argomento: Sanzioni e contenzioso - Giurisprudenza
La valenza delle garanzie “penali”, e in particolare del principio del nemo tenetur se detegere, nei procedimenti sanzionatori amministrativi di carattere “punitivo” sembra, per consolidato orientamento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e, per via delle recenti aperture della Corte di Giustizia, ormai generalmente riconosciuta. La sua applicazione al diritto tributario trova conferma anche nella più recente giurisprudenza nazionale, sia pur con i limiti imposti dal rispetto del generale dovere di collaborazione e dall’obbligo di concorrere alle spese pubbliche in ragione della capacità contributiva.
» visualizza: il documento ()PAROLE CHIAVE: diritto al silenzio - procedimento tributario - sanzioni - art.6 Cedu
di Concetta Ricci
I giudici della Suprema Corte chiariscono la portata della sentenza della Corte costituzionale del 13 aprile 2021, n. 84 ( su cui v. G. Marino, Procedimento avanti alla CONSOB: riconosciuto il diritto al silenzio del presunto autore dell’illecito, in Dir. e giustizia, n. 89, 2021, 4; E.A. Sepe, La Consulta riconosce per la prima volta il “diritto al silenzio” nel procedimento amministrativo, in il fisco, n. 22, 2021, 2113 ss..), precisando che il diritto al silenzio, riconosciuto dalla Consulta nel procedimento che vedeva coinvolti Consob e Banca d’Italia, non si espande sino a comprendere il reato di ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità di vigilanza.
La Corte Costituzionale, infatti, riassumendo il giudizio dopo la pronuncia della Corte di giustizia in sede di rinvio pregiudiziale (CGUE, 2 febbraio 2021, causa C-489/19, D.B. c. CONSOB, su cui v. C. RICCI, Diritto al silenzio e giusto processo tributario, in Il Processo, n. 2, 2021, 327 ss.; E. A. SEPE, Per la Corte Ue non è sanzionabile il rifiuto di collaborazione con l’Ufficio, in Il Fisco, n. 10, 2021, 907 ss.; A. MARCHESELLI, Buona fede del contribuente, obblighi di cooperazione nella fase amministrativa e diritto al silenzio: tempesta in arrivo dalle Corti Internazionali, in Riv. tel. Dir. trib., 24 marzo 2021), ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies t.u.f. “nella parte in cui si applica anche alla persona fisica che si sia rifiutata di fornire alla Banca d’Italia o alla Consob risposte che possano far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative di carattere punitivo, ovvero per un reato”.
La Cassazione, nella sentenza n. 3555/2022, a proposito di impugnazione di una condanna inflitta, tra l’altro, per non avere comunicato a Consob i reali obiettivi di un’operazione di aumento di capitale societario, puntualizza il perimetro applicativo del giudizio costituzionale, sottolineando innanzitutto che “il profilo di falsità, rispetto a un obbligo di dichiarare il vero, previsto dalla legge, che connota la condotta in esame costituisce un quid pluris rispetto al dovere di collaborazione con l’autorità su cui è invece conformato l’illecito amministrativo censurato”.
Inoltre, i giudici precisano che è da escludere, nella materia del falso, la rilevanza del principio per il quale nessuno è tenuto a incolpare se stesso, “non potendo la finalità probatoria dell’atto essere sacrificata dall’interesse del singolo di sottrarsi alle conseguenze di un delitto”.
Il parallelismo con il diritto tributario, fatto dagli stessi giudici penali, attraverso il richiamo, contenuto nella sentenza, alla giurisprudenza concernente l’obbligo di presentazione della dichiarazione dei redditi in presenza di proventi illeciti (Cass., sez. pen., 3 ottobre 2018, n. 53656), consente di prendere le mosse per un rapido excursus sullo stato dell’arte della giurisprudenza nazionale ed europea in materia di diritto al silenzio e di formulare alcune riflessioni sull’impatto che detto principio ha sul procedimento e sul processo tributario.
