argomento: IRES - Legislazione e prassi
Il potere di rettifica “contabile” da parte dell’Amministrazione finanziaria, in assenza della preventiva dichiarazione di nullità del bilancio da parte dell’autorità giudiziaria ordinaria, è un tema che dovrebbe essere indagato e risolto alla luce delle disposizioni civilistiche imperative e inderogabili di cui all’art. 2423, c.c. preso atto, peraltro, di una giurisprudenza e di una prassi amministrativa in parte favorevoli. In questo senso, i tratti a carattere probatorio che può assumere la relazione di revisione e giudizio al bilancio senza rilievi, conforterebbe nella conclusione, ponendosi come ulteriore eccezione all’accertamento fiscale
PAROLE CHIAVE: - relazione - bilancio - nullità
di Paolo Mandarino
Diversamente, per le ordinanze de quibus, la conclusione di merito è da disattendere perché gli amministratori della società, cui spetta redigere il bilancio, non si qualificano come pubblici ufficiali, così dovendo escludere detto documento quale atto che ex art. 2700, c.c., fa piena prova sino a querela di falso. Altrettanto, secondo la ratio della S.C., “l'art. 2379 c.c., consente a chiunque vi abbia interesse di impugnare la delibera di approvazione del bilancio, entro tre anni dalla sua iscrizione, per ottenerne l'annullamento, chiedendo al giudice di valutare se l'atto sia stato o meno redatto in conformità dei principi inderogabili di verità e chiarezza previsti dalla legge, senza alcuna necessità di esperire contestualmente querela incidentale di falso (nè, tantomeno - non vigendo nel nostro sistema un principio di necessaria pregiudizialità dell'azione penale - di attendere l'esito dell'eventuale processo promosso a carico degli amministratori per il reato di false comunicazioni sociali). Ciò vale anche per l'azione, di mero accertamento, nella quale non si controverte della validità della delibera di approvazione ma solo della veridicità delle risultanze del bilancio, che non è soggetta al termine triennale di decadenza e che può essere proposta anche incidentalmente ed - a seconda degli strumenti processuali posti a disposizione delle parti dall'ordinamento - in via diretta dall'interessato o (come nel caso di specie, in cui spetta al contribuente di impugnare l'avviso notificatogli dall'amministrazione finanziaria) ad istanza del controinteressato”.
Dal processo in riassunzione infatti è evincibile come, oggetto della controversia, risultava un complesso immobiliare di “grande valore”, da “vendersi in blocco”, con trattative che “richiedevano evidentemente tempi lunghi”, e che erano “provati dalla stessa GDF dei contatti per la vendita dello stesso, che è provata una attività progressiva di liberazione dell’immobile dalle locazioni, evidentemente in funzione della vendita. Che quindi non ricorrono elementi per far ritenere provata la non operatività della Società”; dalla ricostruzione è altrettanto evincibile come tutto ciò risultasse dalla Relazione al bilancio. Dal canto suo, l’Agenzia delle entrate non avrebbe menzionato nell’accertamento quale preciso principio contabile domestico aveva legittimato la suddetta riqualificazione contabile.
Se questa è la ricostruzione dei fatti, non si comprende come la S.C., anche in base al principio contabile vigente ratione temporis (cfr. Principio contabile n. 16, CNDCeR e vieppiù l’attuale OIC 16), abbia potuto confermare l’accertamento fiscale dell’Ufficio, in assenza di ragioni gravi, precise e concordanti, o della simulazione che l’organo amministrativo avrebbe adottato per eludere il regime delle società non operative: riqualificazione contabile sulla quale la giurisprudenza di merito, successivamente intervenuta in casi analoghi, non si è plasmata (cfr. Comm. Trib. Prov. Reggio Emilia, n. 220/2/2019).
