, Gestione e Controllo ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001, infatti, a differenza di un intervento “pubblico” ad hoc, potrebbe divenire la strategia più idonea a ridurre il rischio fiscale e, al tempo stesso, a consentire il legittimo godimento del diritto di detrazione dell’Iva in ipotesi di diniego dello stesso per essere stati coinvolti, inconsapevolmente, in una frode Iva.

 

  1. L’adozione di un Modello di Organizzazione, Gestione e Controllo, quindi, potrebbe agevolare la prova, in capo al contribuente, della propria incolpevole ignoranza di essere stato coinvolto in una frode Iva.

La predisposizione di protocolli di prevenzione del rischio-reato, infatti, potrebbe generare effetti positivi anche dal punto di vista prettamente tributario.

L’imprenditore, infatti, potrebbe non solo prevenire il rischio di partecipare, inconsapevolmente, ad un’operazione evasiva, ma potrebbe altresì dimostrare, in caso di eventuale contestazione, che nonostante le cautele e le misure precauzionali adottate non sarebbe stato possibile evitare il coinvolgimento colpevole nella frode Iva (in generale, cfr. L. Luparia Donati, G. Vaciago, Compliance 231. Modelli organizzativi e Odv tra prassi applicative ed esperienze di settore, 2020, pag. 1 e seguenti; in giurisprudenza, si veda, CGUE, 6 luglio 2006, C-439/04, C-440/04, Axel Kittel, Recolta Recycling SPRL c. Stato belga, ove la Corte di Giustizia introduce il concetto di “colpevole ignoranza”, ravvisabile nell’ipotesi in cui il «soggetto passivo che sapeva o avrebbe dovuto sapere che con il proprio acquisto partecipava ad un’operazione che si iscriveva in una frode all’IVA»).

Com’è noto il d.lgs. n. 231 del 2001 ha introdotto nell’ordinamento italiano un regime di responsabilità per le società in caso di commissione di reati ad opera di soggetti apicali, ovvero subordinati all’interno dell’ente, sempreché siano stati realizzati nell’interesse e/o a vantaggio della persona giuridica. Contestualmente, all’art. 6 comma 1, lett. a) del suddetto decreto legislativo, ha previsto un meccanismo di esenzione da responsabilità qualora la società abbia «adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi».

Il catalogo dei reati previsti dal citato decreto legislativo è stato di recente ampliato con l’introduzione dei reati tributari.

Infatti, il D.L. n. 124 del 2019, convertito con la Legge 19 dicembre 2019 n. 157, e il d.lgs. n. 75 del 2020, in attuazione della Direttiva PIF (UE/2017/1371), ha esteso la responsabilità delle società relativamente ai reati tributari, anche della specie di contrabbando di cui al d.P.R. n. 43 del 1973 (in argomento, cfr. I. Blasi, Reati tributari e direttiva PIF: criticità di effettiva applicazione, in Resp. amm. soc. ed enti, 2021, pag. 83; M. Bonsegna, F. Negro, Modello 231 e qualifica dei fornitori: analisi del rischio penale anche dopo l’introduzione dei reati tributari, 2020, pag. 353).

Tale novella impone una più ampia valutazione del rischio fiscale all’interno della società; valutazione che, in astratto, è in grado di coinvolgere la quasi globalità dei singoli reparti esistenti all’interno dell’ente: l’illecito fiscale infatti può originare dalla sinergia di più singole unità funzionali e, dunque, il rischio può ritenersi di natura interferenziale (si veda, in argomento, P. Vernero, M.F. Artusi, B. Parena, Reati tributari: assessment del modello 231 e test odv, in Resp. amm. soc. ed enti, 2020, pag. 283; accanto al Modello 231, per governare il rischio fiscale, potrebbe affiancarsi anche il Tax Control Framework; in argomento, si veda C. Melillo, Regime di adempimento collaborativo» e monitoraggio del rischio fiscale: incentivi, semplificazioni e oneri, in Dir. prat. trib., 2015, pag. 963; E. Covino, L. Miraglia, “Modello 231” e tax control framework: riflessioni sulle modifiche intervenute in tema di tax compliance e responsabilità amministrativa degli enti per reati tributari di natura fraudolenta, in Tax news, 2020, pag. 457).