In particolare, nella sentenza Orkem (C. Giust. UE, 28 ottobre 1989, causa C-347/87, Orkem c. Commissione, in Racc., 3283; 10.11.1993), la Corte di Giustizia sostiene che un’interpretazione estensiva del predetto principio non potrebbe essere desunta né dagli ordinamenti giuridici nazionali, che “riconoscono il diritto di non testimoniare contro sé stessi solo all’imputato in un procedimento penale”, né dall’art. 6 della CEDU. Alle stesse conclusioni, la Corte giunge anche nella sentenza SGL Carbon (C. Giust. UE, 29 giugno 2006, causa C-301/04, Commissione delle Comunità europee contro SGL Carbon AG, in Racc., I, 5915), in cui riprende le motivazioni della sentenza Orkem, ribadendo, a carico dell’impresa coinvolta in un procedimento teso all’accertamento di illeciti concorrenziali, l’obbligo di collaborare, fornendo informazioni e documenti, anche se da questi possa derivare la sua responsabilità amministrativa.
La svolta si ha con la sentenza del 2 febbraio 2021, DB c. Consob, perché, per la prima volta, seppure in un caso non attinente alla materia tributaria, ma sicuramente ad essa applicabile, la Corte di Giustizia riconosce il diritto al silenzio anche al di fuori di un procedimento penale, uniformandosi all’interpretazione della Corte EDU. Rifacendosi alla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, a cui espressamente rinvia, infatti, la Corte di Giustizia UE risolve la questione adottando un approccio sostanzialistico, compendiato nei c.d. Engel criteria, in virtù del quale la qualificazione giuridica attribuita dall’ordinamento nazionale a una determinata misura afflittiva non è l’unica condizione dirimente ai fini della valutazione circa l’applicabilità del diritto, in quanto rilevano altresì la natura dell’illecito e il grado di severità della sanzione comminata. Sulla scorta di queste premesse, i giudici, affermano che il diritto al silenzio, pur non potendo tradursi nell’omessa collaborazione tout court, non può ragionevolmente essere limitato alle confessioni di illeciti o alle osservazioni che chiamino direttamente in causa la persona interrogata, bensì comprende anche le informazioni su questioni di fatto che possano essere successivamente utilizzate a sostegno dell’accusa ed avere così un impatto sulla condanna o sulla sanzione inflitta a tale persona (§ 40).
Nel nostro ordinamento, le norme che comminano sanzioni, anche soltanto improprie, ai contribuenti che si rifiutino di collaborare alle indagini tributarie sono tante; in mancanza di un espresso obbligo di collaborazione, posto a carico del contribuente, mi pare, a questo punto chiaro, che quelle norme - mi riferisco, in particolare, all’art. 32 del d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600 e agli artt. 51 e 52 del d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633 - che prevedono specifiche preclusioni probatorie in sede processuale, in caso di rifiuto ad esibire nel corso dell’istruttoria, la documentazione richiesta, dovrebbero essere interpretate, in senso conforme al diritto primario dell’Unione, e pertanto dovrebbero essere disapplicate ove giustificabili alla luce della tutela del diritto di difesa del contribuente che si rifiuti di fornire informazioni dalle quali potrebbero emergere profili di responsabilità “amministrativa”.
Allorché si tratti di documentazione la cui conservazione non è obbligatoria per legge, devono inoltre ritenersi illegittime, sotto il profilo del diritto europeo, anche le sanzioni previste dall’art. 11, comma 1, lett. b) e c), del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 in tema di omessa o incompleta risposta a questionari o inottemperanza alle richieste dell’Amministrazione finanziaria formulate nell’esercizio dei poteri istruttori, nonché le sanzioni improprie cui all’art. 39, comma 2, lett. d-bis) del d.p.r. n. 600/73 che considera presupposto per procedere ad accertamento induttivo l’omessa risposta ai questionari e l’art. 54, comma 2, d.p.r. n. 633/72, che abilita l’Ufficio a procedere all’accertamento induttivo “quando risulta, attraverso il verbale di ispezione redatto ai sensi dell’art. 52, che il contribuente non ha tenuto, ha rifiutato di esibire o ha comunque sottratto all’ispezione i registri previsti dal presente decreto e le altre scritture contabili obbligatorie (…)”.
