<p>Le nuove sanzioni tributarie - Lattanzi</p>
Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

13/04/2022 - La Suprema Corte fa il punto su mandato senza rappresentanza e liquidazione dell’iva di gruppo

argomento: IVA - Giurisprudenza

Nell’ambito di un gruppo, l’acquisto di servizi operato da una delle società componenti, in nome proprio, ma nell’interesse di un’altra società del gruppo, in forza di un mandato senza rappresentanza, non dà diritto alla detrazione dell’Iva per la parte corrispondente ai costi sostenuti per servizi per i quali manca un nesso diretto e immediato con l’attività economica posta in essere dalla stessa società, giacchè parte di quei costi sono stati sostenuti nell’interesse di un altro soggetto (la mandante), a nulla rilevando l’opzione per la liquidazione dell’Iva di gruppo, stante la natura procedimentale del regime, che non implica il riconoscimento di un’autonoma soggettività Iva al gruppo.

PAROLE CHIAVE: mandato - inerenza - detrazione


di Concetta Ricci

  1. La Suprema Corte con la sentenza n. 32995 del 6 luglio 2021 torna a pronunciarsi su un’operazione concernente costi infragruppo e detrazione Iva, affrontando, con una motivazione invero piuttosto stringata rispetto alla complessità della questione, ma densa di significato, temi di particolare rilevanza quali: la rilevabilità d’ufficio dell’elusione o abuso, l’Iva nelle prestazioni di mandato senza rappresentanza, il diritto di detrazione dell’Iva nelle operazioni infragruppo, la soggettività Iva del gruppo.

In particolare, il caso riguardava costi relativi ad un contratto di sponsorizzazione concluso da una società del gruppo (A), in virtù di un mandato senza rappresentanza, per conto di un’altra società (E) facente parte dello stesso gruppo. La mandataria, tuttavia, non aveva fatturato la prestazione alla mandante, né aveva provveduto a riaddebitare ad essa il costo relativo al contratto per l’acquisto dei diritti televisivi per le partite di calcio. L’Agenzia delle Entrate aveva quindi recuperato a tassazione l’Iva corrispondente alla prestazione resa dalla mandataria alla mandante, ritenuta imponibile, ai sensi dell’art. 3, comma 3, D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633.

La CTR, a cui la società ricorrente aveva fatto appello, in seguito al rigetto del ricorso in primo grado, aveva confermato la fondatezza dell’avviso di accertamento, ritenendo l’operazione riconducibile ad una fattispecie di abuso del diritto, motivazione, quest’ultima, considerata dalla Suprema Corte “estranea alla prospettazione dell’Agenzia” e per questo ultronea rispetto alla materia del contendere.

In sede di rinvio, la CTR confermava la propria decisione sulla scorta di due motivazioni: 1) l’operazione contestata, consistente nella omessa fatturazione della prestazione resa dalla mandataria alla mandante, non poteva trovare altra spiegazione se non quella di perseguire l’ottenimento di indebiti vantaggi fiscali;  2) l’opzione per la procedura di liquidazione dell’Iva di gruppo, non giustificherebbe la condotta omissiva della società aderente, la quale, “pur perdendo la disponibilità dei saldi, sia a credito, sia a debito” non può tenere una condotta tale da “alterare il proprio saldo Iva”.

Contro questa sentenza, la società ricorrente proponeva ricorso per Cassazione adducendo, quale unico motivo, la violazione e falsa applicazione dell’istituto dell’abuso del diritto.

La Suprema Corte, nel ribadire l’infondatezza dell’unico motivo di ricorso in quanto “ultroneo rispetto alla soluzione delle questioni dedotte in giudizio”, rigettava, comunque, il ricorso sulla scorta di una non corretta applicazione dei principi europei in materia di detraibilità dell’Iva assolta sugli acquisti, anche avendo riguardo alla procedura di liquidazione dell’Iva di gruppo.

  1. Prima di entrare nel merito delle questioni di diritto tributario sostanziale, pare interessante porre attenzione alla soluzione offerta dai giudici al tema, da tempo dibattuto, di natura squisitamente processuale, attinente al potere del giudice di riqualificare la fattispecie, o, più in particolare, alla rilevabilità d’ufficio dell’abuso del diritto.