Se ciò riguarda il merito della vicenda, il salto interpretativo che permette alla Cassazione di concludere che “per l’azione, di mero accertamento […] non si controverte della validità della delibera di approvazione ma solo della veridicità delle risultanze del bilancio, che non è soggetta al termine triennale di decadenza e che può essere proposta anche incidentalmente […]” non è altrettanto di facile comprensione. La Cassazione infatti: i) inizialmente conferma che l’impugnativa ex art. 2379, c.c., “consentita a chiunque vi abbia interesse”, è azione necessaria affinché il giudice ordinario possa “valutare se l'atto sia stato o meno redatto in conformità dei principi inderogabili di verità e chiarezza previsti dalla legge”; ii) immediatamente poi attribuisce al giudice tributario la qualifica e competenza a decidere della correttezza contabile delle “poste” in relazione ai conseguenti effetti fiscali.
Sono infatti evidenti gli effetti di un simile ragionamento: e ciò a maggior ragione ove l’organo amministrativo avesse tenuto fede ai principi contabili domestici o internazionali ai fini della rappresentazione dei fatti amministrativi di gestione, ovvero, lo stesso, fosse ricorso all’alternativa contabile consentita dallo Standard, o all’analogia prevista dall’OIC 11, o, ancora, le tecniche adottate, in fattispecie non trattate dai Principi, fossero confermate da una relazione di revisione e giudizio sul bilancio senza rilievi (cfr. oltre per un’ampia dissertazione).
Infatti, gli Standard domestici sono relegati a illustri regole tecniche, recettive indirettamente di riconoscimento giuridico e in ogni caso subordinate alle leggi e regolamenti (cfr. Tomasin, I principi contabili: natura ed importanza, Riv. dott. comm., 1982) in quanto ad essi “integrative” o “interpretative” (in tema cfr. Scognamiglio, La ricezione dei principi contabili internazionali Ias/Ifrs ed il sistema delle fonti del diritto contabile, AA.VV., Ias/Ifrs, La modernizzazione del diritto contabile in Italia, Milano, 2007, 35; Fortunato, Gli obiettivi informativi del “nuovo” bilancio d’esercizio, Giur. comm., 2017, 517; Massone, I nuovi principi contabili o.i.c. e la loro valenza giuridica alla luce del principio di derivazione rafforzata, Dir. Prat. Trib., n. 3/2020, 936 ss.). Quindi, se detti principi sono qualificabili quali norme tecniche di dettaglio, esplicative della disciplina civilistica in materia di bilancio (che la Cassazione SS.UU. Penali, 27 maggio 2016, n. 22474 è perfino giunta ad annoverare tra le “scienze a ridotto margine di opinabilità”, altrettanto assumendo che in materia di bilanci le “valutazioni non sono libere, ma vincolate normativamente e/o tecnicamente”; ultra, Trib. Napoli, sent. 29 giugno 2018; Trib. Prato, sent. 14 settembre 2012), il vaglio circa la loro corretta applicazione, in ipotesi di sindacabilità, non potrebbe che essere rimessa alla giustizia ordinaria, organo competente alle vicende inerenti il bilancio e la sua approvazione (cfr. Mandarino, Natura e valenza probatoria della relazione di revisione nei confronti del Fisco, Bilancio e Revisione, n. 8-9/2021, 58. Ultra, cfr. Damiani, Sindacato del fisco sul bilancio e derivazione rafforzata: criticità ed incertezze, Corr. Trib., n. 2/2019; G. Verna, S. Verna, Le iscrizioni dei beni tra le immobilizzazioni o nel capitale circolante al fine del test di operatività previsto per le società di comodo, Boll. Trib., n. 3/2020, 245).