Altresì contraria al diritto al silenzio dovrebbe essere considerata la previsione contenuta nell’art. 11 della l. 6 dicembre 2011 n. 201 che punisce chi, a seguito di richieste effettuate nell’ambito di istruttorie tributarie ai fini delle imposte sui redditi o dell’Iva, produce atti o documenti falsi oppure fornisce “dati e notizie non rispondenti al vero”, sempreché, in tale ultimo caso, “a seguito delle suddette richieste” si configurino i reati di cui alla d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74. E’ significativo che la sanzione penale per chi non collabora è prevista solo quando la condotta che integra l’omessa collaborazione configuri un reato tributario, e quest’ultimo sia successivo alla richiesta fatta dall’Amministrazione finanziaria.
Quindi, in tutti quei casi in cui non è espressamente previsto uno specifico obbligo di collaborazione all’istruttoria tributaria, le norme interne che prevedono sanzioni, anche solo indirette o improprie, per il comportamento reticente del contribuente dovrebbero essere disapplicate.
Sarebbe auspicabile, dunque, un revirement giurisprudenziale giacchè, in più occasioni, i giudici nazionali hanno attribuito rilevanza in senso negativo per il contribuente, al rifiuto di collaborare nel corso dell’attività di verifica, considerando il “silenzio” dello stesso come tacita ed implicita accettazione dell’operato dei verificatori (in tal senso, v., ex multis, Cass., 26 gennaio 2004, n. 1286, in Corr. trib., 2004, 1425 con nota di M. Basilavecchia, Percentuali di ricarico tra «ammissioni» e «non collaborazione»; in Riv. dir. trib., 2005, II, 164 ss., con nota di A. Giorgianni, La partecipazione del contribuente alla verifica può assumere carattere di confessione stragiudiziale?; in Boll. trib., 2004, 1099 ss., con nota di A. Voglino, L’irrilevanza della mancata contestazione immediata delle operazioni di verifica tributaria da parte del contribuente; in Riv. giur. trib., 2004, 535, con nota di CORSO, L’inerzia del contribuente ha valore confessorio?); anche nella giurisprudenza più recente, la Suprema Corte ha ribadito che le preclusioni probatorie di cui all’art. 32, comma 4, conseguenti all’inottemperanza degli obblighi di collaborazione posti a carico del contribuente, sono posti a presidio del “dialogo preventivo tra fisco e contribuente per favorire la definizione delle reciproche posizioni” nel rispetto dei “canoni di lealtà, correttezza e collaborazione propri degli obblighi di solidarietà in materia tributaria”, e sancisce che l’inutilizzabilità dei documenti non esibiti e delle notizie non trasmesse “consegue automaticamente all’inottemperanza dell’invito, non è soggetta alla eccezione di parte e può essere rilevata d’ufficio in ogni stato e grado di giudizio” (in tal senso, Cass., ord. 19 giugno 2018, n. 16106, in Banca Dati BIG, IPSOA. In senso analogo v., Cass., 03 maggio 2019, n. 11608, in Rass. trib., n. 3, 2019, 665 ss., con nota di M. Cedro, Accertamento - preclusioni probatorie e indagini finanziarie).
Questo non significa, ovviamente, poter sottrarre alla verifica documenti obbligatori o, addirittura, come pure si è fatto, in passato, poter appellarsi al diritto al silenzio in caso di omessa presentazione delle dichiarazioni dei redditi laddove, da queste ultime, emergano redditi illeciti. Ed è proprio quest’ultima ipotesi che la Cassazione penale utilizza, rinviando al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità sul punto, per dimostrare come il principio nemo tenetur se detegere non possa trovare applicazione in tema di falso “non potendo la finalità probatoria dell’atto essere sacrificata all’interesse del singolo di sottrarsi alle conseguenze di un delitto”.
