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Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

10/12/2021 - Accertamenti fiscali tra nullità del bilancio e valenza della relazione di revisione.

argomento: IRES - Legislazione e prassi

Il potere di rettifica “contabile” da parte dell’Amministrazione finanziaria, in assenza della preventiva dichiarazione di nullità del bilancio da parte dell’autorità giudiziaria ordinaria, è un tema che dovrebbe essere indagato e risolto alla luce delle disposizioni civilistiche imperative e inderogabili di cui all’art. 2423, c.c. preso atto, peraltro, di una giurisprudenza e di una prassi amministrativa in parte favorevoli. In questo senso, i tratti a carattere probatorio che può assumere la relazione di revisione e giudizio al bilancio senza rilievi, conforterebbe nella conclusione, ponendosi come ulteriore eccezione all’accertamento fiscale

PAROLE CHIAVE: - relazione - bilancio - nullità


di Paolo Mandarino

  1. Non mancano casi in cui il potere di rettifica “contabile” da parte dell’Amministrazione finanziaria, in assenza della preventiva dichiarazione di nullità del bilancio da parte dell’autorità giudiziaria ordinaria ex art. 2379, c. 1, c.c., dovrebbero essere indagati e risolti alla luce delle disposizioni civilistiche imperative e inderogabili di cui all’art. 2423, c. 2, Codice Civile, secondo cui il bilancio deve essere redatto con “chiarezza” e rappresentare in modo “veritiero” e “corretto” la situazione patrimoniale e finanziaria della società oltre che il risultato economico dell’esercizio. Ciò, vieppiù preso atto di una giurisprudenza ed una prassi amministrativa la cui lettura congiunta ne rafforzerebbe l’idea (cfr., tra le altre, Comm. Trib. Prov. Brescia, n. 190/5/2018; Comm. Trib. Reg. Lombardia, n. 797/23/2020; Comm. Trib. Prov. Reggio Emilia, n. 220/2/2019; Comm. Trib. Prov. Milano, n. 4235/9/2017; Comm. Trib. Prov. Milano, n. 5/3/2011; Comm. Trib. Prov. Sondrio, n. 35/1/2008; Comm. Trib. Reg. Lombardia, n. 21/24/2010; Comm. Trib. Prov. Roma, n. 4745/22/2014; Cassazione n. 22016/2014; Comm. Trib. Reg. Campania, n. 8511/5/2017. Per l’insindacabilità delle scelte contabili, a meno di un riscontro da parte dell’Amministrazione che ne conclami le finalità elusive, cfr. Comm. Trib. Reg. Lombardia, n. 4221/16/2018. Per la prassi amministrativa, cfr. Circ. n. 73/E del 27 maggio 1994; R.M. n. 240/E del 19 luglio 2002; Circ. n. 137/E del 15 maggio 1997; R.M. n. 216/E del 9 agosto 2007). In questo senso, i tratti a carattere probatorio che assumerebbe la relazione di revisione e giudizio sul bilancio, la cui disciplina è di derivazione comunitaria (cfr. art. 14, D.Lgs. 27 gennaio 2010, n. 39, modif. dal D.Lgs. 17 luglio 2016, n. 135, in attuazione della Dir. 2014/56/UE concernente la revisione legale dei conti annuali e dei conti consolidati), si porrebbero come ulteriore eccezione all’accertamento fiscale.

 

  1. Unitamente alle argomentazioni che svolgeremo, “volano” per un’indagine sul tema risultano due non recenti ordinanze della Corte di Cassazione (ord. 24 agosto 2018, n. 21106 e ord. 30 luglio 2018, n. 20122, concernenti il medesimo oggetto e soggetto accertato, sebbene per diverso settore impositivo) spesso richiamate dall’Amministrazione finanziaria negli accertamenti coinvolgenti l’interpretazione dei principi contabili, ma i cui salti logici, resi dalla S.C. in un percorso motivazionale approssimativo e discutibile, si prestano a precise dissertazioni. Sommariamente, nel caso vagliato dalla Cassazione, l’immobile di una S.r.l., destinato dall’organo amministrativo alla sua commercializzazione, e come tale allocato contabilmente nel “circolante” dello stato patrimoniale di bilancio, veniva contestato dall’Agenzia perché sottratto all’imputazione tra le “immobilizzazioni materiali”. Secondo l’accertamento, l’immobile, che risultava l’unico posseduto dalla società, e da sempre locato a terzi, non era “mai stato posto in vendita”, con la conseguenza che la sua diversa allocazione contabile aveva sottratto la S.r.l. al regime delle società di comodo. Secondo la ricostruzione processuale, il primo grado di giudizio, favorevole alla ricorrente, veniva confermato dalla Commissione tributaria regionale secondo cui, premesso che il bilancio di una società di capitali fa fede fino a querela di falso della corrispondenza al vero di quanto in esso apposto, e che ai fini della sua riclassificazione è necessaria la previa azione penale che ne accerti la falsità totale o parziale, in assenza di tale accertamento, e posto che il bilancio della S.r.l. è redatto secondo i precipui criteri civilistici, l'Ufficio non può modificare le registrazioni contabili considerando come “immobilizzazione materiale” ciò che per la società è comprovato doversi annoverare tra i beni del circolante.