Con particolare attenzione al reato di «emissione di fatture per operazioni inesistenti» di cui all’art. 8 d.lgs. n. 74 del 2000, il risk assessment dovrà focalizzarsi sulle attività sensibili di gestione contabile, fatturazione attiva e passiva, gestione dei fornitori ed adempimenti fiscali in generale; mentre nell’ambito dei singoli reparti occorrerà analizzare le procedure operative esistenti all’interno delle funzioni Amministrazione-Finanza, Ufficio Acquisti, Ufficio Commerciale, Risorse Umane e Magazzino.

È proprio in tali contesti che, dunque, occorre approntare un efficace sistema di prevenzione, seppur nei limiti dell’esigibilità richiesta all’imprenditore medio e diligente.

Come affermato dalla giurisprudenza in commento, infatti, se al «destinatario non compete, di norma, conoscere la struttura e le condizioni di operatività del proprio fornitore, sorge, tuttavia, un obbligo di verifica, nei limiti dell’esigibile, in presenza di indici personali od operativi anormali dell’operazione commerciale ovvero delle scelte dallo stesso effettuate ovvero tali da evidenziare irregolarità e ingenerare dubbi di una potenziale evasione» (in argomento, si veda altresì Cass., Sez. V, Sent., 2 dicembre 2015, n. 24490).

Tale sospetto, per esempio, potrebbe essere ingenerato nell’istante in cui, a seguito della richiesta della documentazione attestante la regolarità contributiva, assistenziale ed assicurativa, ovvero il certificato di carichi pendenti, la controparte commerciale si rifiuti di fornirne copia al soggetto passivo; ovvero nell’ipotesi in cui, come si avrà modo di specificare successivamente, nell’ambito di una medesima transazione commerciale operino più soggetti diversi; ovvero, ancora, nei rapporti commerciali caratterizzati da contratti di intermediazione di manodopera, non vi sia coincidenza qualitativa e numerica del personale che offre concretamente la propria prestazione nell’interesse del committente e quello prestato dall’appaltatore come da contratto.

L’individuazione, preventiva, di tali indici sintomatici potrebbe evitare che il soggetto passivo sia coinvolto in una frode e così scongiurare, in astratto, l’eventuale contestazione della detrazione Iva.

Per dimostrare l’assenza di buona fede dell’acquirente, ovvero dell’alienante nelle cessioni intracomunitarie, nel rispetto del criterio di ripartizione dell’onere probatorio sopra esaminato (vedi retro, par. 2), l’imprenditore ha il potere-dovere di inserire all’interno del «Modello 231» le seguenti e non esaustive procedure preventive.

Si precisa, sin da ora, che tali protocolli specifici dovranno adattarsi alla realtà imprenditoriale di volta in volta determinata, anche in considerazione della dimensione, alla natura e dell’attività esercitata dalla società (cfr. in argomento CGUE, 15 novembre 2017, C-374/16 e C-375/16, Rochus e Finanzamt, la quale, nella fattispecie, afferma che il diniego del diritto alla detrazione osta alla normativa europea se subordinato alla sede dell’attività e, in particolare, se questa sia svolta in luoghi diversi dalla sede sociale, come nel caso di esercizio dell’attività in forma dematerializzata o con modalità e-commerce); particolare attenzione, infatti, dovrà essere prestata in quei settori merceologici che, spesso, sono interessati da tale eventi illeciti a fronte del valore non irrilevante dei beni commercializzati, quali la vendita di elettrodomestici, autoveicoli, dispositivi telefonici, e così via.