In effetti, che si verta - come sostiene la Cassazione nelle ord. nn. 20122 e 21106 del 2018 - “solo della veridicità delle risultanze di bilancio” e non della “validità della delibera di approvazione” è un esercizio di stile, ed approssimativo, che non convince. Le norme civilistiche dirette a garantire la veridicità, chiarezza e correttezza del bilancio di esercizio - cfr. art. 2423, c. 2, c.c. - sono disposizioni inderogabili e imperative la cui violazione determina una reazione dell’ordinamento a prescindere dalla condotta delle parti, rendendo illecita, e quindi nulla, la delibera di approvazione. L’interesse protetto dalla legge, alla corretta redazione del bilancio, è un interesse pubblico generale e del mercato in genere. Si verte, nel caso, in fattispecie di diritti indisponibili (cfr. Cass. 23 febbraio 2005, n. 3772; Cass. 13 ottobre 2016, n. 20674; Trib. Roma, 18 marzo 2019, n. 5831; Trib. Bologna, 14 febbraio 2018, n. 489) volti alla tutela, oltre che dell'interesse dei singoli soci ad essere informati dell'andamento della gestione societaria al termine di ogni esercizio, dell'affidamento di tutti i soggetti che con la società entrano in rapporto i quali hanno diritto a conoscere l'effettiva situazione patrimoniale e finanziaria della società (in tema di violazione dei principi di verità, chiarezza e correttezza, cfr. Cass. SS.UU. n. 27/2000 cit. e Cass. 8 settembre 1999 n. 9524; per la violazione dei principi di chiarezza, verità e precisione tali da determinare l’impossibilità di conoscere la reale situazione della società, cfr. Cass. 8 agosto 1997, n. 7398 e Cass. 28 aprile 1997, n. 3652; per l’attribuzione di valori irragionevoli agli elementi di bilancio, cfr. Cass. 18 marzo 1986 n. 1839 e Cass. 29 marzo 1979 n. 1813).
Un bilancio redatto in violazione dell’art. 2423, c. 2, c.c. è quindi da ritenersi nullo ex art. 2379 c.c. poiché illecito e, di conseguenza, è illecita la delibera assembleare che lo ha approvato (cfr. Mandarino, Natura e valenza probatoria della relazione di revisione, cit.).
Del resto, l’art. 2379, c. 1, c.c. non è ostativo ad un’azione promovibile dall’Amministrazione finanziaria visto che in casi di vizi contenutistici di bilancio la deliberazione può essere impugnata “da chiunque vi abbia interesse” (sul principio dell’interesse ad agire, cfr. Ghirga, La meritevolezza della tutela richiesta, Milano, 2004, passim; Carpi, Taruffo, Commentario breve al c.p.c., Milano, 2018, sub art. 100, 392). E non vi è dubbio che, a nostro avviso, l’Amministrazione finanziaria, per la funzione lei conferita dall’ordinamento, abbia un interesse ad agire a fronte di un pregiudizio concreto ed attuale nella prospettiva dell’art. 100, c.p.c., a causa del difetto di chiarezza, veridicità e correttezza di una o più voci contenute nel bilancio che influiscano sulla riscossione.
L’attribuzione delle competenze al giudice ordinario risulterebbe quindi in linea con l’intento legislativo di attribuire sempre più valenza alle risultanze contabili, come del resto il principio di derivazione rafforzata ex art. 83 del T.U.I.R. sottende (per interessanti approfondimenti sulla “posizione ibrida” della tutela giurisdizionale tributaria rispetto alla giustizia civile cfr. Vignoli, La giurisdizione nella funzione tributaria, Cedam, 2020) non mancando fattispecie, a nostro avviso, di evidenza palmare: si pensi ad esempio ai casi in cui gli Standard domestici o internazionali consentissero esplicitamente soluzioni alternative implicanti effetti tributari differenti ovvero, in assenza di regolamentazione contabile, l’organo amministrativo ricorresse all’analogia ai sensi dell’OIC 11: in questo senso, peraltro, la scelta dell’opzione più conveniente da parte del redattore del bilancio non potrebbe essere opposta dal Fisco (sul punto cfr. anche Zizzo, La fiscalità dei soggetti IAS/IFRS, Convegno Paradigma, 25-26 maggio 2021, sebbene con ulteriori ed incisive riflessioni).