Diversamente, per le ordinanze de quibus, la conclusione di merito è da disattendere perché gli amministratori della società, cui spetta redigere il bilancio, non si qualificano come pubblici ufficiali, così dovendo escludere detto documento quale atto che ex art. 2700, c.c., fa piena prova sino a querela di falso. Altrettanto, secondo la ratio della S.C., “l'art. 2379 c.c., consente a chiunque vi abbia interesse di impugnare la delibera di approvazione del bilancio, entro tre anni dalla sua iscrizione, per ottenerne l'annullamento, chiedendo al giudice di valutare se l'atto sia stato o meno redatto in conformità dei principi inderogabili di verità e chiarezza previsti dalla legge, senza alcuna necessità di esperire contestualmente querela incidentale di falso (nè, tantomeno - non vigendo nel nostro sistema un principio di necessaria pregiudizialità dell'azione penale - di attendere l'esito dell'eventuale processo promosso a carico degli amministratori per il reato di false comunicazioni sociali). Ciò vale anche per l'azione, di mero accertamento, nella quale non si controverte della validità della delibera di approvazione ma solo della veridicità delle risultanze del bilancio, che non è soggetta al termine triennale di decadenza e che può essere proposta anche incidentalmente ed - a seconda degli strumenti processuali posti a disposizione delle parti dall'ordinamento - in via diretta dall'interessato o (come nel caso di specie, in cui spetta al contribuente di impugnare l'avviso notificatogli dall'amministrazione finanziaria) ad istanza del controinteressato”.

 

  1. Segue. La lettura della sentenza dei giudici del rinvio (cfr. Comm. Trib. Reg. Lombardia, n. 4267/1/2019), conseguente all’ord. n. 20122/2018 cit., induce ad una critica del percorso argomentativo assunto dalla Cassazione, altrettanto ponendo il fianco a talune osservazioni in presenza di bilanci soggetti a revisione e certificazione senza rilievi.

Dal processo in riassunzione infatti è evincibile come, oggetto della controversia, risultava un complesso immobiliare di “grande valore”, da “vendersi in blocco”, con trattative che “richiedevano evidentemente tempi lunghi”, e che erano “provati dalla stessa GDF dei contatti per la vendita dello stesso, che è provata una attività progressiva di liberazione dell’immobile dalle locazioni, evidentemente in funzione della vendita. Che quindi non ricorrono elementi per far ritenere provata la non operatività della Società”; dalla ricostruzione è altrettanto evincibile come tutto ciò risultasse dalla Relazione al bilancio. Dal canto suo, l’Agenzia delle entrate non avrebbe menzionato nell’accertamento quale preciso principio contabile domestico aveva legittimato la suddetta riqualificazione contabile.

Se questa è la ricostruzione dei fatti, non si comprende come la S.C., anche in base al principio contabile vigente ratione temporis (cfr. Principio contabile n. 16, CNDCeR e vieppiù l’attuale OIC 16), abbia potuto confermare l’accertamento fiscale dell’Ufficio, in assenza di ragioni gravi, precise e concordanti, o della simulazione che l’organo amministrativo avrebbe adottato per eludere il regime delle società non operative: riqualificazione contabile sulla quale la giurisprudenza di merito, successivamente intervenuta in casi analoghi, non si è plasmata (cfr. Comm. Trib. Prov. Reggio Emilia, n. 220/2/2019).

Se ciò riguarda il merito della vicenda, il salto interpretativo che permette alla Cassazione di concludere che “per l’azione, di mero accertamento [] non si controverte della validità della delibera di approvazione ma solo della veridicità delle risultanze del bilancio, che non è soggetta al termine triennale di decadenza e che può essere proposta anche incidentalmente […]” non è altrettanto di facile comprensione. La Cassazione infatti: i) inizialmente conferma che l’impugnativa ex art. 2379, c.c., “consentita a chiunque vi abbia interesse”, è azione necessaria affinché il giudice ordinario possa “valutare se l'atto sia stato o meno redatto in conformità dei principi inderogabili di verità e chiarezza previsti dalla legge”; ii) immediatamente poi attribuisce al giudice tributario la qualifica e competenza a decidere della correttezza contabile delle “poste” in relazione ai conseguenti effetti fiscali.

Sono infatti evidenti gli effetti di un simile ragionamento: e ciò a maggior ragione ove l’organo amministrativo avesse tenuto fede ai principi contabili domestici o internazionali ai fini della rappresentazione dei fatti amministrativi di gestione, ovvero, lo stesso, fosse ricorso all’alternativa contabile consentita dallo Standard, o all’analogia prevista dall’OIC 11, o, ancora, le tecniche adottate, in fattispecie non trattate dai Principi, fossero confermate da una relazione di revisione e giudizio sul bilancio senza rilievi (cfr. oltre per un’ampia dissertazione).

Infatti, gli Standard domestici sono relegati a illustri regole tecniche, recettive indirettamente di riconoscimento giuridico e in ogni caso subordinate alle leggi e regolamenti (cfr. Tomasin, I principi contabili: natura ed importanza, Riv. dott. comm., 1982) in quanto ad essi “integrative” o “interpretative” (in tema cfr. Scognamiglio, La ricezione dei principi contabili internazionali Ias/Ifrs ed il sistema delle fonti del diritto contabile, AA.VV., Ias/Ifrs, La modernizzazione del diritto contabile in Italia, Milano, 2007, 35; Fortunato, Gli obiettivi informativi del “nuovo” bilancio d’esercizio, Giur. comm., 2017, 517; Massone, I nuovi principi contabili o.i.c. e la loro valenza giuridica alla luce del principio di derivazione rafforzata, Dir. Prat. Trib., n. 3/2020, 936 ss.). Quindi, se detti principi sono qualificabili quali norme tecniche di dettaglio, esplicative della disciplina civilistica in materia di bilancio (che la Cassazione SS.UU. Penali, 27 maggio 2016, n. 22474 è perfino giunta ad annoverare tra le “scienze a ridotto margine di opinabilità”, altrettanto assumendo che in materia di bilanci le “valutazioni non sono libere, ma vincolate normativamente e/o tecnicamente”; ultra, Trib. Napoli, sent. 29 giugno 2018; Trib. Prato, sent. 14 settembre 2012), il vaglio circa la loro corretta applicazione, in ipotesi di sindacabilità, non potrebbe che essere rimessa alla giustizia ordinaria, organo competente alle vicende inerenti il bilancio e la sua approvazione (cfr. Mandarino, Natura e valenza probatoria della relazione di revisione nei confronti del Fisco, Bilancio e Revisione, n. 8-9/2021, 58. Ultra, cfr. Damiani, Sindacato del fisco sul bilancio e derivazione rafforzata: criticità ed incertezze, Corr. Trib., n. 2/2019; G. Verna, S. Verna, Le iscrizioni dei beni tra le immobilizzazioni o nel capitale circolante al fine del test di operatività previsto per le società di comodo, Boll. Trib., n. 3/2020, 245).

