argomento: IRPEF - Giurisprudenza
La residenza fiscale, nell’imposizione sui redditi delle persone fisiche, è un criterio per differenziare la tassazione in base alla diversa intensità del legame di appartenenza del soggetto passivo alla sfera di sovranità dello Stato impositore. La interpretazione dei criteri formali e sostanziali previsti dalla legge per determinare la residenza fiscale, continua ad essere oggetto delle controversie tra fisco e contribuenti. La Corte di Cassazione riafferma il proprio orientamento in merito al valore dell’iscrizione anagrafica quale presunzione assoluta di residenza fiscale, sul quale persistono alcuni dubbi.
PAROLE CHIAVE: imposta sul reddito - persone fisiche - iscrizione anagrafica
di Andrea Buccisano
Sul tema della residenza fiscale delle persone fisiche e della risoluzione degli eventuali conflitti di residenza in base alle Convenzioni contro la doppia imposizione, si registra ancheun recente intervento di prassi, costituito dalla Risposta ad Interpello n. 25 del 4 ottobre 2018.
La questione decisa dalla S.C. riguarda un contribuente che nonostante il trasferimento all’estero ha omesso la cancellazione dall’anagrafe dei residenti e l’iscrizione all’AIRE, e che per questo motivo è stato ritenuto dall’Amministrazione finanziaria fiscalmente residente. La Commissione tributaria regionale ha annullato l’accertamento ritenendo che fosse «il risultato di deduzioni meramente presuntive, ampiamente superate dal contribuente a mezzo della pertinente documentazione prodotta agli atti, con la quale ha dimostrato, come riconosciuto anche dai primi giudici, che egli negli anni d’imposta accertati, era residente» all’estero (cfr. CTR Puglia 16 gennaio 2017, n. 64).
Con una sintetica motivazione la Corte di Cassazione accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata, ritenendo che l’iscrizione nelle anagrafi della popolazione residente costituisce presunzione assoluta di residenza fiscale, e che «essendo l’iscrizione indicata preclusiva di ogni ulteriore accertamento, il trasferimento della residenza all’Estero non rileva fino a quando non risulti la cancellazione dall’anagrafe di un Comune italiano».
Com’è noto la “residenza fiscale” è individuata in base a tre criteri alternativi: un criterio formale costituito dalla iscrizione nelle anagrafi della popolazione residente, e due criteri sostanziali costituiti dal possesso nel territorio dello Stato del domicilio o della residenza ai sensi del codice civile.
Quanto alle persone fisiche iscrittenelle anagrafi della popolazione residente l’art. 2 TUIR stabilisce che “si considerano residenti” ma non prevede esplicitamente che è salva la prova contraria, e ciò continua a dar luogo a contrastanti interpretazioni.L’orientamento giurisprudenziale più seguito la considera una presunzione assoluta di residenza fiscale, mentre risulta minoritaria, sebbene fondata su pregevoli argomentazioni giuridiche, la tesi secondo la quale la situazione di fatto deve prevalere sul dato formale.
La tesi della Cassazione, che l’iscrizione all’anagrafe è un «dato preclusivo di ogni ulteriore accertamento ai fini della individuazione del soggetto passivo d’imposta, diversamente da quanto avviene ai fini civilistici ove le risultanze anagrafiche sono invece concordemente considerate idonee unicamente a dar luogo a presunzioni relative», e che «non rileva il trasferimento di residenza all’estero fino a quando non risulti la cancellazione dall’anagrafe di un Comune italiano», si fonda sul postulato che «in materia tributaria, a differenza di quanto avviene ai fini civilistici, la forma è destinata a prevalere sulla sostanza nell’ipotesi in cui la residenza venga collegata al presupposto anagrafico» (vedi Cass. 20 aprile 2006, n. 9319, e più di recente Cass. 16 gennaio 2015, n. 677, e Cass. 28 ottobre 2015, n. 21970).
Orbene, è ragionevole ritenere l’iscrizione nell’anagrafe sufficiente a collocare la residenza fiscale del contribuente in Italia, senza che l’Amministrazione finanziaria sia tenuta ad effettuare ulteriori accertamenti, a conferma della alternatività tra gli indici formali e sostanziali di residenza fiscale fissati dal legislatore, e della autosufficienza di ognuno di essi.
