argomento: IVA - Giurisprudenza
La Corte di Giustizia afferma che i corrispettivi percepiti per prestazioni rilevanti a fini IVA, non dichiarati né fatturati e successivamente accertati dall’Amministrazione finanziaria, devono comprendere l’IVA, salvo il caso in cui secondo il diritto nazionale sia possibile recuperare altrimenti l’imposta.
» visualizza: il documento (Corte di Giustizia UE,1° luglio 2021, causa C-521/19 )PAROLE CHIAVE: IVA - principio di neutralitā - determinazione della base imponibile
di Paola Milioto
1. La Corte di Giustizia si è occupata della compatibilità degli artt. 73 e 78 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, con la Ley n. 37/1992 del 28 dicembre 1992, che permette all’Amministrazione finanziaria spagnola, nell’ambito di controlli riguardanti operazioni occultate, di non includere l’IVA all’interno degli importi accertati ai fini delle imposte sui redditi.
La vicenda sottoposta all’attenzione della Corte è originata da talune ispezioni effettuate dall’Inspección de Tributos sulla situazione fiscale di CB (cittadino spagnolo svolgente l’attività di agente per lo spettacolo), all’esito delle quali l’Agencia Estatal de Administración Tributaria accertava l’imposta sul reddito delle persone fisiche e comminava le relative sanzioni. L’accertamento impattava, come ovvio, anche sulle imposte indirette, essendo l’attività di intermediazione realizzata da CB (e occultata al Fisco) pacificamente soggetta all’applicazione dell’IVA. L’Agencia tributaria spagnola riteneva gli importi incassati da CB esclusi IVA e utilizzavano, ai fini delle imposte dirette e quale base imponibile, l’intero importo ricevuto in ciascuna annualità.
Fra i motivi di doglianza sostenuti in sede di ricorso, CB ricordava come l’esclusione dell’IVA dagli importi classificati quali ricavi violasse la giurisprudenza unionale e quella del Tribunal Supremo spagnolo secondo le quali «qualora tale amministrazione scopra operazioni, in linea di principio, soggette all’IVA, non dichiarate e non fatturate, l’IVA deve intendersi inclusa nel prezzo convenuto dalle parti di tali operazioni» (Corte di Giustizia del 7 novembre 2013, Tulică e Plavoşin, cause riunite C-249/12 e C-250/12). Dal che CB desumeva che, non potendo richiedere l’IVA non trasferita, questa dovesse essere inclusa nei ricavi percepiti.
La Corte di Giustizia, nella pronuncia in commento, ha affermato che qualora un soggetto passivo IVA, commettendo un’evasione, non abbia né indicato l’esistenza dell’operazione, né emesso fattura, né fatto figurare in una dichiarazione a titolo delle imposte dirette i redditi ottenuti, gli importi versati e percepiti saranno accertati e ricostruiti quali prezzo già comprensivo dell’IVA, a meno che, secondo il diritto nazionale, i soggetti passivi abbiano la possibilità di ripercuotere e detrarre successivamente l’IVA in questione, nonostante l’evasione.
2. La conclusione raggiunta dalla Corte di Giustizia – che si ritiene essere corretta a livello sistematico – si pone in linea di continuità rispetto alle esigenze di funzionamento dell’IVA nel suo complesso; ciò, però, non alla luce del principio di neutralità.
Nel suo ragionamento, la Corte innanzitutto ha affermato (al punto 28) che «il diritto dei soggetti passivi di detrarre dall’IVA [è] volto a sgravare interamente l’imprenditore dall’onere dell’IVA dovuta o assolta nell’ambito di tutte le sue attività economiche e che garantisce, di conseguenza, la neutralità» e ha accostato, dunque, alla componente della detrazione la funzione di non essere l’IVA un costo per l’operatore economico; mentre successivamente (al punto 31) ha affermato che «il fatto che un soggetto passivo non abbia osservato l’obbligo di fatturazione […] non può ostare al principio di base della suddetta direttiva, il quale, secondo una giurisprudenza costante della Corte, risiede nel fatto che il sistema dell’IVA mira a gravare unicamente sul consumatore finale», occupandosi, dunque, dell’addebito quale componente che mira a garantire che l’IVA sia un’imposta sul consumo.