In effetti, che si verta - come sostiene la Cassazione nelle ord. nn. 20122 e 21106 del 2018 - “solo della veridicità delle risultanze di bilancio” e non della “validità della delibera di approvazione” è un esercizio di stile, ed approssimativo, che non convince. Le norme civilistiche dirette a garantire la veridicità, chiarezza e correttezza del bilancio di esercizio - cfr. art. 2423, c. 2, c.c. - sono disposizioni inderogabili e imperative la cui violazione determina una reazione dell’ordinamento a prescindere dalla condotta delle parti, rendendo illecita, e quindi nulla, la delibera di approvazione. L’interesse protetto dalla legge, alla corretta redazione del bilancio, è un interesse pubblico generale e del mercato in genere. Si verte, nel caso, in fattispecie di diritti indisponibili (cfr. Cass. 23 febbraio 2005, n. 3772; Cass. 13 ottobre 2016, n. 20674; Trib. Roma, 18 marzo 2019, n. 5831; Trib. Bologna, 14 febbraio 2018, n. 489) volti alla tutela, oltre che dell'interesse dei singoli soci ad essere informati dell'andamento della gestione societaria al termine di ogni esercizio, dell'affidamento di tutti i soggetti che con la società entrano in rapporto i quali hanno diritto a conoscere l'effettiva situazione patrimoniale e finanziaria della società (in tema di violazione dei principi di verità, chiarezza e correttezza, cfr. Cass. SS.UU. n. 27/2000 cit. e Cass. 8 settembre 1999 n. 9524; per la violazione dei principi di chiarezza, verità e precisione tali da determinare l’impossibilità di conoscere la reale situazione della società, cfr. Cass. 8 agosto 1997, n. 7398 e Cass. 28 aprile 1997, n. 3652; per l’attribuzione di valori irragionevoli agli elementi di bilancio, cfr. Cass. 18 marzo 1986 n. 1839 e Cass. 29 marzo 1979 n. 1813).

Un bilancio redatto in violazione dell’art. 2423, c. 2, c.c. è quindi da ritenersi nullo ex art. 2379 c.c. poiché illecito e, di conseguenza, è illecita la delibera assembleare che lo ha approvato (cfr. Mandarino, Natura e valenza probatoria della relazione di revisione, cit.).

Del resto, l’art. 2379, c. 1, c.c. non è ostativo ad un’azione promovibile dall’Amministrazione finanziaria visto che in casi di vizi contenutistici di bilancio la deliberazione può essere impugnata “da chiunque vi abbia interesse” (sul principio dell’interesse ad agire, cfr. Ghirga, La meritevolezza della tutela richiesta, Milano, 2004, passim; Carpi, Taruffo, Commentario breve al c.p.c., Milano, 2018, sub art. 100, 392). E non vi è dubbio che, a nostro avviso, l’Amministrazione finanziaria, per la funzione lei conferita dall’ordinamento, abbia un interesse ad agire a fronte di un pregiudizio concreto ed attuale nella prospettiva dell’art. 100, c.p.c., a causa del difetto di chiarezza, veridicità e correttezza di una o più voci contenute nel bilancio che influiscano sulla riscossione.

 

  1. Per quanto argomentato, le motivazioni di cui alle ordinanze n. 21106/2018 e n. 20122/2018 cit. non convincono, riaprendo la tesi del potere di rettifica “contabile” da parte dell’Amministrazione previa l’impugnativa della delibera di approvazione del bilancio di fronte all’autorità giudiziaria ordinaria. Del resto, come osservato, la ragione della scelta del nesso di dipendenza del reddito di impresa da quello civilistico si sostanzia nel fatto che quest'ultimo deve plasmarsi al principio di “chiarezza” nell'esposizione dei sui dati nonché rappresentare in modo “veritiero e corretto” la situazione patrimoniale della società e il reddito conseguito (cfr. Melis, Il nuovo principio di derivazione rafforzato per i soggetti OIC adopter, Luiss Law Review, n. 1/2018, 159 ss.), e ciò, unitamente alla previsione di norme sostanziali e procedimentali poste a base dell'approvazione del bilancio ed alle regole contabili che ne presiedono la redazione, rappresenta la solida base giuridica idonea a garantire la fondatezza dei dati contabili riportati (cfr. Fantozzi, Paparella, Lezioni di diritto tributario dell'impresa, Padova, 2014, 91 ss.).