Infatti, a fronte di una contestazione del Fisco motivata sulla base della non corretta applicazione dell’Iva nelle operazioni di ripartizione di costi infragruppo, i giudici di appello avevano fondato la propria decisione ricorrendo all’abuso del diritto, non richiamato né da parte ricorrente, né da parte resistente, in spregio al principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.), che obbliga il giudice a “pronunciarsi su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa” e a non “pronunciare d’ufficio su eccezioni che posso essere riproposte soltanto dalle parti”. Questo principio, di matrice processualcivilista, trova applicazione anche nel processo tributario, per cui incorre in vizio di extra o ultra petizione il giudice che fondi la propria decisione su motivi non dedotti (v., ex multis, Cass. 20 settembre 1996, n. 8387; Cass. 20 ottobre 2011, n. 21719). Il giudice tributario, per la delimitazione della materia del contendere, deve fare riferimento alla motivazione dell’atto impugnato e ai motivi dedotti nel ricorso, oltre che al petitum (su questi temi, v. per tutti, F. TESAURO, Manuale del processo tributario, Torino, 2020, 199; Id., Il processo tributario, tra modello impugnatorio e modello dichiarativo, in Rass. trib., n. 4, 2016, 1036 ss.). Secondo costante giurisprudenza di legittimità, “oggetto del processo tributario atteso il meccanismo di instaurazione di tipo impugnatorio che lo caratterizza, non è l’accertamento dell’obbligazione tributaria, da condursi attraverso una diretta ricognizione della disciplina applicabile e dei fatti rilevanti sulla base di essa, a prescindere da quanto risulti nell’atto impugnato, bensì l’accertamento della legittimità della pretesa tributaria in quanto avanzata con l’atto impugnato e alla stregua dei presupposti di fatto e in diritto in tale atto indicati” (Cass. 3 agosto 2007, n. 17119; Id. 19 marzo 2009, n. 6620; Id., 20 ottobre 2011, n. 21719).

E’ vero anche che vige il principio del iura novit curia (v. A.F. URICCHIO, Il principio “iura novit curia” nella giurisprudenza della Sezione tributaria della Corte di Cassazione, in Rass. trib., 2016, n. 4, 1051 ss.) ma nel senso che il giudice ha il potere-dovere di conoscere le norme di diritto oggettivo applicabili, senza vincoli o limitazioni scaturenti dai motivi dedotti dalle parti (v. F. TESAURO, Manuale del processo tributario, cit., 199), ma non può rilevare d’ufficio le ragioni che rendono infondata la domanda, dovendosi, per questo attenere ai presupposti di fatto e di diritto che hanno determinato la rettifica dell’Amministrazione finanziaria e su cui si è fondata la difesa del contribuente.

Nel caso sottoposto al vaglio dei giudici, la configurabilità di una fattispecie di abuso del diritto non era stata richiamata nelle motivazioni dell’atto impugnato, né nei motivi dedotti nel ricorso introduttivo, per cui, giustamente, infondato è stato considerato, dalla Suprema Corte, l’unico motivo addotto da parte resistente in sede di ricorso di legittimità, rendendosi necessaria la correzione della motivazione della sentenza impugnata.

E’ stato infatti ormai superato (con le sentenze Cass. 4 aprile 2014 n. 7961; Cass. 7 maggio 2014, n. 9810) quell’orientamento giurisprudenziale (v., ex multis, Cass. 11 maggio 2012, n. 7393; Id., 19 ottobre 2012, n. 17949; Id., 9 dicembre 2009, n. 21446) che legittimava il potere del giudice tributario di emettere sentenze nelle quali sostituiva, con il rilievo d’ufficio dell’abuso del diritto, il diverso fondamento degli avvisi di accertamento impugnati, qualificando autonomamente la fattispecie a prescindere dalle allegazioni delle parti. Secondo quest’ultimo orientamento, la Cassazione, aderendo alla tesi del processo tributario inteso come processo sul rapporto, secondo il modello dichiarativo, aveva ritenuto che nei processi tributari il giudice potesse rilevare d’ufficio l’elusione o abuso del diritto, in quanto dotato del potere di “qualificare autonomamente la fattispecie demandata alla sua cognizione, a prescindere dalle allegazioni delle parti in causa” (Così, Cass. 11 maggio 2012, n. 7393, cit.). A tale conclusione, peraltro, i giudici di legittimità giungevano sulla scorta del rango comunitario e costituzionale del principio di abuso del diritto, con la conseguente sua applicazione d’ufficio da parte del giudice tributario.