Lascia perplessi, invece, il perseverare della Corte di Cassazione nell’affermare la prevalenza del criterio formale rispetto agli altri, in virtù di una presunzione assoluta di residenza fiscale.Una volta ammesso che i criteri per definirela residenza fiscale delle persone fisiche sono tra di loro “alternativi”, ciò dovrebbe indurre ad attribuire agli stessi, in mancanza di una espressa previsione legislativa, il medesimo valore probatorio, ed a consentire, in ogni caso, sia all’Amministrazione finanziaria sia al contribuente, di dimostrare che la situazione di fatto è differente da quella che appare formalmente o che viene contestata.
Quando il contribuente non risulta iscritto nella anagrafe della popolazione residente (a prescindere dal fatto che sia o meno iscritto all’AIRE), è l’Amministrazione finanziaria che ha l’onere di provare l’esistenza del domicilio o della residenza in Italia, sia nei confronti di un soggetto residente che si trasferisce all’estero, sia di soggetti che hanno radicato il centro dei propri affari e interessi ovvero la propria dimora abituale in Italia senza aver perfezionato formalmente l’iscrizione all’anagrafe.
Il cittadino iscritto all’AIRE (o comunque chi si è cancellato dalla anagrafe dei residenti) èconsiderato, fino a prova contraria, fiscalmente non residente, e di conseguenzauniforma il suo comportamento a tale status nell’adempimento agli obblighi tributari. L’Amministrazione finanziaria, però, non è vincolata dall’elemento formale (iscrizione all’AIRE o mancata iscrizione nell’anagrafe dei residenti), e può dimostrare che il contribuente è fiscalmente residente in quanto ha in Italia il domicilio o la residenza civilistica.
Nel caso opposto, quando il contribuente risulta iscritto nella anagrafe della popolazione residente ma non adempie agli obblighi dichiarativi connessi a tale status, il criterio formale è sufficiente a giustificare un accertamento nei suoi confronti, ma non si vede perché debba essergli negato il diritto di provare che la situazione di fatto è differente da quella formale.
Posto che l’iscrizione anagrafica è un dato formale cui potrebbe non corrispondere la realtà di fatto, la presunzione assoluta che tale elemento sia costitutivo della residenza fiscale implicherebbe l’obbligo di concorrere alle spese pubbliche in base ad una capacità contributiva non effettiva. Se icriteri di collegamento al territorioriguardano i presupposti sostanziali di imposizione, ritenere che il criterio della iscrizione anagrafica comporti una presunzione assoluta di residenza fiscale, con la conseguente applicazione del criterio di tassazione del reddito mondiale (più gravoso per il contribuente), si pone in evidente contrasto con il principio di effettività della capacità contributiva.
Giustificare la presunzione in base all’interesse ad applicare un criterio (formale) automatico per identificare la residenza fiscale delle persone fisiche, non è sufficiente a ritenere recessivo e soccombente il principio secondo il quale il concorso alle spese pubbliche deve essere parametrato alla capacità contributiva del soggetto, ed è legittimo a condizione che il soggetto abbia un collegamento con il territorio dello stato che sia espressivo della partecipazione alla vita della collettività. L’obbligo di pagare un tributo commisurato al reddito mondiale, fondato sui doveri costituzionali di solidarietà,è imposto ai soggetti residenti perché essi possono beneficiare pienamente dei pubblici servizi.
Tali argomentazioni dovrebbero essere sufficienti per affermare che l’iscrizione anagrafica ha il valore (tutt’al più) di presunzione relativa (con inversione dell’onere della prova). Se è accettabile l’idea che il legislatore abbia voluto consentire all’amministrazione finanziaria di identificare la residenza fiscale del soggetto passivo in base ad un presupposto formale di facile e rapida riscontrabilità, quale è l’iscrizione anagrafica, non richiedendo ulteriori accertamenti di fatto, lo è molto meno considerare tale dato formale una presunzione assoluta di residenza fiscale.
Ladottrina, infatti, a più riprese ha sollevato dubbi circa la ragionevolezza e la compatibilità costituzionale di una tale interpretazione. Sarebbe auspicabile, da parte della giurisprudenza (come è stato fatto, in qualche occasione, dai giudici di merito), una interpretazione costituzionalmente orientata della norma, che tenesse conto del fatto che la mera residenza anagrafica, se non accompagnata dall’effettivo domicilio o residenza nel territorio (ovvero quando il contribuente prova di non avere il domicilio o la residenza nel territorio bensì all’estero), non è sufficiente a giustificare, sotto il profilo costituzionale, l’applicazione dell’Irpef in base al reddito mondiale. Così, più ragionevolmente, si giungerebbe a considerarel’iscrizione anagrafica una presunzione relativa di residenza civilistica con inversione dell’onere della prova, a fronte della quale il soggetto passivo sarebbe obbligato (e, comunque, avrebbe diritto) a fornire la prova contraria sulla base di risultanze di fatto.