L’attribuzione delle competenze al giudice ordinario risulterebbe quindi in linea con l’intento legislativo di attribuire sempre più valenza alle risultanze contabili, come del resto il principio di derivazione rafforzata ex art. 83 del T.U.I.R. sottende (per interessanti approfondimenti sulla “posizione ibrida” della tutela giurisdizionale tributaria rispetto alla giustizia civile cfr. Vignoli, La giurisdizione nella funzione tributaria, Cedam, 2020) non mancando fattispecie, a nostro avviso, di evidenza palmare: si pensi ad esempio ai casi in cui gli Standard domestici o internazionali consentissero esplicitamente soluzioni alternative implicanti effetti tributari differenti ovvero, in assenza di regolamentazione contabile, l’organo amministrativo ricorresse all’analogia ai sensi dell’OIC 11: in questo senso, peraltro, la scelta dell’opzione più conveniente da parte del redattore del bilancio non potrebbe essere opposta dal Fisco (sul punto cfr. anche Zizzo, La fiscalità dei soggetti IAS/IFRS, Convegno Paradigma, 25-26 maggio 2021, sebbene con ulteriori ed incisive riflessioni).

Se confermate siffatte conclusioni, esse consentirebbero all’Amministrazione di intervenire, indagando e contestando il fatto “oggetto” di contabilizzazione, ben potendo accadere che un principio contabile sia adottato dalla società in base ad un fatto amministrativo che tuttavia, successivamente, si riveli male interpretato. Così, le verifiche fiscali non toccherebbero le modalità di rappresentazione contabile dei fatti di gestione, o quelle di rilevazione in bilancio, ovvero, ancora, le valutazioni operate dalla società, diversamente dovendo riguardare gli aspetti “materiali” del fatto interpretato contabilmente (per la casistica, cfr. Circ. Guardia di Finanza, n. 1, 29 gennaio 2008, Vol. III, 100. In dottrina, cfr. Quattrocchio, Omegna, La ‘rilevanza’ nella valutazioni di bilancio, Dir. Econ. Impresa, n. 4/2016, 230). Sul punto, si badi, già la dottrina tributaria proponeva come soluzione una limitazione al sindacato dell’Amministrazione finanziaria il cui potere di intervento poteva circoscriversi esclusivamente alle valutazioni di bilancio “prive di qualsiasi base civilistica, utilizzando le categorie concettuali della palese irragionevolezza e del vizio in senso tecnico” (cfr. Lupi, Reddito fiscale e bilancio civilistico: a sorpresa tornano gli inquinamenti, Corr.Trib., n. 40/2007, 3233. L’A.  rilevava tuttavia limiti ad una simile soluzione, che “oltre a lasciare spazi per residue incertezze e controversie, sarebbe però guardata con diffidenza dalle autorità fiscali“. Ultra, Damiani, Principi contabili internazionali e reddito d’impresa. Le novità della Finanziaria 2008, Dial. Trib., n. 1/2008, 53 ss.).

 

  1. Del resto, nel nostro ordinamento è assente una norma specifica o un principio a “valenza generale” che consenta all’Amministrazione finanziaria di “sindacare le valutazioni civilistiche” assunte dall’organo amministrativo nel bilancio di esercizio (in precedenza, cfr. art. 37-bis, c. 3, lett. f), D.P.R. n. 600/1973), e ciò è persino confermato dalla stessa Amministrazione nella non recente Circolare n. 73/E del 27 maggio 1994, Punto 3.13 (conforme sul tema, Ghini, Andriolo, L’analisi delle caratteristiche e delle implicazioni nella gestione d’impresa della nuova imposta regionale sulle attività produttive, Boll. Trib., n. 12/1997, 915; Porcaro, IRAP: qualificazioni di bilancio e poteri dell’Amministrazione finanziaria. Il caso dei proventi e oneri straordinari”, Rass. Trib., n. 1/1997, 96).

La stessa prassi della Guardia di Finanza è conscia del problema: nella Circolare n. 1/2008 (Vol. III, Parte V, 100) la GdF - sebbene in ultimo si appiattisca alle precipue disposizioni fiscali che permetterebbero il sindacato sulle scelte contabili (cfr. nel prosieguo) - anticipa come l’attività di verifica fiscale nei riguardi di soggetti tenuti alla redazione del  bilancio è connotato da “un profilo di problematicità” consistente “nello stabilire se ed in che termini ai verificatori sia consentito  estendere l’attività ispettiva “a monte” delle predette variazioni, in aumento o in  diminuzione […] sottoponendo a controllo ed eventualmente sindacando le modalità di contabilizzazione, classificazione e valutazione adottate dall’impresa ai fini civilistici”.

Tuttavia è dimostrato come le fattispecie contestate dal Fisco non sono limitate giungendo l’Amministrazione a sindacare non solo le appostazioni in bilancio conseguenti all’applicazione di principi contabili che per la loro chiarezza non necessiterebbero di interpretazione ma, vieppiù, il ricorso all’analogia ai sensi dell’OIC 11, o la contabilizzazione di fatti non specificatamente disciplinati dagli Standards. In questo senso il Fisco è solito opporre in fase di accertamento non solo precise norme tributarie (in particolare, l’art. 39, c. 1, lett. d) e c. 2, lett. d), D.P.R. n. 600/1973; l’art. 1, c. 34, L. n. 244/2007; l’art. 10-bis, L. 212/2000 in tema di abuso) (in dottrina, cfr. Lupi, L’Irap tra giustificazioni costituzionali e problemi applicativi, Rass. Trib., n. 6/1997, 1407; Valacca, Vocca, La base imponibile Irap tra disciplina fiscale e classificazioni di bilancio, Corr. Trib., n. 41/1997, 2993; Contrino, Rapporti “bilancio/dichiarazione” e poteri di accertamento dell’Amministrazione finanziaria, Corr. Trib. n. 2/2015, 91 ss.) ma persino la stessa norma civilistica imperativa ex art. 2423, commi 2 e 3, c.c. in tema di chiarezza, verità e correttezza del bilancio.

