argomento: IRAP e tributi locali - Giurisprudenza
Per la pubblicità del marchio di una casa automobilistica è tenuta al pagamento dell’imposta comunale sulla pubblicità la concessionaria di auto locale e non la società che effettua la distribuzione delle autovetture su scala nazionale, dal momento che quest’ultima non può ritrarre alcuna utilità diretta ed immediata dalla pubblicità effettuata in ambito locale.
» visualizza: il documento (Corte di Cass., ord. 25 marzo 2022, n. 9696)PAROLE CHIAVE: imposta comunale sulla pubblicità - soggetti passivi
di Stefania Cianfrocca
Per approcciare più compiutamente la questione appare utile prendere le mosse la fattispecie sottoposta al giudizio della Corte. La controversia, che si incentra sostanzialmente sull’esatta individuazione del soggetto passivo del tributo, è originata dall’esposizione, all’interno del palazzetto dello sport di una città umbra, di un enorme striscione pubblicitario che riportava il marchio di una società automobilistica francese e la denominazione della concessionaria auto locale, venditrice di autovetture con lo stesso marchio.
La società affidataria del servizio di accertamento e riscossione dell'imposta sulla pubblicità per il comune umbro ha notificato un avviso di accertamento per mancato pagamento del tributo alla società che vendeva all’ingrosso gli autoveicoli pubblicizzati ai concessionari locali.
Quest’ultima ha proposto ricorso per Cassazione avverso la sentenza della CTR dell’Umbria che, riformando la decisione di primo grado, ha stabilito che fosse obbligata al pagamento del tributo considerandola come venditrice del prodotto pubblicizzato “a prescindere dall’ausilio della rete di vendita dei concessionari” locali.
La Corte ha collegato, poi, la definizione di soggetto passivo a quella del presupposto dell'imposta che l’art. 5 del D.Lgs. n. 507/1993 individuava nella diffusione di messaggi pubblicitari effettuati attraverso forme di comunicazione visive o acustiche in luoghi pubblici o aperti al pubblico o da tali luoghi percepibile. La norma considerava rilevanti ai fini impositivi i messaggi diffusi nell'esercizio di una attività economica allo scopo di promuovere la domanda di beni o servizi, o che erano finalizzati a migliorare l'immagine del soggetto pubblicizzato.
In tale contesto la Corte ha innanzitutto ribadito che il messaggio pubblicitario è espressivo di capacità contributiva ogni qual volta l'uso del segno distintivo dell'impresa o del prodotto travalica la mera finalità distintiva dello stesso - che è quella di permettere al consumatore di riconoscere i prodotti o servizi offerti sul mercato dagli altri operatori del settore - per una serie di caratteristiche quali: il luogo dove esso è situato, i suoi elementi strutturali e le modalità di utilizzo, che lo rendono oggettivamente idoneo a far conoscere ad un numero indeterminato di possibili acquirenti o utenti il nome, l'attività o il prodotto dell'impresa.
Il successivo passaggio argomentativo fa leva su un principio ormai consolidato e cioè che la responsabilità solidale di colui che produce o vende la merce o fornisce i servizi oggetto della pubblicità, deve essere collegata alla spesa pubblicitaria da questi sostenuta e sorge soltanto se il messaggio pubblicitario viene effettivamente diffuso, così divenendone l'utilizzatore finale.
Questa puntualizzazione acquista un particolare rilievo nella controversia in esame dove era dirimente stabilire se la società di vendita delle vetture a livello nazionale e la concessionaria locale potevano o meno essere annoverate tra coloro che producono o vendono la merce o forniscono i servizi oggetto della pubblicità ed quindi definite entrambe soggetti passivi dell’imposta sulla pubblicità, così da risultare indifferente per l’ente accertatore la richiesta del tributo all’una o all’altra società.
Ebbene la società ricorrente reclamava di non poter identificarsi nel soggetto passivo del tributo né in via principale - in quanto non aveva la disponibilità dell'impianto pubblicitario - né in via solidale, non vendendo le autovetture ai consumatori destinatari del messaggio pubblicitario.
Detta eccezione è stata accolta dalla Corte che, in contrapposizione ai giudici di appello che facevano rientrare nella nozione di vendita, anche la cessione del bene “a un soggetto intermedio della catena (nella specie il concessionario)" ha, invece, valorizzato l’elemento della vendita all'ingrosso delle autovetture che, prodotte all'estero, sono poi affidate alla capillare rete dei rivenditori al dettaglio. Sicché la ricorrente non poteva essere qualificata né produttore dei veicoli - perché il produttore è casa madre francese detentrice del marchio - né venditore per mancanza dei locali destinati alla vendita al dettaglio.
Partendo dal suddetto principio è stato agevole escludere la sussistenza di un onere impositivo a carico della società distributrice su scala nazionale delle autovetture prodotte all'estero ai soli rivenditori al dettaglio, poiché la mancanza di un rapporto contrattuale con terzi per la fruizione degli spazi pubblicitari comporta che la stessa “non può ritrarre alcuna utilità (almeno diretta ed immediata) sul piano commerciale … dalla pubblicità commissionata dal rivenditore di tali autovetture in ambito locale”.
