Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

29/11/2022 - La Corte di Cassazione conferma la tassazione delle mance

argomento: IRPEF - Giurisprudenza

Con la sent. 30 settembre 2021, n. 26510, la Corte di Cassazione si è pronunciata  sulla tassazione delle mance facendo una piana applicazione del principio di onnicomprensività che sovraintende alla tassazione dei redditi di lavoro dipendente. La circostanza che le mance siano erogate da soggetti altri rispetto al datore di lavoro, secondo gli ermellini non assume rilievo alcuno considerato che il reddito di lavoro dipendente è nozione che ricomprende, ma non si esaurisce con l’altra di retribuzione.

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PAROLE CHIAVE: redditi di lavoro dipendente - mance - Tassazione


di Annalisa Pace

  1. La Suprema Corte affronta la questione della tassabilità delle mance facendo applicazione del principio della “onnicomprensività della retribuzione”, senza occuparsi della problematica relativa alla qualificazione giuridica delle mance quali erogazioni liberali e delle sue implicazioni fiscali,  questione  che, invece, è stata oggetto di approfondito dibattito in dottrina e che ha portato a soluzioni opposte a quella qui in esame (sul punto, TESAURO, Le mance ai croupiers: reddito o liberalità?, in Boll. trib., 1984, p. 555 ss.; Id., Ancora sulle mance dei croupiers, in Corr. trib., 1984, p.1305 ss.;  PURI, Mance ai croupiers: "les jeux son faits"?, in Riv. dir. Trib., 1994, p. 421 ss.; VIOTTO, Considerazioni in merito al trattamento tributario delle "mance" percepite dai lavoratori dipendenti, in Riv. dir. trib., 2002, I, p. 1139 ss.; Id., Regime fiscale e regime contributivo delle liberalità erogate ai lavoratori dipendenti da soggetti diversi dai datori di lavoro, in "Riv. dir. trib.", 2003, II, p. 815 ss.; MASTROIACOVO, Le mance ai croupiers, in I redditi di lavoro dipendente, a cura di V. Ficari, Torino, 2003, pp. 371 – 383 e, da ultimo, GUIDO,  Il trattamento fiscale delle mance corrisposte al portiere d’albergo, in Corrispettività, onerosità e gratuità – Profili tributari, a cura di V. Ficari e V. Mastroiacovo, Torino, 2014, pp. 162 – 189)
  2. L’ “onnicomprensività della retribuzione” è principio, di matrice essenzialmente giurisprudenziale che esige che tutto ciò che il lavoratore dipendente percepisce dal datore di lavoro in costanza del rapporto di lavoro costituisca retribuzione con la sola esclusione dei rimborsi spese. Va ricordato che il principio era stato codificato in ambito giuslavoristico per evidenti finalità antielusive volte ad evitare, cioè, che il datore di lavoro si sottraesse agli obblighi contributivi e previdenziali e poi si è evoluto fino a ricomprendere qualsiasi elemento rilevante (per una ricostruzione storico-giuridica della nascita di tale principio si v. BIANCHI D’URSO, Onnicomprensività e struttura della retribuzione, Napoli, 1984).

La sua piena consacrazione in ambito tributario ha trovato attuazione  con la riforma del reddito di lavoro dipendente ad opera del D.leg.vo n. 314/1997. Nella relazione illustrativa al citato decreto può leggersi che con la riformulazione del comma 1 dell’art. 48 (ora art. 51) del TUIR  “si arriva a sostenere una concezione onnicomprensiva del reddito di lavoro dipendente fiscalmente rilevante”, concludendo che vanno tassate tutte le somme e i valori comunque percepiti nel periodo d’imposta “in qualunque modo riconducibili al rapporto di lavoro salvo quanto espressamente escluso” (per un esame critico dell’onnicomprensività in diritto tributario  si cfr. CROVATO, Il Lavoro dipendente nel sistema delle imposte sui redditi, Padova, 2001, p. 102; l’autore, in particolare, preso atto che nell’ordinamento giuridico di provenienza che, come si è già accennato, è quello giuslavoristico, è stato abbandonato, osserva che  esso “trova ancora molto credito in ambito previdenziale e  fiscale”, e sottolinea che, a dispetto dell’applicazione che se ne fa in questi ambiti – dove viene utilizzato per considerare retribuzione e quindi reddito qualsiasi erogazione - , nella sua formulazione originaria  serviva solo a “definire la retribuzione e quindi il corrispettivo del lavoro sia pur latamente inteso”).

La stessa Amministrazione finanziaria, nella circolare esplicativa che ha accompagnato la riforma dei redditi di lavoro dipendente del 1997 (il riferimento è alla Cir. del 23 dicembre 1997, n. 326), ha sottolineato che “la precedente impostazione in base alla quale si afferma la onnicomprensività del concetto di reddito di lavoro dipendente e, quindi, di tutto ciò che il dipendente riceve” è stata “rafforzata” nella riformulazione dell’art. 48 (ora art. 51) del testo unico ad opera del D. leg.vo n. 314 del 1997 (poi confermato dalla riforma del 2004), potendo definirsi retribuzione fiscalmente rilevante e, quindi, tassabile qualsiasi somma o valore attribuibili durante il rapporto di lavoro.