Richiamando le conclusioni dell’Avvocato generale (al punto 29), la Corte ha, altresì, affermato, che fuoriesce dalle competenze riconosciute agli Sati membri, nella lotta all’evasione e alle frodi, quella di incidere sulla modulazione e determinazione della base imponibile IVA, posto che le evasioni e le frodi vengono già contrastate, tanto a livello nazionale, quanto a livello unionale, attraverso l’impossibilità, per i soggetti passivi IVA, di esercitare il diritto alla detrazione dell’imposta (per una disamina delle cd. sanzioni improprie si rimanda a L. DEL FEDERICO, Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, Milano, 1993, 276 ss.), soprattutto quando non siano state rispettate le norme di base della direttiva IVA, in specie quelle di cui agli artt. 178, lett. a), 220 e 226, dettate in punto di fatturazione (Corte di Giustizia, sentenza 21 marzo 2018, causa C-533/16, Volkswagen, punti 37-38, 42-43).
3. Orbene, la Corte fa conseguire, sì, una soluzione condivisibile a tali premesse dal punto di vista sistematico, ma a parere di chi scrive, tale soluzione scomoda inutilmente la neutralità.
E, difatti, nonostante le premesse illustrate, la Corte (ai punti 33-36) è giunta ad affermare che «il risultato di un’operazione occultata all’amministrazione tributaria da parte di soggetti passivi dell’IVA […] deve essere considerato […] comprensivo dell’IVA che ha gravato su detta operazione» in quanto «Qualsiasi altra interpretazione contrasterebbe con il principio di neutralità dell’IVA e farebbe gravare una parte dell’onere di quest’ultima su un soggetto passivo, mentre l’IVA deve essere sopportata unicamente dal consumatore finale, conformemente alla giurisprudenza ricordata ai punti 28 e 31 della presente sentenza». La conclusione secondo cui l’inclusione dell’IVA nell’ammontare accertato dei ricavi di CB sia (l’unica) soluzione idonea a garantire tout court il principio di neutralità dell’IVA, però, non attiene tanto alla neutralità dell’IVA (garantita dalla componente della detrazione), quanto alla funzione dell’IVA – nella sua componente dell’addebito – intesa quale imposta sul consumo.
4. Tradizionalmente, il principio di neutralità è stato analizzato sempre attraverso il richiamo contestuale degli istituti della rivalsa e della detrazione, intese quali due facce della stessa medaglia che operano in modo sinergico tra loro (così P. BORIA, Il sistema tributario, Torino, 2008, p. 613); ciò, però, prescindendo dalla compiuta analisi della funzione propria di ciascuna di tali componenti. Si è sempre affermato, infatti, come «l’effetto proprio della rivalsa, il suo predicato sottinteso, è per l’appunto il conferimento al cessionario del diritto alla detrazione» (così F. RANDAZZO, Le rivalse tributarie, Milano, 2012, p. 119) ritenendo l’una imprescindibile e strettamente connessa all’altra.
A ben guardare, invero, la funzione della rivalsa/addebito non è tanto quella di garantire (in generale) la neutralità dell’IVA, quanto piuttosto quella di realizzare la funzione propria dell’IVA, intesa quale imposta sul consumo, scaricando l’IVA a valle, cioè consentendo che l’IVA gravi, quale soggetto passivo dell’imposta, non già l’operatore economico, ma il consumatore finale.
Al contrario, se ci si sposta sul piano della detrazione, la funzione sua propria è quella di evitare che l’IVA rappresenti un costo per l’operatore economico, senza interessarsi strettamente dell’aspetto del consumo (così L. SALVINI, Diritto tributario delle attività economiche, Torino, 2022, ove a pag. 303 afferma che “La detrazione è […] lo strumento che rende l’imposta neutrale”).