Ebbene, nel caso di contestazione nell’applicazione o interpretazione dei Principi contabili, anche il rinvio dell’Amministrazione finanziaria alle citate norme non potrebbe andare esente da critiche. Infatti, ai sensi dell’art. 39, c. 1, lett. d), cit., la “falsità” dei dati indicati in dichiarazione si distingue dalla fattispecie dell’“inesattezza”, per la volontà del soggetto di alterare il contenuto della dichiarazione al fine di fornire una rappresentazione non veritiera della propria attività. Altrettanto, il concetto di ”inesattezza” dei dati, riposa sulla non conformità di quanto rappresentato nella dichiarazione dei redditi con i dati risultanti dalle scritture contabili e dalla documentazione fiscale obbligatoria. Relativamente poi al comma 2, lett. d), cit., la disposizione si spinge fino a consentire all’Ufficio, persino in assenza di “presunzioni gravi, precise e concordanti”, di “prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e dalle scritture  contabili” ove “le omissioni e le false o inesatte  indicazioni  accertate  […] o le irregolarità  formali  delle  scritture contabili sono così  gravi,  numerose  e ripetute da rendere inattendibili nel  loro  complesso  le  scritture stesse per mancanza delle garanzie proprie di una  contabilità  sistematica”).  Ora, non vi è dubbio come tutto ciò mal si risolva in presenza di una relazione di revisione e giudizio sul bilancio senza rilievi (e senza contestazioni del collegio sindacale, n.d.a.), così che, in questi casi, l’impugnazione della delibera del bilancio da parte del Fisco, con ricorso alla giustizia ordinaria, non apparirebbe un mero ed infondato “vezzo” dottrinale, a maggior ragione dovendosi convenire nei casi di accertamento in cui la norma violata reclamata dall’Amministrazione finanziaria risultasse l’art. 2423, commi 2 e 3, c.c. in tema di chiarezza, verità e correttezza del bilancio.

Ora, prendiamo atto dell’ampio filone giurisprudenziale secondo cui sarebbe sempre permesso all’Amministrazione sindacare le scelte di bilancio operate dall’organo amministrativo (cfr. tra le altre, Cass. 20 novembre 2013, n. 25969; Cass. 18 dicembre 2014, n. 26824; Cass. 24 giugno 2021, n. 18119. In dottrina, cfr. Manzoni, Potere di accertamento e tutela del contribuente nelle imposte dirette e nell'Iva, Giuffrè, 1994, 4; Menti, Le scritture contabili nel sistema dell'imposizione sui redditi, Cedam,  1997, 192; Consiglio Nazionale Ragionieri, Ufficio Studi, Falso in bilancio e frode fiscale, Il Fisco n. 47/1998, 15304, con riferimenti in nota). Tuttavia la lettura delle conclusioni cui giungono le plurime sentenze di legittimità poco contribuiscono ad una ricostruzione civilistico-fiscale dell’argomento, mentre un costrutto è rinvenibile nelle ordinanze nn. 21106 e 20122 del 2018 su cui tuttavia già si sono poste forti perplessità.

In effetti non mancano conclusioni opposte secondo cui, premesso che l’Amministrazione finanziaria deve attenersi ai dati di bilancio della società, salvo che questi risultino invalidati a seguito di una pronuncia dell’autorità giudiziaria ordinaria ai sensi dell’art. 2379, c.c. (circa l’”oggetto” della domanda giudiziale finalizzata all’”impugnazione della delibera di bilancio”, cfr. Chiappetta, Assemblea, in Commentario Riforma delle Società, dir. da Marchetti, Bianchi, Ghezzi, Notari, Egea, 2008, 306, con ampi riferimenti dottrinali; ultra Bonfante, Le irregolarità di bilancio: profili civilistici di materia sostanziale e processuale, Il nuovo diritto delle società, Giappichelli, n. 2/2016, 18), ove il bilancio sia redatto secondo i precipui criteri del Codice Civile, il Fisco non può modificare le registrazioni contabili riqualificando una posta diversamente da quanto assunto dalla società (cfr. l’ampia giurisprudenza menzionata in apertura del presente contributo e la prassi amministrativa cit.).

Pertanto, nei casi in cui gli Standard nazionali o internazionali consentissero soluzioni alternative implicanti effetti tributari differenti, ovvero laddove la società avesse fatto ricorso all’analogia prevista dallo Standard OIC 11 o, ancora, nei casi in cui i Principi contabili non disciplinassero fattispecie peculiari, il bilancio, in quanto tale, rappresenterebbe la società in tutti i suoi aspetti economici e patrimoniali tanto da ritenersi l’unico documento responsabilmente redatto dagli amministratori quale specchio dell’effettiva situazione aziendale. Dal che, per modificarne il contenuto o conclamare che parte di esso non è veritiero, non sarebbe sufficiente “dichiararlo”, essendo, a nostro parere, necessaria un’azione giudiziaria ordinaria - sede competente al vaglio civilistico-contabile - per confermarne la falsità parziale o totale.

 

  1. Si badi come la citata Circolare n. 73/E del 27 maggio 1994 (cfr. Punto 3.5), chiarendo in primis che “l'Amministrazione finanziaria deve attenersi  ai dati di  bilancio,  salvo che questi risultino poi invalidati a seguito di pronuncia dell'autorità giudiziaria”, mostra ulteriormente incertezza sulla possibilità dell’Ufficio di impugnare la delibera di bilancio (cfr. “L'impugnativa della delibera di approvazione del bilancio non dovrebbe riguardare l'Amministrazione finanziaria”, altrettanto osservando che “se, successivamente all' approvazione, il bilancio viene riconosciuto falso in sede giudiziaria e dalla declaratoria del giudice emerge materia imponibile non si può escludere un'azione accertatrice di detto maggior reddito” (Punto 3.13). In ogni caso, oltre alla menzionata Circolare n. 73/E/1994, altra prassi induceva a ritenere prioritariamente valide le appostazioni contabili (cfr. R.M. n. 240/E del 19 luglio 2002; Circ. n. 137/E del 15 maggio 1997; R.M. n. 216/E del 9 agosto 2007).