In estrema sintesi la vendita all'ingrosso delle autovetture pone, pertanto, la società ricorrente “in una posizione di assoluta estraneità rispetto ai presupposti stessi dell'imposizione”.
Nessun particolare significativo ha assunto in tale contesto il fatto che il mezzo pubblicitario richiamasse il marchio della società automobilistica, dal momento che tale elemento era strumentalmente collegato alla denominazione sociale del concessionario auto locale “che era l'unico a poter beneficiare, anche sul piano dell'immagine commerciale, oltre che sul piano dell'incremento patrimoniale, della risonanza di tale propaganda nella rivendita ai consumatori finali dei beni reclamizzati (autovetture)”, peraltro svolta all'interno di un impianto sportivo accessibile ai membri di una comunità locale.
E’ solo con la riforma del 1993 che è stata delineata una migliore articolazione del dato normativo che ha attribuito ai comuni più idonei strumenti per individuare il soggetto passivo del tributo individuandolo in colui che “dispone a qualsiasi titolo del mezzo attraverso il quale il messaggio pubblicitario viene diffuso”; ciò ha consentito, dunque, una semplificazione nella gestione del tributo “grazie soprattutto alla individuazione di un unico referente fiscale, il detentore del mezzo, che si sostituisce, di fatto, ai potenziali numerosi soggetti che potrebbero realizzare la pubblicità attraverso l’uso dello stesso mezzo.”(STEFANIA CIANFROCCA-CLAUDIA ROTUNNO “Guida alla tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche e alla imposta comunale sulla pubblicità, Maggioli, 2001, pag. 128)
I comuni hanno così potuto addossare innanzitutto l’onere tributario al titolare del mezzo pubblicitario.
Pertanto non sarebbe stata censurabile nel caso in esame la notifica di un atto di accertamento alla società che aveva messo a disposizione gli spazi pubblicitari ed organizzato il servizio pubblicitario, pure individuata negli atti processuali. Simili società, infatti, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, sia che siano proprietarie degli impianti, sia che ne abbiano ottenuto la disponibilità con un contratto stipulato con chi disponga giuridicamente degli stessi, sono pur sempre qualificabili come soggetti passivi del tributo, ferma restando la responsabilità solidale di colui che produce o vende la merce o fornisce i servizi oggetto della pubblicità (Cass. sent. n. 24307 del 2009; n. 23007 del 2009; n. 5039 del 2015; n. 34391 del 2021).
Vi è da dire che il soggetto pubblicizzato spesso costituisce l’unico dato certo, oggettivamente rilevabile, per cui risulta più semplice per l’ente impositore indirizzare a quest’ultimo gli avviso di accertamento dell’imposta in esame. (Cfr. fra tutte: Cass. sent. n. 7314 del 2005).
Nella fattispecie oggetto del giudizio, invero, in linea astrattamente teorica avrebbe potuto ritenersi “aggredibile” anche la società ricorrente - come del resto ha fatto la CTR - in quanto inclusa nel ciclo economico della vendita; quest’ultima avrebbe, poi, potuto rivalersi sulla società concessionaria locale (Cfr. Corte cost. n. 557/2000) con buona pace della società accertatrice del tributo che avrebbe introitato l’imposta da una società che, probabilmente, presentava maggiori garanzie di solvenza. Questa logica, del resto, sembra aver guidato spesso gli enti impositori, forti di una norma dettata per garantire una semplificazione nella gestione del tributo.
Il dato normativo, però, più volte sottoposto ai riflettori della giurisprudenza, si è nel tempo colorito di varie sfumature interpretative che rendono fallace l’azione di alcuni enti impositori che trascurano alcuni aspetti che non vanno in alcun modo sottovalutati, vale a dire: il soggetto che trae un vantaggio immediato e diretto dalla diffusione del messaggio pubblicitario, l’oggettiva fruibilità del messaggio ed il contesto territoriale in cui lo stesso è stato diffuso. Sorprende molto, infatti, che l’ente accertatore del comune umbro abbia notificato l’avviso di accertamento alla società ricorrente, avente, peraltro, sede operativa a Roma, dal momento che il nome della concessionaria auto locale “campeggiava a lettere cubitali sullo striscione", per cui era facile dedurre che il mezzo pubblicitario poteva essere attribuibile alla stessa.
In buona sostanza anche la dimensione territoriale della diffusione pubblicitaria deve essere valutata con la necessaria attenzione da parte degli enti accertatori al fine di evitare inutili e defatiganti contenziosi.
Il tema esaminato dalla Corte appare ad ogni modo interessante non solo per il contenzioso pendente in materia di imposta comunale sulla pubblicità, ma anche per eventuali controversie per il nuovo canone patrimoniale dal momento che l’art. 1, comma 823 della legge n. 160/2019 ripropone, seppure in forma meno circostanziata, una norma sul soggetto tenuto al pagamento del canone che coinvolge anche il soggetto pubblicizzato.