Tanto premesso, in particolare, la società ha il potere-dovere di: (i) predisporre una lista dei fornitori, valutare preventivamente l’affidabilità e la serietà di questi ultimi sul mercato, anche attraverso indagini mirate attraverso intermediari specializzati; (ii) verificare la coincidenza soggettiva (formale e sostanziale) dei fornitori, anche a mezzo di un doppio controllo, per evitare che nell’ambito di una sola operazione negoziale siano coinvolti più soggetti diversi; (iii) compiere accertamenti incrociati, anche a campione, tra la fattura di acquisto dei beni, la conferma d’ordine, il prezzo applicato e il destinatario del pagamento; (iv) nominare un Responsabile Unico Acquisti competente, serio ed affidabile che gestisca le commesse dei fornitori; (v) verificare la congruità tra il prezzo di acquisto dei beni rispetto al valore di mercato, tenendo in considerazione il prezzo di ricarico degli stessi; (vi) procurarsi la visura camerale societaria della controparte commerciale, verificando la ragione sociale, la data di iscrizione della società nel registro delle imprese e, infine, la coincidenza tra la prestazione eseguita e l’oggetto sociale; (vii) richiedere il certificato del casellario giudiziale, il certificato dei carichi pendenti del legale rappresentante della società, di quello eventualmente cessato nell’ultimo anno, il certificato dei carichi pendenti presso l’Agenzia delle Entrate e, infine, il DURC; (viii) verificare attentamente la piena coincidenza tra i destinatari dei pagamenti e le controparti coinvolte nelle operazioni commerciali; (ix) attuare specifici percorsi di formazione del personale dipendente; (x) analizzare i comportamenti commerciali della controparte anche a seguito dell’esecuzione della commessa (per esempio, reticenza nelle comunicazioni e telefonate); (xi) predisporre particolari limiti di autorizzazioni nell’esecuzione dei pagamenti al fine di evitare che le transazioni siano effettuate da soggetti non qualificati; (xiii) verificare la corretta e regolare conservazione delle scritture contabili; (xiv) confrontare le fatture emesse dai fornitori intracomunitari e le comunicazioni effettuate all’Agenzia delle Dogane e all’Agenzia delle Entrate; (xv) verificare l’effettività delle transazioni mediante il sistema VIES; (xvi) verificare la coincidenza numerica e soggettiva dei prestatori d’opera e dei lavoratori che, nell’ambito di un rapporto di somministrazione di manodopera ai sensi del d.lgs. n. 276/2003, prestano la propria manodopera nell’interesse del committente (in argomento, con riferimento a quest’ultimo principio di condotta, si veda Cass., Sez. III, Sent. 15 luglio 2020, n. 2090).

Il rispetto di tali procedure, in astratto, potrebbe consentire alle società di ottenere vantaggi in termini di prevenzione del rischio fiscale. Si pensi, emblematicamente, all’ipotesi in cui una società, che vende sul mercato beni di consumo (elettrodomestici), acquista uno stock di lavastoviglie da un nuovo fornitore reperito sul mercato per la vantaggiosità dei prezzi. Nel caso in cui parte acquirente analizzi, in via preventiva, la visura camerale potrebbe accorgersi che la ragione sociale del nuovo fornitore è un S.r.l.s. con capitale sociale di euro 100,00, che è stata da poco costituita, che la sede legale è una mera “buca delle lettere”, che l’oggetto sociale è differente dall’attività effettivamente svolta, che non ha personale dipendente, e così via. Tali indizi, in particolare, potrebbero e dovrebbero far sorgere in capo all’imprenditore più accorto un sospetto circa l’esistenza di un’operazione sospetta e, eventualmente, astenersi dall’intrattenere rapporti con tale operatore economico.

Occorre rilevare, comunque, che tali procedure non devono imporre alla società un’eccessiva burocratizzazione che potrebbe, nella remota ipotesi, paralizzare l’attività economica (G. Petrillo, Il principio di proporzionalità e diniego di detrazione per “consapevolezza” nelle frodi IVA, cit., pag. 431); né l’adozione di tali protocolli deve duplicare le prassi interne già esistenti all’interno dell’ente. Lo scopo di tali procedure, invero, è quello di ridurre il rischio fiscale, in quanto sarebbe astrattamente impossibile eliminarlo, non esistendo attività imprenditoriali esenti da rischi. Pertanto, l’adozione ed il rispetto di tali protocolli potrebbe agevolare la prova dell’inconsapevolezza di essere coinvolti in una frode Iva e, al tempo stesso, nell’ipotesi in cui l’evento illecito si verifichi, dimostrare che tale evento è avvenuto nonostante tutte le misure precauzionali adottate: l’imprenditore, dunque, alla stregua della giurisprudenza nazionale ed europea, non “avrebbe potuto sapere” di essere coinvolto in un meccanismo fraudolento.

 

  1. In conclusione, l’adozione di un «Modello 231» contenente specifici protocolli preventivi volti a ridurre il rischio fiscale potrebbe, in linea generale, agevolare la dimostrazione della buona fede in capo al soggetto passivo in caso di contestazione della detrazione Iva.

La previsione di procedure standard per la gestione del rischio, invero, riduce il rischio di essere coinvolti nell’ambito di operazioni negoziali fraudolente. Qualora, invece, ciò non sia valso per evitare di essere coinvolti, a monte od a valle, in un tale meccanismo, allora la società potrà dimostrare che, nonostante le regole di cautela adottate, l’evento non poteva essere previsto. Tale prova contraria dovrà comunque essere sorretta dall’evidenza probatoria che tali procedure siano state scrupolosamente rispettate.