I giudici di legittimità, infatti, richiamano quella giurisprudenza tributaria (Cass., sez. pen., 3 ottobre 2018, n. 53656; in senso analogo v. anche la più recente Cass., sez. V, 19 aprile 2021, n. 23672. In dottrina, su questi temi v., ex multis, A. MARCHESELLI, Omessa contabilizzazione e dichiarazione dei proventi di fonte illecita e responsabilità penale, in Dir. prat. trib., 1998, II, 1241 – 1245) che si è espressa con riferimento all'obbligo di dichiarare al Fisco, a pena di violazione del disposto di cui agli artt. 5 d.lgs. n. 74 del 2000, 14 lg n. 573 del 1003 e 36, comma 34-bis, del n. 223 del 2006, n. 223, anche redditi provenienti da attività illecita, in quanto il principio del nemo tenetur se detegere opera esclusivamente nell’ambito di un procedimento penale già avviato e deve ritenersi recessivo rispetto all'obbligo di concorrere alle spese pubbliche previsto dall'art. 53 Cost.
Al pari di quanto ritenuto nei casi esaminati dalle pronunce citate, l’offensività del bene giuridico protetto è da reputare prevalente rispetto all’interesse dell'imputato all'impunità e siffatta valutazione comparativa non risulta messa in crisi alla luce della recente pronuncia di incostituzionalità richiamata (Corte cost. n. 84/2021).
Né in senso difforme può leggersi la recente pronuncia della Cassazione penale che ridefinisce e puntualizza i contorni del principio del nemo tenetur se detegere in modo non dissimile da quanto già in passato la stessa giurisprudenza tributaria aveva fatto.
In sostanza, il diritto al silenzio può essere invocato dal contribuente nella fase dell’istruttoria tributaria ove dalle informazioni o dai documenti a lui richiesti dall’Amministrazione finanziaria possa derivare l’accertamento di una sua responsabilità punibile con l’irrogazione di sanzioni di carattere “afflittivo”, ma non può tradursi nella violazione di precisi obblighi collaborativi o dichiarativi posti a tutela del fondamentale principio di capacità contributiva. Così concepito, il diritto al silenzio viene inteso “nella sua effettiva qualificazione: come alter ego del diritto di difesa” (così, A. GIOVANNINI, Note sul diritto al silenzio nel diritto tributario, in Giustizia insieme, 2 marzo 2022, consultabile al link https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-tributario/2188-note-sul-diritto-al-silenzio-in-diritto-tributario?hitcount=0); in altri termini, “solo quando l’esercizio del nemo tenetur se detegere è causato dal precedente o concomitante esercizio del potere d’indagine di un organo dello Stato, il silenzio stesso diventa difesa. In ogni altro caso, il silenzio deve essere qualificato per quello che è: omissione o inadempimento di un obbligo” (così, A. GIOVANNINI, Note sul diritto al silenzio nel diritto tributario, cit.). L’applicazione del diritto al silenzio anche al diritto tributario, quindi, non significa poter contravvenire ad obblighi dichiarativi nè poter giustificare, in nome della tutela dei diritti fondamentali, qualsiasi comportamento omissivo in fase istruttoria, come l’inottemperanza all’invito a comparire – per la quale, ad esempio, l’art. 11 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 prevede l’applicazione di specifiche sanzioni - perché questo si tradurrebbe in un intralcio dei poteri d’indagine del Fisco, tesi alla corretta determinazione dell’obbligazione tributaria.
Resta però l’importante e oramai acquisito riconoscimento del principio del nemo tenetur se detegere come diritto fondamentale dell’Uomo e quindi anche del contribuente, con la sua conseguente applicabilità in tutti i settori del diritto e a tutte le discipline che prevedono l’irrogazione di sanzioni di carattere “punitivo” per gli illeciti commessi, e quindi anche al diritto tributario.