Tale orientamento di prassi, sfumato in altre circostanze (tuttavia senza motivazioni, cfr. C.M. n. 137/1997; C.M. n. 7/E/2011; in giur. cfr. Cass. 18 dicembre 2014, n. 26824 e 20 novembre 2013, n. 25969), non è mai stato esplicitamente sconfessato dall’Agenzia delle entrate, potendosi argomentare che:

  1. se è vero, come sostiene la Cassazione ( Cass. n. 20122/2018 e n. 21106/2018, cit.) che “gli amministratori della società non rivestono la qualità di pubblici ufficiali e tanto basta ad escludere che il bilancio sia annoverabile fra gli atti che, ai sensi dell’art. 2700, c.c., fanno piena prova, sino a querela di falso, della corrispondenza al vero delle attestazioni che vi sono contenute”;
  2. ii) è altrettanto sostenibile che, diversamente da quanto conclude un certo filone giurisprudenziale, la rettifica da parte del Fisco delle poste di bilancio, ricorrendo a Principi contabili diversi da quelli applicati dall’organo amministrativo, o disconoscendo le alternative ammesse dagli stessi Standard, richiederebbe l’impugnazione della delibera di bilancio di fronte all’autorità giudiziaria ordinaria, in ossequio alle disposizioni imperative e inderogabili di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 2423, c.c.

Tutto quanto sopra ricostruito e argomentato, porterebbe ad una conclusione da tempo auspicata: cioè l’incompetenza del giudice tributario a decidere di questioni di bilancio e di interpretazione dei precipui Principi contabili, che rivestono inequivocabilmente un’impronta civilistica, a maggior ragione scongiurando un loro apprezzamento (malauguratamente) basato (come recitano le ordinanze n. 20122 e 21106/2018, cit.) “sulla scorta delle risultanze di causa”. Sull’esatto tema qui in discussione, del resto, non vi è chi non ha osservato come le ordinanze nn. 21106 e 20122 del 2018 non affrontano il problema della giurisdizione, né il difetto di competenza per materia del giudice tributario, ulteriormente apparendo “insormontabile” l’art. 25 Cost., secondo cui nessuno può essere distolto dal suo giudice naturale e, pertanto, nemmeno la società cui si contesti la veridicità delle risultanze del bilancio (cfr. G. Verna, S. Verna, Le iscrizioni dei beni tra le immobilizzazioni, cit., 247).

Insomma, per quanto sopra chiarito, appare chiara l’estrema “sensibilità” del tema, sollecitando l’interprete nell’ermeneutica e possiamo solo osservare come il tema paia probabilmente perdere di incisività, ma certamente non di interesse, alla luce dei termini utili per l’impugnazione della delibera di approvazione del bilancio (cfr. art. 2379, c. 1, c.c.) e dell’impossibilità di proporre azione dopo che è avvenuta l’approvazione (del bilancio) per l’esercizio successivo (cfr. art. 2434-bis, c.c.; in giur. cfr. Trib. Milano, 27 luglio 2017, n. 8408. In dottrina, cfr. Lubrano di Scorpaniello, Nota a Corte App. Napoli, 1° marzo 2016, Riv. Dir. Impr., 2018, 705; Di Sarli, Nota a Trib. Milano, 12 settembre 2019, Giur. It., 2020, 612).

 

  1. Un’indagine sui poteri del Fisco di sindacare le scelte contabili operate dall’organo amministrativo, in ottemperanza agli Standard domestici e internazionali, pone il fianco all’ulteriore disamina della valenza probatoria che in fase di accertamento assume la “relazione di revisione e giudizio sul bilancio”. Tale disamina appare utile in quanto la revisione legale, la cui disciplina è di derivazione comunitaria, non può essere vanificata tout court, diversamente venendo meno quella precipua “utilità” attribuitale dalla legge. Una siffatta indagine risulterebbe vieppiù ragionevole nei casi in cui le carte di lavoro (workingpapers) del revisore, cui consegue la relazione finale, avessero considerato le soluzioni più idonee per la corretta contabilizzazione di fatti di gestione non analizzati dagli Standard domestici o internazionali (si pensi alla rappresentazione in bilancio delle cryptocurrencies), ovvero confermato il ricorso all’analogia contabile (si pensi ai patti di non concorrenza verso i lavoratori subordinati, cfr. Mandarino, Patti di non concorrenza: correlazione costi-ricavi e dubbi sul ricorso all’“analogia” prevista dall’OIC 11, Bil. e Rev., n. 12/2020, 31) o al principio substance over the form (in tema, cfr. Trivoli, Abuso del diritto in campo tributario. De iure condito, de iure condendo o cos’altro? Fondazione Telos, 2009, 322 ss.). Non è infatti inusuale che in fase di accertamento l’Amministrazione finanziaria venga in possesso o addirittura richieda le carte di lavoro ai revisori (cfr. Comm. Trib. Reg. Campania, n. 55/9/2004, con commento di Ficari, Prova dell’interposizione fittizia e rilevanza della (mancata) revisione del bilancio, in Boll. Trib., 2005, 1579).

La questione è più percepibile ove, nell’accertamento fiscale, la società opponesse la valenza della certificazione di bilancio nella quale (spesso) è affermato, con riferimento a precisi fatti di gestione, che essi “sono esattamente rilevati nelle scritture predette, secondo corretti principi” (per un caso cfr. Cassazione 8 giugno 2007, n. 13491).