Se confermate siffatte conclusioni, esse consentirebbero all’Amministrazione di intervenire, indagando e contestando il fatto “oggetto” di contabilizzazione, ben potendo accadere che un principio contabile sia adottato dalla società in base ad un fatto amministrativo che tuttavia, successivamente, si riveli male interpretato. Così, le verifiche fiscali non toccherebbero le modalità di rappresentazione contabile dei fatti di gestione, o quelle di rilevazione in bilancio, ovvero, ancora, le valutazioni operate dalla società, diversamente dovendo riguardare gli aspetti “materiali” del fatto interpretato contabilmente (per la casistica, cfr. Circ. Guardia di Finanza, n. 1, 29 gennaio 2008, Vol. III, 100. In dottrina, cfr. Quattrocchio, Omegna, La ‘rilevanza’ nella valutazioni di bilancio, Dir. Econ. Impresa, n. 4/2016, 230). Sul punto, si badi, già la dottrina tributaria proponeva come soluzione una limitazione al sindacato dell’Amministrazione finanziaria il cui potere di intervento poteva circoscriversi esclusivamente alle valutazioni di bilancio “prive di qualsiasi base civilistica, utilizzando le categorie concettuali della palese irragionevolezza e del vizio in senso tecnico” (cfr. Lupi, Reddito fiscale e bilancio civilistico: a sorpresa tornano gli inquinamenti, Corr.Trib., n. 40/2007, 3233. L’A. rilevava tuttavia limiti ad una simile soluzione, che “oltre a lasciare spazi per residue incertezze e controversie, sarebbe però guardata con diffidenza dalle autorità fiscali“. Ultra, Damiani, Principi contabili internazionali e reddito d’impresa. Le novità della Finanziaria 2008, Dial. Trib., n. 1/2008, 53 ss.).
La stessa prassi della Guardia di Finanza è conscia del problema: nella Circolare n. 1/2008 (Vol. III, Parte V, 100) la GdF - sebbene in ultimo si appiattisca alle precipue disposizioni fiscali che permetterebbero il sindacato sulle scelte contabili (cfr. nel prosieguo) - anticipa come l’attività di verifica fiscale nei riguardi di soggetti tenuti alla redazione del bilancio è connotato da “un profilo di problematicità” consistente “nello stabilire se ed in che termini ai verificatori sia consentito estendere l’attività ispettiva “a monte” delle predette variazioni, in aumento o in diminuzione […] sottoponendo a controllo ed eventualmente sindacando le modalità di contabilizzazione, classificazione e valutazione adottate dall’impresa ai fini civilistici”.
Tuttavia è dimostrato come le fattispecie contestate dal Fisco non sono limitate giungendo l’Amministrazione a sindacare non solo le appostazioni in bilancio conseguenti all’applicazione di principi contabili che per la loro chiarezza non necessiterebbero di interpretazione ma, vieppiù, il ricorso all’analogia ai sensi dell’OIC 11, o la contabilizzazione di fatti non specificatamente disciplinati dagli Standards. In questo senso il Fisco è solito opporre in fase di accertamento non solo precise norme tributarie (in particolare, l’art. 39, c. 1, lett. d) e c. 2, lett. d), D.P.R. n. 600/1973; l’art. 1, c. 34, L. n. 244/2007; l’art. 10-bis, L. 212/2000 in tema di abuso) (in dottrina, cfr. Lupi, L’Irap tra giustificazioni costituzionali e problemi applicativi, Rass. Trib., n. 6/1997, 1407; Valacca, Vocca, La base imponibile Irap tra disciplina fiscale e classificazioni di bilancio, Corr. Trib., n. 41/1997, 2993; Contrino, Rapporti “bilancio/dichiarazione” e poteri di accertamento dell’Amministrazione finanziaria, Corr. Trib. n. 2/2015, 91 ss.) ma persino la stessa norma civilistica imperativa ex art. 2423, commi 2 e 3, c.c. in tema di chiarezza, verità e correttezza del bilancio.