Correggendo il tiro, nella giurisprudenza successiva, la Suprema Corte giungeva alla diversa conclusione per cui il giudice tributario non può modificare l’atto impugnato, fondandolo su una norma di legge diversa da quella applicata dall’Amministrazione finanziaria (v. Cass., 4 aprile 2014, n. 7961, cit. che ha annullato una sentenza che aveva illegittimamente mutato la stessa motivazione degli avvisi di accertamento fondandoli su una diversa norma di legge; in senso analogo, v. Cass., 7 maggio 2014, n. 9810, nella quale si fa rilevare come “le ragioni poste a base dell’atto impositivo segnano i confini del processo tributario, che è comunque un giudizio di impugnazione dell’atto, si che l’Ufficio finanziario non può porre a base della propria pretesa ragioni diverse e/o modificare, nel corso del giudizio, quelle emergenti dalla motivazione dell’atto”).

Il tema è stato affrontato ex professo da autorevole dottrina (V. F. TESAURO, Abuso e processo: poteri del giudice e oneri di prova, in AA.VV., Abuso del diritto ed elusione fiscale, a cura di E. DELLA VALLE, V. FICARI, G. MARINI, Torino, 2016, 198 ss.) che contro il rilievo d’ufficio dell’abuso, ha rilevato come la natura impugnatoria del processo tributario comporta che il giudice sia chiamato a giudicare la fondatezza della domanda di annullamento, come proposta dal contribuente, con riferimento ad un determinato atto impugnato, e con riguardo ai motivi dedotti. Pertanto, “il giudice non può respingere un ricorso contro un avviso di accertamento, basandosi, ex officio sulla eccezione che la pretesa fiscale, se non è fondata sulla violazione di un obbligo di dichiarazione (evasione), è comunque fondata perché il comportamento del contribuente è elusivo” (così F. TESAURO, Abuso e processo: poteri del giudice e oneri di prova, cit., 199; Id., Il processo tributario, tra modello impugnatorio e modello dichiarativo, cit., 1036 ss.).

La questione, comunque, ormai è stata risolta definitivamente dal legislatore che, all’art. 10-bis, comma 9, dello Statuto del contribuente, ha disposto chiaramente che l’abuso non è rilevabile d’ufficio, escludendo, così qualsiasi intervento suppletivo o integrativo del giudice tributario, in linea, peraltro, con un rafforzamento del sistema delle garanzie in favore del contribuente (secondo F. PAPARELLA, Il procedimento di contestazione dell’abuso del diritto, in AA.VV., Abuso del diritto. Evoluzione del principio e contesto normativo, a cura di L. CARPENTIERI, Torino, 2018, 62, “(…) la limitazione ai poteri del giudice può considerarsi la conseguenza di riservare alla fase del contraddittorio l’individuazione e la definizione della fattispecie abusiva in contrasto con la posizione della Corte Costituzionale che ha prospettato una sorta di assimilazione tra contraddittorio endoprocedimentale e processuale”).

Va quindi riconosciuto alla Suprema Corte il merito di aver riportato la questione entro i corretti binari, trattandosi di un caso di ricorso “improprio” all’abuso del diritto da parte dei giudici e non dell’Amministrazione finanziaria, come più di sovente accade.