Ora, nella tradizionale definizione della neutralità, entrambe le componenti (rivalsa/addebito e detrazione) vengono, sì, contemporaneamente coinvolte, ma soltanto con lo scopo di individuare il soggetto passivo di fatto dell’IVA e di escludere che l’operatore economico sia inciso dall’IVA. Ma soltanto in questa accezione si ritiene che possa essere predicata la effettiva complementarietà delle suddette componenti.
Fatta tale premessa e alla luce di questa consapevolezza, allora, le due componenti non possono essere poste automaticamente sullo stesso piano, e non è possibile (non è corretto) riferirsi alla neutralità indifferentemente richiamando l’una o l’altra componente, in quanto le regole di funzionamento della detrazione non sono valevoli e invocabili anche per la rivalsa, in ragione della diversità delle esigenze che mirano a soddisfare. Ma se così è, allora, non è la rivalsa/addebito a garantire – a differenza di quanto si evince dalla lettura della sentenza in commento – tout court il rispetto del principio di neutralità (che, appunto, viene scomodato).
5. Orbene, chiarita la portata del principio, occorre ora interrogarsi sulla concreta applicabilità dello stesso al diritto nazionale italiano.
Nella pronuncia in commento, la Corte ha specificato come la soluzione proposta – inclusione dell’IVA nella base imponibile accertata ai fini delle imposte sui redditi – sia condizionata dalla circostanza che il diritto nazionale non consenta ai soggetti passivi di recuperare successivamente l’IVA, nonostante l’evasione.
Ora, posto che il diritto spagnolo – al contrario di quello italiano (quantomeno in apparenza) – non permette ai soggetti passivi di recuperare ex post l’imposta, la soluzione della Corte è stata quella di ritenere i ricavi di CB comprensivi di IVA.
L’applicazione di tale principio nel nostro ordinamento impone, però, una riflessione, soprattutto in virtù dell’esistenza del nuovo co. 7, dell’art. 60, del d.P.R. n. 633/972 che, apparentemente, consente di recuperare ex post l’IVA pagata a seguito di un accertamento (per una disamina della norma – ante e post riforma – M. LOGOZZO, Rivalsa dell’iva accertata e problematiche applicative, in Innovazione e diritto, 6/2013, 21 ss.; L. SALVINI, Art. 60 – Pagamento delle imposte accertate, in Codice IVA nazionale e comunitaria, a cura di P. CENTORE, WKI, 2015).
6. La concreta applicazione dell’istituto della rivalsa successiva, però, presenta delle criticità connesse al mancato riconoscimento, da parte dell’Agenzia delle Entrate, della funzionalità dell’art. 26, co. 2, 3-bis e 12, che disciplina la possibilità di emettere una nota di variazione in diminuzione nei casi di insolvenza del cliente; istituto, questo, fondamentale per sopperire alle lacune applicative della rivalsa successiva di cui all’art. 60, ult. co, ma la cui applicazione, appunto, viene esclusa dall’Agenzia delle Entrate.
Infatti, eccezion fatta per un unico precedente nel quale si è registrata un’apertura all’applicazione dell’art. 26 cit. (cfr. risposta all’interpello n. 911-67/2019 della Direzione Regionale della Toscana), la posizione dell’Agenzia delle Entrate (tra tutte si veda la risposta ad interpello n. 49/2021) è nel senso di disconoscere la possibilità di invocare l’art. 26 cit. in caso di infruttuosa rivalsa post accertamento in sede esecutiva. Ciò, in ragione della ritenuta specialità della rivalsa ex art. 60, co. 7, rispetto a quella di cui all’art. 18 IVA e della qualificazione della prima in termini privatistici (cfr. le risposte agli interpelli n. 84/2018; n. 176/2019; n. 531/2019; n. 43/2020; n. 219/2020). Specialità che, in particolare, viene rintracciata: (i) nel carattere facoltativo; (ii) nella necessità di attendere, per essere esercitata, l’avvenuto versamento definitivo, da parte del cedente/prestatore, dell’IVA accertata.