Il conflitto di residenza, in questi casi,può essere risolto con la applicazionedelle tie breaker rules(art. 4, comma 2, del Modello di convenzione OCSE)al fine di stabilire in quale dei due stati la persona debba considerarsi residente, e di attribuire solo a tale stato la potestà impositiva con riferimento ai tributi oggetto della Convenzione, posto che la norma di fonte convenzionale prevale sulla normativa nazionale.
Questo tema è stato oggetto della recente Risposta ad Interpello n. 25 del 4 ottobre 2018, nella quale, pur evidenziando che «l’accertamento dei presupposti per stabilire l’effettiva residenza fiscale costituisce questione di fatto che non può essere oggetto di istanza di interpello», vengono fornite indicazioni di carattere interpretativo.
L’Agenzia ritiene, innanzitutto, che il contribuente, per essere considerato fiscalmente non residente deve “provare la contestuale assenza” di tutte le condizioni formali o sostanziali previste dall’art. 2 TUIR, e così, di fatto, ribadisce la tesi fin qui criticata, in quanto l’iscrizione nella anagrafe dei residenti è un dato che il contribuente non può contestare adducendo una situazione di fatto differente. Viene, poi, osservato che in caso di doppiaresidenza fiscale, se tra l’Italia e lo stato estero è in vigore una convenzione contro la doppia imposizione, il conflitto di residenza deve essere risolto facendo ricorso alle citate tie breaker rules.
Tali regole, finalizzate alla definizione di una “unica” residenza convenzionale della persona, sono disposte in un rigoroso ordine gerarchico. Oltre al criterio della disponibilità di una “abitazione permanente” (permanent home available), sono previsti il criterio del “centro degli interessi vitali” (centre of vital interest) individuato nello stato nel quale le relazioni personali ed economiche della persona sono più strette (criterio che sembra assimilabile a quello del domicilio civilistico), il criterio del luogo ove la persona ha la sua “dimora abituale” (habitual abode) (assimilabile a quello della residenza civilistica), e il criterio della nazionalità. In ultima istanza il conflitto è risolto ricorrendo ad una procedura amichevole.
La questione è, a questo punto, come coordinare le disposizioni convenzionali con le norme interne che individuano la residenza delle persone fisiche in base a presunzioni (assolute o relative).
Occorre chiarire come può essere inquadrata l’iscrizione anagrafica, prevalentemente intesa come presunzione assoluta di residenza fiscale, nella scala di criteri previsti dall’art. 4, comma 2, del Modello OCSE; edin particolare, se pure si ammettesse che il dato formale della iscrizione anagrafica vada considerato un “criterio similare” a quelli del domicilio o della residenza, in che rapporto gerarchico si colloca rispetto agli altri criteri.
La risposta più ragionevole sembrache la presunzione di residenza non possavalere come tie breaker rule, e che l’Amministrazione finanziaria deve provare che la apparenza formale corrisponde alla situazione reale, ovvero che il contribuente iscritto nella anagrafe dei residenti ha effettivamente la disponibilità di una “abitazione permanente” e quindi la “dimora abituale” nel territorio dello stato (salva, poi, la necessità di applicare le altre tie breaker rules).
Queste osservazioni confermerebbero che affermare l’esistenza di presunzione assoluta di residenza conseguente alla mera iscrizione anagrafica, determinauna disparità di trattamento tra contribuenti, dipendente dal fatto che alla specifica fattispecie si applichi o meno una convenzione internazionale. Nel primo caso il conflitto di residenza si risolverebbe in base alle tie breaker rules individuando il luogo di effettiva residenza a prescindere dalle risultanze formali. Nel secondo caso, invece, l’apparenza formale potrebbe, irragionevolmente, prevalere sulla situazione reale.
È ragionevole presumere che alla residenza anagrafica corrisponda la “sede principale degli affari e interessi” o la “dimora abituale” della persona, e che questo dato sia valorizzato ai fini della individuazione della residenza fiscale del contribuente. Non è per nulla ragionevole, però, né compatibile con i principi di uguaglianza, di solidarietà e di capacità contributiva, escludere che il contribuente in buona fede possa dimostrare che tale corrispondenza non sussiste.