  1. Venendo ora alle questioni di diritto sostanziale, si pone un problema di detrazione dell’Iva nel mandato senza rappresentanza. In particolare, la Suprema Corte aveva respinto il ricorso del contribuente, ritenendo che, nella fattispecie, ricorresse un’ipotesi di duplicazione del diritto alla detrazione dell’Iva - non avendo la società mandataria emesso fattura per riaddebitare alla mandante il costo della prestazione resa - e una violazione dello stesso diritto con conseguente indebita detrazione, per l’Iva relativa alla quota parte dei servizi non inerenti alla società ricorrente.

E’ abbastanza frequente nell’ambito dei gruppi, che una società sia incaricata di procedere all’acquisizione di servizi il cui costo viene successivamente ribaltato alle altre imprese del gruppo, in funzione di diversi parametri concordati all’interno del gruppo stesso. Nella sentenza si legge che “risulta dagli atti, al riguardo, che nell’ambito del gruppo (…) tutti i costi di pubblicità dovevano gravare (…) sul bilancio della società A, sebbene fosse consentito che qualche società (…) provvedesse direttamente all’acquisto dei diritti televisivi relativi alle partite di calcio, com’è appunto accaduto nel caso in esame”.

Ai fini Iva, tale operazione è stata più volte inquadrata dall’Amministrazione finanziaria nell’ambito di un mandato senza rappresentanza ex art. 1705 c.c., e l’orientamento prevalente della prassi è stato quello di equiparare i servizi resi o ricevuti dal mandatario a quelli da lui resi al mandante, con la conseguenza che alla prestazione resa dal mandatario al mandante dovesse essere riconosciuto lo stesso trattamento fiscale di quella resa o ricevuta dal mandatario per conto del mandante (in tal senso, R.M. n. 6/E/98;  R.M. n. 146/E/99; R.M. n. 170/E/99R.M. n. 250/E/02; R.M. n. 117/E/04, tutte in Banca Dati Big IPSOA).

Nel caso di specie, la questione, tuttavia, non è quella, già risolta, appunto, della natura della prestazione resa dalla mandataria alla mandante, in conseguenza del riaddebito dei costi sostenuti, ma piuttosto, ad essere contestata è proprio la condotta omissiva della società mandataria che non avrebbe ribaltato i costi sulla mandante e quindi avrebbe beneficiato di una indebita detrazione dell’Iva, per la quota parte delle prestazioni non inerenti alla sua attività, e di una duplicazione della detrazione dello stesso tributo per la parte, viceversa, di costi di sua competenza. Secondo i giudici, infatti, la società mandataria avrebbe detratto “dapprima l’Iva (…) relativa al contratto di sponsorizzazione stipulato in nome proprio, ma per conto della mandante, (…), e poi l’Iva (…) corrispondente alla propria quota parte di tutte le operazioni pubblicitarie compiute nell’anno (….) all’interno del gruppo, comprensiva di quella relativa al contratto di sponsorizzazione già detratta”.

Si tratta, in sostanza, dell’applicazione del più generale principio che subordina la detraibilità dell’Iva all’inerenza delle operazioni all’attività d’impresa (su cui v., in generale, M. GREGGI, Il principio di inerenza nell’imposta sul valore aggiunto: profili nazionali e comunitari, Pisa, 2012, 11 ss.; M. GIORGI, Detrazione e soggettività nel sistema dell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 2005), principio di recente interpretato in maniera estensiva dalla giurisprudenza europea che ha rilevato come “il diritto alla detrazione è ammesso, anche in mancanza di un nesso diretto e immediato tra una specifica operazione a monte e una o più operazioni a valle che conferiscono un diritto alla detrazione, purchè i costi dei servizi in questione facciano parte delle spese generali del soggetto passivo e, in quanto tali siano elementi costitutivi del prezzo dei beni e dei servizi che esso fornisce. Spese di tal genere presentano, infatti, un nesso diretto e immediato con il complesso delle attività economiche del soggetto passivo” (così CGUE, 1 ottobre 2020, causa C-405/19, Vos Aannemingen BVBA, punti 37-39, richiamata dalla Suprema Corte nel caso in esame. Si tratta, tuttavia, di un filone giurisprudenziale già da tempo consolidato e su cui si rinvia a CGUE, 21 febbraio 2013, causa C-104/12; Id 06 settembre 2012, causa C-496/11).