I protocolli preventivi ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001 potrebbero divenire, in sostanza, uno strumento per prevenire la frode Iva ed escludere così il “rimprovero” del diniego alla detrazione dell’Iva. Ciò non accade, tuttavia, nelle ipotesi in cui l’acquirente, ovvero il venditore nelle cessioni intracomunitarie, sia meramente connivente oppure compartecipe del meccanismo fraudolento.

La prova contraria circa il fatto che non “sapeva o che non avrebbe dovuto sapere” secondo i criteri di ordinaria diligenza spetta, comunque, al soggetto passivo. Questi, infatti, deve dimostrare di aver compiuto, rispettando le procedure interne, tutte le ragionevoli verifiche per accertare la regolarità dell’operazione. Il contribuente, infatti, deve provare di non essersi trovato nella situazione giuridica, oggettiva, di poter conoscere con la dovuta diligenza l’esistenza di una frode, oppure, nonostante il possesso della capacità cognitiva adeguata all’attività professionale svolta, di non essere stato in grado di superare l’ignoranza, incolpevole, del carattere fraudolento delle operazioni poste in essere da altri soggetti coinvolti (cfr. Cass., Sez. V, Sent. 24 settembre 2014, n. 20059; Cass., Sez. V, Sent. 25 marzo 2016, n. 5984).

In sostanza, l’inconsapevole ed incolpevole partecipazione al meccanismo abusivo deve essere considerata come l’evento impossibile da prevenire, interrompendo così il nesso eziologico tra l’elemento oggettivo (i.e., la partecipazione all’operazione fraudolenta) e il rimprovero (ossia, il diniego del diritto di detrazione dell’Iva).

Tale “indagine” preventiva deve comunque tenere in considerazione la natura dell’attività economica svolta, la dimensione della società e il settore merceologico in cui la stessa opera: la realizzazione di protocolli preventivi, infatti, non deve “atrofizzare” l’attività dell’ente e, soprattutto, non deve duplicare le prassi amministrative al personale amministrativo (in argomento, si vedano le «Linee guida per la costruzione dei modelli di organizzazione, gestione e controllo» di Confindustria revisionate nel giugno 2021).

Come già anticipato nelle premesse, l’adozione del Modello di organizzazione, gestione e controllo non è obbligatoria. L’art. 6 del d.lgs. n. 231 del 2001, infatti, non dispone alcun obbligo ma solo una facoltà di adozione. Tuttavia, se da un lato, il decreto legislativo sopra citato sancisce la facoltatività dell’adozione del «Modello 231», dall’altro lato, il Codice Civile dispone un generale obbligo di istituzione di un adeguato assetto societario per gestire la crisi d’impresa.

Invero, la nuova formulazione dell’art. 2086, comma 2 c.c., avvenuta con il d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, «dispone» il dovere dell’imprenditore di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile, adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa che sia in grado di prevenire i rischi connessi all’attività imprenditoriale esercitata (cfr., in dottrina, F. Vitelli, M.M. Morelli, Assetto organizzativo ed etica d’impresa: alcune brevi riflessioni, in Resp. amm. soc. ed enti, 2021, pag. 245; C. Santoriello, E. Perusia, La valutazione dell’idoneità del modello organizzativo alla luce delle innovazioni in tema di crisi di impresa, in Resp. amm. soc. ed enti, 2019, pag. 33).

Da questo punto di vista è evidente l’esigenza legislativa di prevenire la generalità dei rischi insiti all’attività d’impresa, proprio nell’ottica di scongiurarne la crisi e di stimolarne la continuità. Il procedimento evolutivo è ancora in fase di attuazione. Alcuni passi in avanti si possono notare, segnatamente, anche in ambito del d.lgs. n. 231 del 2001. In questo senso, infatti, il legislatore si è attivato positivamente al fine di rendere obbligatoria l’adozione del «Modello 231» alle società ed agli enti che superino determinate soglie previste per legge (cfr. il link diretto al d.d.l. n. 726 della XVII Legislatura).

In questo senso, allora, sembra opportuna una presa di coscienza da parte dell’imprenditore di tale importante strumento di compliance normativa, utile non solo per integrare in melius le procedure interne già esistenti, ma anche per monitorare gli innumerevoli rischi derivanti dalla conduzione dell’attività societaria, tra i quali possono annoverarsi quelli di natura fiscale.