Tale posizione – in specie la asserita qualifica in termini privatistici della rivalsa ex post –, però, francamente rimane oscura e lascia perplessi. Ciò in quanto, tanto la rivalsa obbligatoria IVA ex art. 18, quanto la rivalsa ex post, si compendiano di un segmento privatistico (che coinvolge il cedente-prestatore e il cessionario-committente). Con la conseguenza che – a parere di chi scrive – le argomentazioni usate dall’Agenzia delle Entrate per escludere l’operatività dell’art. 26 IVA all’ipotesi di rivalsa successiva (e non anche a quella di cui all’art. 18) non sembrano convincenti e le differenze esistenti tra le due tipologie di rivalsa non paiono tanto strutturali da escludere l’applicabilità della normativa tributaria alle ipotesi di rivalsa successiva.
Non l’aspetto temporale, potendo anche la rivalsa di cui all’art 18 essere successiva rispetto all’effettuazione dell’operazione; non l’aspetto dell’obbligatorietà, se sol si richiama la definizione fornita da illustre dottrina secondo cui, nella rivalsa ex art 18 IVA, ciò che è «Obbligatoria è quindi la costituzione del diritto di credito non già il suo esercizio» (F. BOSELLO, L'imposta sul valore aggiunto, Bologna, 1979, pp. 86-87).
Ed è per tali ragioni che, chiara la posizione dell’Agenzia, taluni commentatori e la giurisprudenza di legittimità (cfr. tra tutte Cass. civile, sez. II, 24 novembre 2003, n.17861) si sono espressi in maniera molto critica sulla inutilizzabilità dello strumento di cui all’art. 26 cit. nei casi di impossibilità – civilistica – per il cedente di recuperare, in capo al cessionario, l’IVA dallo stesso assolta. Soprattutto alla luce di quanto affermato dalla stessa Agenzia con la Circolare n. 35/E/2013, secondo cui l’esercizio della rivalsa dell’IVA «presuppone la riferibilità dell’imposta accertata a specifiche operazioni e la conoscibilità del cessionario-committente», con la conseguenza che il suo esercizio è escluso laddove tale riferibilità manchi (come, ad esempio, nel caso di accertamento induttivo). Requisito, questo, che rende ancora più difficoltoso l’utilizzo dell’istituto della rivalsa ex post.
La posizione dell’Agenzia delle Entrate, dunque, si pone in contrasto con la giurisprudenza unionale più recente (cfr. sentenza del 23 novembre 2017, causa C-246/16; sentenza 15 marzo 2007, causa C-35/2005) e con la natura propria dell’IVA, intesa quale imposta sul consumo, e “fa entrare dalla finestra, ciò che si è fatto uscire dalla porta”, ripristinando, di fatto, la vecchia formulazione dell’art. 60, co. 7, tutte le volte nelle quali concretamente non sia possibile la rivalsa post accertamento.
7. Ed è allora evidente come l’esistenza di una normativa nazionale italiana che ammette il recupero dell’imposta ex post non esclude a priori l’applicabilità nel nostro ordinamento del principio della Corte di Giustizia, in quanto la stessa dipenderà dal tipo di accertamento che l’Amministrazione pone in essere e dalla possibile riferibilità dell’imposta accertata a una determinata operazione e/o a un determinato cessionario/committente.
Pertanto, il principio della Corte di Giustizia dovrebbe trovare immediata applicazione nel nostro ordinamento tutte le volte in cui tale riferibilità manchi o, seppur presente, l’addebito successivo non sia comunque possibile, perché impedita dall’interpretazione eccessivamente restrittiva della normativa dell’Amministrazione finanziaria, come per il caso dell’art 26 IVA. In tali ipotesi, infatti, o non deve trovare seguito l’interpretazione della prassi, in quanto in patente contrasto con il principio comunitario, oppure, deve predicarsi la piana applicazione del principio della Corte, tutte le volte nelle quali la normativa nazionale non possa applicarsi.
La concreta applicazione del principio dei giudici unionali, espresso nella sentenza qui in commento, non trova, dunque, un “ostacolo” nell’art. 60, co. 7 del d.P.R. n. 633/1972, ma solo nell’Amministrazione finanziaria.