Sulla scorta di questa giurisprudenza, i giudici di legittimità correttamente osservano che nel caso di specie, mancando un nesso diretto e immediato tra i servizi acquistati dalla società ricorrente e l’attività economica dalla stessa posta in essere, giacchè parte di quei costi sono stati sostenuti nell’interesse di un’altra società (la mandante) e  quindi “ai fini di operazioni compiute da terzi”, il diritto alla detrazione dell’Iva decade per la parte corrispondente.

in altri termini, l’inerenza all’attività della società mandataria non “copre” per intero i costi relativi ai servizi pubblicitari acquistati in nome proprio ma per conto della mandante, risultando gli stessi solo in parte funzionali alla sua attività economica, con conseguente esclusione del diritto di detrazione relativo.

Ad avvalorare tale conclusione, la Suprema Corte giunge anche sulla scorta di un parallelismo con gli orientamenti giurisprudenziali più recenti in tema di deducibilità di costi intercompany ai fini delle imposte sui redditi, ma estensibili anche ai fini Iva, precisando come l’onere della prova in ordine all’inerenza dei costi sopportati incombe sulla società che affermi di aver ricevuto il servizio, occorrendo, affinchè il corrispettivo riconosciuto alla capogruppo sia deducibile ai fini delle imposte dirette e l’Iva contestualmente assolta sia detraibile, che la controllata tragga dal servizio remunerato un’effettiva utilità e che quest’ultima sia obiettivamente determinabile e adeguatamente documentata (Cass. n. 19166/21; Id. n. 23164/2017; Id. n. 23164/2017; Id. n. 23027/2015; Id. n. 8808/2012, in Banca Dati Big, IPSOA).

Irrilevante, inoltre, ai fini di una diversa decisione sarebbe il l’adesione, da parte della società ricorrente, alla procedura di liquidazione dell’Iva di gruppo, che, secondo i giudici, non varrebbe a giustificare il comportamento omissivo tenuto dalla mandataria, giacchè si tratterebbe di una mera modalità procedimentale, “che non incide sulla soggettività fiscale di ciascuna delle società appartenenti al gruppo e, per conseguenza, neanche può incidere sul sistema dell’Iva e derogare al principio di neutralità, violato nel caso in cui si eserciti un diritto di detrazione non spettante”.  

Sul punto, tuttavia, la motivazione della sentenza appare eccessivamente stringata, giacchè la Suprema Corte non chiarisce la diversa rilevanza che assume, ai fini dell’esercizio del diritto di detrazione, l’opzione per la procedura di liquidazione dell’Iva di gruppo ex art. 73, comma 3, del D.P.R. n. 633/72, ovvero quella per il regime del “Gruppo Iva” di cui agli artt. 70-bis e ss. del D.P.R. n. 633/72.

E’ ormai pacifico, in dottrina (sia consentito rinviare a C. RICCI, Iva di gruppo: la mancanza di soggettività salva la normativa italiana dalla censura comunitaria, in Dir. prat. trib. n. 5, 2009, 989 ss.; su questo tema v. anche M. GIORGI, I limiti della normativa nazionale sull’Iva di gruppo sono compatibili con i principi comunitari; in Corr. Trib., n. 28, 2008, p. 989 ss., c M. GRANDINETTI, L’Iva di gruppo tra esigenze di armonizzazione europea e profili di diritto interno, in Rass. trib. n. 4, 2012, 928 ss.; per un’analisi comparata sul concetto di gruppo ai fini IVA v. VYNCKE, Eu Vat grouping from a comparative tax law perspective, in EC Tax Review, 2009, p. 302 ss.; ID., Vat grouping in the European Union: purposes, possibilities and limitations, in International VAT Monitory, 2007, p. 256 ss )  e in giurisprudenza (v. Cass. 26 ottobre 2020, n. 23424; Id. 19 maggio 2017, n. 12645; Id. 1 ottobre 2014, n. 20708), infatti, che l’art. 73, comma 3, del D.P.R. n. 633/1972, nel disciplinare la procedura di liquidazione dell’Iva di gruppo, non introduce una nuova figura di soggetto passivo d’imposta ma prevede un sistema semplificato di liquidazione e versamento del tributo per le società riunite da particolari vincoli partecipativi. Con l’esercizio dell’opzione di cui all’art. 73 cit., non si crea, dunque, un diverso e nuovo soggetto passivo del tributo, ma si addiviene a una compensazione dei crediti e dei debiti IVA delle singole società aderenti, che restano obbligate nei confronti dell’Amministrazione finanziaria a presentare separatamente le dichiarazioni IVA, oltre ad essere individuate, sia all’interno che all’esterno dell’area di consolidamento, come soggetti passivi autonomi.