Tralasciando le disquisizioni dottrinali che hanno indagato la  natura della relazione di revisione al bilancio come “fatto” o “atto” giuridico, propendendo, il filone maggioritario, in quest’ultimo senso, la relazione, quale documento di valutazione dell’appropriatezza dei principi contabili utilizzati e della “ragionevolezza” delle stime contabili effettuate dall’organo amministrativo (cfr. ISA Italia 700), appare estranea agli “atti negoziali” e alle “dichiarazioni di scienza”, assurgendo a mere “dichiarazioni di giudizio” (per approfondimenti cfr. Bussoletti, Le società di revisione, Giuffrè, 1985, 63; Caratozzolo, Bilancio d’esercizio, Giuffré, 2006, 1233; Fortunato, La certificazione di bilancio, Jovene, 1985, 284; Clarizia, L’attività di revisione e certificazione: aspetti giuridici, Longanesi, 1978, 78). Scopo della relazione di revisione non è infatti la diretta ricostruzione della situazione economico e patrimoniale della società, ma solo una ragionevole sicurezza della conformità ai canoni di regolarità tecnica e legale della rappresentazione formulata dagli amministratori. Non a caso per “ragionevole sicurezza” si intende un livello elevato della stessa “che, tuttavia, non fornisce la garanzia” che la revisione contabile, sebbene condotta con diligenza, individui sempre un errore significativo, qualora esistente (cfr. le osservazioni dell’ISA Italia 700). E’ quindi evidente che la relazione di revisione, quale dichiarazione di giudizio, non è assimilabile alla certificazione legale vincolante per i terzi, assumendo tuttavia natura di “informazioni qualificate” (cfr. Benedetti, Certezza pubblica e “certezze” private. Poteri pubblici e certificazioni di mercato, Giuffré, 2011, 69).

 

  1. Segue. Che le risultanze della revisione abbiano una loro potenziale valenza ai fini fiscali ci pare indubbio, risultando vieppiù acclarato sia dalla prassi amministrativa, che dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. oltre). Ciò può desumersi, tra le altre, dalla premura con cui la Circolare n. 1/2008 della Guardia di Finanza (cfr. Volume III), disquisendo sul “principio di derivazione” del reddito di impresa e del riscontro delle modalità di contabilizzazione, classificazione e valutazione in bilancio a fini civilistici, enfatizza il controllo degli “effetti sul piano delle responsabilità dei soggetti incaricati della funzione di controllo contabile e incaricati della sottoscrizione delle dichiarazioni”, rimarcando la rilevanza civilistica e penale (cfr., rispettivamente, art. 15, e artt. da 27 a 31, D.Lgs. n. 39/2010) dei revisori, che può condurre la GdF alla segnalazione al MEF. Parallelamente, non vi è dubbio come la riforma del sistema sanzionatorio attuata dal D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158, se da un lato ha espunto dall’art. 9, c. 5, DLgs. n. 471/1997, la responsabilità dei revisori per omissioni da cui consegua una dichiarazione (sottoscritta) infedele, dall’altro ha inasprito la sanzione per la sua mancata sottoscrizione, non debellando tuttavia i timori per eventuali altre (loro) responsabilità. Sul punto, già la R.M. n. 129/E/2005 dell’Agenzia ha ritenuto inapplicabili le sanzioni per omessa sottoscrizione della dichiarazione ove “frutto di una precisa e giustificata volontà del soggetto obbligato (come ad esempio, nei casi in cui i dati della dichiarazione non corrispondono alle risultanze delle scritture contabili)” dovendo i revisori “astenersi” dalla sottoscrizione se consapevoli di irregolarità nelle scritture contabili “a meno di svuotare di significato la firma di un soggetto deputato istituzionalmente a tutelare l’affidamento dei terzi e segnatamente dell’Amministrazione finanziaria”. Il che non esclude la valenza non meramente formale della “sottoscrizione” da parte dei revisori la cui attività “sostanziale” ai fini del raccordo con i dati fiscali è richiamata da Assirevi (cfr. Documento di ricerca n. 208, del settembre 2017) la quale, se in primis, nell’intento volto alla cautela, osservi come scopo esclusivo della sottoscrizione delle dichiarazioni da parte del revisore è quello “di identificare il soggetto che ha svolto la revisione contabile e che ha espresso un giudizio sul bilancio” essendo evidente che “in nessun modo detta sottoscrizione rappresenta l’espressione di un giudizio di merito circa la correttezza e la completezza della dichiarazione dei redditi nonché il rispetto della normativa tributaria”, conclude rimarcando l’onere dei revisori al “riscontro con le scritture contabili dei dati esposti nella dichiarazione”.

Del resto, da tempo le dissertazioni di attenta dottrina (cfr. Ficari, Certificazione del bilancio Ias, rilevanza probatoria, responsabilità del revisore contabile e sanzioni amministrative, Rass. Trib., n. 4/2010, 1090 ss.) convincono che il procedimento di revisione non ha natura meramente certificativa e di semplice constatazione, coinvolgendo i profili sostanziali della rappresentazione dei fatti di gestione nel bilancio, con indubbi effetti anche nei confronti dell’Erario. Sotto questo profilo, la dottrina, partendo dalle disposizioni ex artt. 11, c. 2 e 6, c. 1, D.Lgs. n. 472/1997, quali precise scelte legislative (cfr. l’analisi critica di Ficari vieppiù in merito agli artt. 5, 9 e 10 del medesimo decreto), induce a meditare in ordine all’affidamento che la società ha riposto in una relazione di revisione senza rilievi o riserve di sorta.