Ebbene, nel caso di contestazione nell’applicazione o interpretazione dei Principi contabili, anche il rinvio dell’Amministrazione finanziaria alle citate norme non potrebbe andare esente da critiche. Infatti, ai sensi dell’art. 39, c. 1, lett. d), cit., la “falsità” dei dati indicati in dichiarazione si distingue dalla fattispecie dell’“inesattezza”, per la volontà del soggetto di alterare il contenuto della dichiarazione al fine di fornire una rappresentazione non veritiera della propria attività. Altrettanto, il concetto di ”inesattezza” dei dati, riposa sulla non conformità di quanto rappresentato nella dichiarazione dei redditi con i dati risultanti dalle scritture contabili e dalla documentazione fiscale obbligatoria. Relativamente poi al comma 2, lett. d), cit., la disposizione si spinge fino a consentire all’Ufficio, persino in assenza di “presunzioni gravi, precise e concordanti”, di “prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e dalle scritture contabili” ove “le omissioni e le false o inesatte indicazioni accertate […] o le irregolarità formali delle scritture contabili sono così gravi, numerose e ripetute da rendere inattendibili nel loro complesso le scritture stesse per mancanza delle garanzie proprie di una contabilità sistematica”). Ora, non vi è dubbio come tutto ciò mal si risolva in presenza di una relazione di revisione e giudizio sul bilancio senza rilievi (e senza contestazioni del collegio sindacale, n.d.a.), così che, in questi casi, l’impugnazione della delibera del bilancio da parte del Fisco, con ricorso alla giustizia ordinaria, non apparirebbe un mero ed infondato “vezzo” dottrinale, a maggior ragione dovendosi convenire nei casi di accertamento in cui la norma violata reclamata dall’Amministrazione finanziaria risultasse l’art. 2423, commi 2 e 3, c.c. in tema di chiarezza, verità e correttezza del bilancio.
Ora, prendiamo atto dell’ampio filone giurisprudenziale secondo cui sarebbe sempre permesso all’Amministrazione sindacare le scelte di bilancio operate dall’organo amministrativo (cfr. tra le altre, Cass. 20 novembre 2013, n. 25969; Cass. 18 dicembre 2014, n. 26824; Cass. 24 giugno 2021, n. 18119. In dottrina, cfr. Manzoni, Potere di accertamento e tutela del contribuente nelle imposte dirette e nell'Iva, Giuffrè, 1994, 4; Menti, Le scritture contabili nel sistema dell'imposizione sui redditi, Cedam, 1997, 192; Consiglio Nazionale Ragionieri, Ufficio Studi, Falso in bilancio e frode fiscale, Il Fisco n. 47/1998, 15304, con riferimenti in nota). Tuttavia la lettura delle conclusioni cui giungono le plurime sentenze di legittimità poco contribuiscono ad una ricostruzione civilistico-fiscale dell’argomento, mentre un costrutto è rinvenibile nelle ordinanze nn. 21106 e 20122 del 2018 su cui tuttavia già si sono poste forti perplessità.
In effetti non mancano conclusioni opposte secondo cui, premesso che l’Amministrazione finanziaria deve attenersi ai dati di bilancio della società, salvo che questi risultino invalidati a seguito di una pronuncia dell’autorità giudiziaria ordinaria ai sensi dell’art. 2379, c.c. (circa l’”oggetto” della domanda giudiziale finalizzata all’”impugnazione della delibera di bilancio”, cfr. Chiappetta, Assemblea, in Commentario Riforma delle Società, dir. da Marchetti, Bianchi, Ghezzi, Notari, Egea, 2008, 306, con ampi riferimenti dottrinali; ultra Bonfante, Le irregolarità di bilancio: profili civilistici di materia sostanziale e processuale, Il nuovo diritto delle società, Giappichelli, n. 2/2016, 18), ove il bilancio sia redatto secondo i precipui criteri del Codice Civile, il Fisco non può modificare le registrazioni contabili riqualificando una posta diversamente da quanto assunto dalla società (cfr. l’ampia giurisprudenza menzionata in apertura del presente contributo e la prassi amministrativa cit.).
Pertanto, nei casi in cui gli Standard nazionali o internazionali consentissero soluzioni alternative implicanti effetti tributari differenti, ovvero laddove la società avesse fatto ricorso all’analogia prevista dallo Standard OIC 11 o, ancora, nei casi in cui i Principi contabili non disciplinassero fattispecie peculiari, il bilancio, in quanto tale, rappresenterebbe la società in tutti i suoi aspetti economici e patrimoniali tanto da ritenersi l’unico documento responsabilmente redatto dagli amministratori quale specchio dell’effettiva situazione aziendale. Dal che, per modificarne il contenuto o conclamare che parte di esso non è veritiero, non sarebbe sufficiente “dichiararlo”, essendo, a nostro parere, necessaria un’azione giudiziaria ordinaria - sede competente al vaglio civilistico-contabile - per confermarne la falsità parziale o totale.