Diverso è invece il regime del “Gruppo Iva” introdotto dalla Legge di bilancio 2017 (l. n. 232/2016) con gli artt. da 70-bis a 70-duodecies del D.P.R. n. 633/72, in attuazione del regime di matrice europea di cui all’art. 11 della Direttiva 2006/112/CE199, in cui il gruppo, viene considerato come un unico soggetto passivo Iva, autonomo e distinto rispetto alle singole società che lo compongono, le quali perdono la loro soggettività ai fini Iva e quindi anche la titolarità dei relativi diritti e obbligazioni.

Le conseguenze che ne derivano in punto di tassazione sono molto diverse: nel regime del “Gruppo Iva”, il riconoscimento di un’autonoma soggettività Iva al gruppo comporta la neutralizzazione del tributo per le operazioni effettuate tra i membri che lo costituiscono, perché poste in essere nell’ambito dello stesso soggetto, con la conseguente rilevanza delle sole operazioni effettuate con soggetti esterni, al di fuori del perimetro del gruppo (art. 70-quinquies, comma 1, D.P.R. n. 633/72); allo stesso modo, il diritto di detrazione dell’IVA a monte è determinato in base alle operazioni del gruppo con i terzi, a nulla rilevando le operazioni interne tra i membri del gruppo, poiché considerate come inesistenti.

Detti effetti, invece, non si producono nella procedura di liquidazione dell’Iva di gruppo, prevista dall’art. 73, comma 3, del D.P.R. n. 633/72, in cui, piuttosto che un sistema di tassazione unitaria del gruppo, viene previsto un sistema di liquidazione congiunta dell’IVA delle singole società componenti, ciascuna, quindi, soggetta a tutti gli obblighi e titolare dei diritti che la normativa Iva prevede per i soggetti passivi del tributo, in primis, il principio di neutralità. Quello di cui all’art. 73 cit., quindi, è un regime che non comporta affatto il superamento della soggettività tributaria delle società controllate e controllanti, che conservano la loro autonomia e indipendenza, ma si limita ad offrire un mezzo semplificato di recupero delle eccedenze di credito, mediante la compensazione fra i debiti e i crediti d’imposta emergenti dalle liquidazioni e dichiarazioni delle società legate da particolari vincoli di controllo.

Condivisibile, dunque, il rilievo dei giudici in merito all’irrilevanza dell’esercizio dell’opzione ex art. 73, comma 3, ai fini di una diversa soluzione della questione inerente la detraibilità Iva nelle operazioni infragruppo.

  1. Le conclusioni raggiunte dalla Suprema Corte paiono dunque significative sia per i profili processuali, in quanto si pongono sulla scia di quell’orientamento dottrinale e giurisprudenziale, ormai assolutamente prevalente, che esclude il potere del giudice di riqualificare la fattispecie rilevando d’ufficio l’elusione o abuso; sia per i profili attinenti al diritto di detrazione dell’Iva nelle operazioni infragruppo. Sotto quest’ultimo aspetto, la particolare fattispecie sottoposta al vaglio dei giudici di legittimità, rappresentata dal mancato riaddebito dei costi per operazioni compiute nell’interesse della società mandataria facente parte dello stesso gruppo, offre lo spunto per chiarire la portata del diritto di detrazione Iva nell’ambito delle operazioni intercompany e i riflessi sulla procedura di liquidazione dell’Iva di gruppo.