Per quanto esposto, la responsabilità civilistica attribuita ai revisori, come congeniata dall’art. 15 del D.Lgs. n. 39/2010, non può, a nostro avviso, non porsi in correlazione con gli stessi artt. 11, c. 2 e 6, c. 1 del decreto 472/1997, poco influendo le modifiche che il legislatore ha apportato all’art. 9, c. 5 del D.Lgs. n. 471/1997. Altrettanto, alla luce dei commi 1 e 2 del medesimo art. 15, la responsabilità dei revisori, in solido con gli amministratori, per inadempimento ai loro doveri, anche nei confronti “dei terzi”, potrebbe indurre ad un’applicazione analogica dell’art. 2394, c.c. con conseguente azione dell’Amministrazione di fronte all’autorità giudiziaria ordinaria.

 

  1. Ultra. Sotto altro profilo, la valenza della relazione di revisione ai fini dell’accertamento fiscale non è sconosciuta né all’Agenzia delle entrate (cfr. Circolare n. 271/E del 2007), né alla giurisprudenza di legittimità. Secondo la Cassazione 12 marzo 2009, n. 5926 (in linea con il precedente pronunciamento n. 6939/2008), sebbene la certificazione di bilancio ha rilevanza esclusivamente civilistica, non potendo limitare il potere dell’Amministrazione finanziaria (ultra, Cass. n. 13491/2007 cit .), deve riconoscersi al bilancio e alla relazione dei revisori la qualità di “mezzi di prova che non possono essere ignorati né dall’Ufficio tributario in sede amministrativa né dal giudice tributario dinanzi al quale si trasferisca l’accertamento”; secondo la S.C., infatti, i marcati profili cui è soggetto l’istituto della revisione, quali il controllo pubblicistico e la responsabilità civile e penale di chi conduce l’attività, confermano che la relazione vincola a riconoscere “a pena dell'inutilità dell'istituto, che essa costituisce una pronuncia qualificata sulla verità della contabilità e del bilancio” (cfr. Bianchi, Lupi, Damiani, Stevanato, Varesino, Quale documentazione per i costi comuni nfragruppo ovvero tra sede centrale e stabili organizzazioni? Dial. Trib., n. 3/2009, 323).

La sentenza n. 5926/2009 costituisce una pietra miliare seguita nel tempo per la sua chiarezza espositiva (cfr. Cass. n. 26 febbraio 2010, n. 4737; Cass. 26 giugno 2015, n. 13252; Cass. 18 maggio 2018, n. 12285; Cass. 30 ottobre 2019, n. 27793. Per la giurisprudenza di merito, cfr. Comm. Trib. Reg. Lombardia, n. 4813/16/2018; Comm. Trib. Prov. Milano n. 4915/22/2017; Comm. Trib. Prov. Milano, n. 1269/7/2017; Comm. Trib. Prov. Lecco, n. 100/3/2013; Comm. Trib. Prov. Milano, n. 322/41/2011) e, pertanto, ogni volta che la relazione di revisione sia resa disponibile all’A.F. e al giudice tributario “le autorità devono tenerla in conto, non di presunzione iuris tantum della veridicità delle scritture, perchè manca una norma legislativa che le attribuisca tale forza, ma di documento incorporante enunciati sui quali sia l'ufficio tributario sia il giudice tributario si devono pronunciare e che possono essere privati della loro forza dimostrativa dei fatti attestati solo mediante la prova contraria a carico dell'ufficio” (cfr. Cass. n. 5926/2009 e n. 4737/2010, cit.).

La conclusione è che, anche in considerazione dei profili di controllo pubblicistico e delle responsabilità penali e civili dei revisori (cfr. tra le altre, Trib. Milano, Sez. I Penale, 14 gennaio 2020; Cass. 17 aprile 2015, n. 7919), la relazione di revisione è connotata da una valenza fiscale con carattere di presunzione semplice, ed i requisiti che la contraddistinguono, anche se non consentono di conferire una veridicità tout court al bilancio, rendono “forte e affidabile l'istituto della revisione, e particolarmente qualificate le sue attestazioni, che, attingendo al regime giuridico delle prove decisive, non possono essere disattese dall'Amministrazione Finanziaria o dal giudice, se non sono contrastate da prove di eguale portata” (cfr. Cass. 18 marzo 2009, n. 6532; ultra Cass. n. 27793/2019 cit.).

 

  1. Conclusioni. Alla luce di quanto ricostruito, ove si aderisse alla tesi della “preventiva” competenza per materia dell’autorità giudiziaria ordinaria, ai sensi dell’art. 2379, c.c., un accertamento fiscale che coinvolgesse l’interpretazione dei principi contabili vedrebbe l’Amministrazione finanziaria vieppiù scontare la presenza di un bilancio sottoposto a revisione e giudizio - nella maggior parte dei casi “senza rilievi” e senza contestazioni del collegio sindacale - cui opporsi con prove decisive che non potranno essere fornite mediante semplici indizi, bensì attraverso la produzione di documenti idonei a dimostrare che nel suo giudizio il revisore è incorso in errore, ha realizzato un inadempimento o un illecito; “Tra i documenti utili in grado di esprimere tale forza possono annoverarsi, a titolo di esempio: “a) quelli che dimostrino il carattere omissivo del comportamento del revisore, b) quelli che, pur tributariamente rilevanti, non siano stati oggetto di valutazione da parte del revisore, perché non se ne prevedeva l'inserimento nelle procedure di revisione; c) quelli che sono stati occultati, perché idonei a provare comportamenti dolosi” (cfr. Cass. n. 5926/2009 e n. 4737/2010, cit.).