Nella sentenza n. 16634/2018, la S.C. si limita a richiamare i suoi precedenti, senza tenere conto del fatto che il giudice di secondo grado aveva motivato la propria decisione sulla base della documentazione prodotta dal contribuente ritenuta sufficiente a dimostrare la sua residenza in uno stato estero. A fronte di questo accertamento, l’unico motivo di ricorso accolto dalla Cassazione è costituito dalla mancata cancellazione dall’anagrafe dei residenti e dalla mancata iscrizione all’AIRE.
In tutti i casi in cui il contribuente è in grado di dimostrare che nonostante la mancata cancellazione dall’anagrafe dei residenti egli ha trasferito il proprio domicilio e la propria residenza in uno stato estero con il quale l’Italia ha stipulato una convenzione contro la doppia imposizione, è opportuno invocare l’applicazione della convenzione, poiché ciò gli consentirà con ragionevole certezza di vincere anche la eventuale presunzione assoluta di residenza fiscale derivante dal dato anagrafico.
Quanto alla difesa del contribuente di fronte alla presunzione di residenza collegata alla iscrizione anagrafica, è bene ricordare che il legislatore,per prevenire fenomeni di doppia imposizione internazionale, riconosce ai soggetti passivi dell’Irpef un credito d’imposta per i tributi versati all’estero in via definitiva; tale credito viene di norma fatto valere in sede di dichiarazione. Nel caso in cui il contribuente non abbia presentato la dichiarazione in Italia in quanto si ritiene non residente, in sede di accertamento avrà la possibilità di ottenere il riconoscimento dei tributi versati all’estero.Analogapossibilità è riconosciuta nella eventuale successiva fase giurisdizionale, atteso che il giudizio tributario è pacificamente qualificato come impugnazione-merito. Val la pena di ricordare che in questi casi l’accoglimento del ricorso da parte del giudice può condurre ad una pronuncia con la quale si demanda all’Ufficio, per la complessità dei conteggi da effettuare, la rideterminazione dell’imponibile e dell’imposta in base ai criteri ed agli elementi accertati in sede giurisdizionale (vedi G. Ingrao, L’intervento del Fisco su ordine del giudice tra l’ammissibile collaborazione con le Commissioni tributarie e l’illegittima riassegnazione della potestà impositiva, in Riv. dir. trib., 2018, p. 165 ss.).
Se, invece, in giudizio non si discute di tale aspetto, come sembra sia accaduto nella sentenza annotata, con una istanza di autotutela il contribuente può chiedere la rideterminazione della maggiore imposta depurando i tributi assolti all’estero in modo definitivo.
Si osserva infine che non si possono trascurare le difficoltà che gli organi giurisdizionali incontrano nella interpretazione ed applicazione di provvedimenti normativi spesso poco chiari. Ciò avviene, in più occasioni, con riferimento a disposizioni di legge che prevedono presunzioni in materia tributaria, di fronte alle quali, oltre a dover prendere posizione in merito al loro carattere sostanziale o procedimentale, spesso sorge il dubbio sulla natura della presunzione. Ad esempio laddove la legge non stabilisce esplicitamente se sia ammessa o meno la prova contraria può sorgere il dubbio se ci si trovi di fronte ad una presunzione assoluta o relativa (ma la tesi prevalente è che tutte le presunzioni legali devono considerarsi presunzioni relative salvo diversa disposizione di legge); mentre in altri casi il dubbio che il giudice deve sciogliere è se ci si trovi di fronte ad una presunzione legale ovvero ad una presunzione semplice.
In ogni caso, proprio in punto di interpretazione della legge, appare più ragionevole la posizione assunta dal giudice di merito (si veda CTR Puglia 16 gennaio 2017, n. 64, cassata dalla sentenza in commento), che valorizza la situazione di fatto e, sulla base delle prove offerte dal contribuente, la considera prevalente rispetto alla formale iscrizione anagrafica, ai fini della individuazione della residenza fiscale del contribuente. La Commissione tributaria regionale censura, infatti, l’operato dell’Amministrazione finanziaria, affermando che «l’applicazione di qualsivoglia strumento presuntivo non può avvenire in maniera asettica e automatica, dovendo esso, per converso, avere riguardo necessariamente alla reale capacità contributiva».