Tale orientamento di prassi, sfumato in altre circostanze (tuttavia senza motivazioni, cfr. C.M. n. 137/1997; C.M. n. 7/E/2011; in giur. cfr. Cass. 18 dicembre 2014, n. 26824 e 20 novembre 2013, n. 25969), non è mai stato esplicitamente sconfessato dall’Agenzia delle entrate, potendosi argomentare che:
Tutto quanto sopra ricostruito e argomentato, porterebbe ad una conclusione da tempo auspicata: cioè l’incompetenza del giudice tributario a decidere di questioni di bilancio e di interpretazione dei precipui Principi contabili, che rivestono inequivocabilmente un’impronta civilistica, a maggior ragione scongiurando un loro apprezzamento (malauguratamente) basato (come recitano le ordinanze n. 20122 e 21106/2018, cit.) “sulla scorta delle risultanze di causa”. Sull’esatto tema qui in discussione, del resto, non vi è chi non ha osservato come le ordinanze nn. 21106 e 20122 del 2018 non affrontano il problema della giurisdizione, né il difetto di competenza per materia del giudice tributario, ulteriormente apparendo “insormontabile” l’art. 25 Cost., secondo cui nessuno può essere distolto dal suo giudice naturale e, pertanto, nemmeno la società cui si contesti la veridicità delle risultanze del bilancio (cfr. G. Verna, S. Verna, Le iscrizioni dei beni tra le immobilizzazioni, cit., 247).
Insomma, per quanto sopra chiarito, appare chiara l’estrema “sensibilità” del tema, sollecitando l’interprete nell’ermeneutica e possiamo solo osservare come il tema paia probabilmente perdere di incisività, ma certamente non di interesse, alla luce dei termini utili per l’impugnazione della delibera di approvazione del bilancio (cfr. art. 2379, c. 1, c.c.) e dell’impossibilità di proporre azione dopo che è avvenuta l’approvazione (del bilancio) per l’esercizio successivo (cfr. art. 2434-bis, c.c.; in giur. cfr. Trib. Milano, 27 luglio 2017, n. 8408. In dottrina, cfr. Lubrano di Scorpaniello, Nota a Corte App. Napoli, 1° marzo 2016, Riv. Dir. Impr., 2018, 705; Di Sarli, Nota a Trib. Milano, 12 settembre 2019, Giur. It., 2020, 612).
La questione è più percepibile ove, nell’accertamento fiscale, la società opponesse la valenza della certificazione di bilancio nella quale (spesso) è affermato, con riferimento a precisi fatti di gestione, che essi “sono esattamente rilevati nelle scritture predette, secondo corretti principi” (per un caso cfr. Cassazione 8 giugno 2007, n. 13491).
Tralasciando le disquisizioni dottrinali che hanno indagato la natura della relazione di revisione al bilancio come “fatto” o “atto” giuridico, propendendo, il filone maggioritario, in quest’ultimo senso, la relazione, quale documento di valutazione dell’appropriatezza dei principi contabili utilizzati e della “ragionevolezza” delle stime contabili effettuate dall’organo amministrativo (cfr. ISA Italia 700), appare estranea agli “atti negoziali” e alle “dichiarazioni di scienza”, assurgendo a mere “dichiarazioni di giudizio” (per approfondimenti cfr. Bussoletti, Le società di revisione, Giuffrè, 1985, 63; Caratozzolo, Bilancio d’esercizio, Giuffré, 2006, 1233; Fortunato, La certificazione di bilancio, Jovene, 1985, 284; Clarizia, L’attività di revisione e certificazione: aspetti giuridici, Longanesi, 1978, 78). Scopo della relazione di revisione non è infatti la diretta ricostruzione della situazione economico e patrimoniale della società, ma solo una ragionevole sicurezza della conformità ai canoni di regolarità tecnica e legale della rappresentazione formulata dagli amministratori. Non a caso per “ragionevole sicurezza” si intende un livello elevato della stessa “che, tuttavia, non fornisce la garanzia” che la revisione contabile, sebbene condotta con diligenza, individui sempre un errore significativo, qualora esistente (cfr. le osservazioni dell’ISA Italia 700). E’ quindi evidente che la relazione di revisione, quale dichiarazione di giudizio, non è assimilabile alla certificazione legale vincolante per i terzi, assumendo tuttavia natura di “informazioni qualificate” (cfr. Benedetti, Certezza pubblica e “certezze” private. Poteri pubblici e certificazioni di mercato, Giuffré, 2011, 69).
Del resto, da tempo le dissertazioni di attenta dottrina (cfr. Ficari, Certificazione del bilancio Ias, rilevanza probatoria, responsabilità del revisore contabile e sanzioni amministrative, Rass. Trib., n. 4/2010, 1090 ss.) convincono che il procedimento di revisione non ha natura meramente certificativa e di semplice constatazione, coinvolgendo i profili sostanziali della rappresentazione dei fatti di gestione nel bilancio, con indubbi effetti anche nei confronti dell’Erario. Sotto questo profilo, la dottrina, partendo dalle disposizioni ex artt. 11, c. 2 e 6, c. 1, D.Lgs. n. 472/1997, quali precise scelte legislative (cfr. l’analisi critica di Ficari vieppiù in merito agli artt. 5, 9 e 10 del medesimo decreto), induce a meditare in ordine all’affidamento che la società ha riposto in una relazione di revisione senza rilievi o riserve di sorta.
Per quanto esposto, la responsabilità civilistica attribuita ai revisori, come congeniata dall’art. 15 del D.Lgs. n. 39/2010, non può, a nostro avviso, non porsi in correlazione con gli stessi artt. 11, c. 2 e 6, c. 1 del decreto 472/1997, poco influendo le modifiche che il legislatore ha apportato all’art. 9, c. 5 del D.Lgs. n. 471/1997. Altrettanto, alla luce dei commi 1 e 2 del medesimo art. 15, la responsabilità dei revisori, in solido con gli amministratori, per inadempimento ai loro doveri, anche nei confronti “dei terzi”, potrebbe indurre ad un’applicazione analogica dell’art. 2394, c.c. con conseguente azione dell’Amministrazione di fronte all’autorità giudiziaria ordinaria.
La sentenza n. 5926/2009 costituisce una pietra miliare seguita nel tempo per la sua chiarezza espositiva (cfr. Cass. n. 26 febbraio 2010, n. 4737; Cass. 26 giugno 2015, n. 13252; Cass. 18 maggio 2018, n. 12285; Cass. 30 ottobre 2019, n. 27793. Per la giurisprudenza di merito, cfr. Comm. Trib. Reg. Lombardia, n. 4813/16/2018; Comm. Trib. Prov. Milano n. 4915/22/2017; Comm. Trib. Prov. Milano, n. 1269/7/2017; Comm. Trib. Prov. Lecco, n. 100/3/2013; Comm. Trib. Prov. Milano, n. 322/41/2011) e, pertanto, ogni volta che la relazione di revisione sia resa disponibile all’A.F. e al giudice tributario “le autorità devono tenerla in conto, non di presunzione iuris tantum della veridicità delle scritture, perchè manca una norma legislativa che le attribuisca tale forza, ma di documento incorporante enunciati sui quali sia l'ufficio tributario sia il giudice tributario si devono pronunciare e che possono essere privati della loro forza dimostrativa dei fatti attestati solo mediante la prova contraria a carico dell'ufficio” (cfr. Cass. n. 5926/2009 e n. 4737/2010, cit.).
La conclusione è che, anche in considerazione dei profili di controllo pubblicistico e delle responsabilità penali e civili dei revisori (cfr. tra le altre, Trib. Milano, Sez. I Penale, 14 gennaio 2020; Cass. 17 aprile 2015, n. 7919), la relazione di revisione è connotata da una valenza fiscale con carattere di presunzione semplice, ed i requisiti che la contraddistinguono, anche se non consentono di conferire una veridicità tout court al bilancio, rendono “forte e affidabile l'istituto della revisione, e particolarmente qualificate le sue attestazioni, che, attingendo al regime giuridico delle prove decisive, non possono essere disattese dall'Amministrazione Finanziaria o dal giudice, se non sono contrastate da prove di eguale portata” (cfr. Cass. 18 marzo 2009, n. 6532; ultra Cass. n. 27793/2019 cit.).