Va, altresì, rammentato che nella formulazione originaria dell’art. 48 del D.P.R. n. 597/1973 veniva usata l’espressione : “in dipendenza del lavoro prestato” che in occasione della redazione del testo unico del 1986 fu sostituita dalla seguente: “in dipendenza del rapporto di lavoro”.  La finalità, come venne precisato nella relazione ministeriale allo schema di testo unico, era di: “prevenire il dubbio della computabilità dei compensi percepiti nei periodi di assenza dal lavoro o comunque indipendentemente dalla effettiva prestazione di lavoro”, chiarendo, in definitiva, che non fosse necessario individuare un nesso sinallagmatico diretto tra l’effettività della prestazione e i compensi percepiti, con un ulteriore ampliamento del ventaglio delle componenti tassabili.

La onnicomprensività della definizione di reddito di lavoro dipendente, come individuata nel primo comma dell’art. 48 del TUIR (ora riprodotto dall’art. 51, anche nella versione post – riforma del 2004), troverebbe conferma nel prosieguo della norma che al comma successivo (co. 2) contiene una elencazione tassativa di somme e valori che “non concorrono a formare il reddito”. In definitiva, a fronte dell’ampia definizione di reddito tassabile contenuta nel comma 1, è necessario verificare che l’ipotesi  concreta non rientri in una delle esclusioni che si trovano codificate al comma 2 anche se, come è stato osservato,  non tutte le diverse fattispecie ivi elencate presentano una chiara natura di “eccezione” rispetto alla regola generale di reddito di lavoro dipendente di cui al comma 1 (si cfr. P.DUI, Tassazione e contribuzione nel lavoro dipendente, Milano, 2005, p. 73).

  1. Passando all’esame della fattispecie sottoposta alla Corte, il caso ha riguardato il responsabile del ricevimento ospiti di un resort sardo che aveva omesso di dichiarare e, quindi, di tassare un cospicuo ammontare di mance (ben 77.321,00 euro). Il ricorso veniva accolto in primo ed in secondo grado in quanto i giudici di merito avevano ritenuto di dover escludere la natura reddituale delle somme trattandosi di erogazioni liberali provenienti non dal datore di lavoro (“il quale non interloquisce, né determina, né percepisce tali mance”), bensì da soggetti terzi, i clienti (CTR Sassari, n. 65/ 2014, e CTP Sassari, n. 157/2012).

Il contribuente aveva sostenuto che le mance sia per la loro aleatorietà che, soprattutto, per la circostanza di essere corrisposte da soggetti diversi dal datore di lavoro non possono considerarsi in alcun modo reddito tassabile; né, aggiungeva, poteva farsi derivare una diversa conclusione dalla tassazione (parziale) delle mance dei croupier: per i croupier, infatti,  la corresponsione delle mance è il frutto di un preciso obbligo normativo, contrattualmente previsto, a carico proprio del datore di lavoro sicché le stesse presentano caratteri profondamente diversi dalle mance corrisposte alle altre categorie di lavoratori. Una simile conclusione, veniva infine osservato, troverebbe  conferma nelle relazioni parlamentari al D. leg.vo n. 314 del 1997 dalle quali emerge in maniera chiara la volontà del legislatore di non voler tassare le mance in generale.

L’amministrazione finanziaria ha affidato il suo ricorso ad un unico motivo, basato essenzialmente sulla erronea interpretazione dell’art. 51 del T.U. II.DD, motivo che è stato integralmente accolto dal Supremo Collegio.

I giudici di Cassazione, oltre a ripercorrere puntualmente l’iter normativo che ha portato alla vigente disciplina dei redditi di lavoro dipendente, nel rammentare la piena sovrapponibilità della nozione di  reddito di lavoro dipendente ai fini fiscali e a quelli contributivi, si richiamano ad un precedente della sezione lavoro del medesimo collegio nel quale viene precisato che: "mentre la retribuzione è strettamente connessa, in virtù del vincolo sinallagmatico che qualifica il rapporto di lavoro subordinato, con la prestazione lavorativa, il concetto di derivazione dal rapporto di lavoro, contenuto nella norma in esame" (ora art. 49 TUIR) "prescinde dal suddetto sinallagma ed individua pertanto non solo tutto quanto può essere concettualmente inquadrato nella nozione di retribuzione, ma anche tutti quegli altri introiti del lavoratore subordinato, in denaro o natura, che si legano casualmente con il rapporto di lavoro (e cioè derivano da esso), nel senso che l'esistenza del rapporto di lavoro costituisce il necessario presupposto per la loro percezione da parte del lavoratore subordinato. Costituisce logica conseguenza di quanto fin qui detto che l'ampiezza del concetto di derivazione adottato dal legislatore impone di inserire nella nozione di redditi di lavoro anche gli introiti corrisposti al lavoratore subordinato da soggetti terzi rispetto al rapporto di lavoro sempre che ricorrano i suddetti requisiti" (così Cass. Sez. lav., 21 marzo 2006, n. 6238).

In definitiva, la Suprema Corte sottolinea che la nozione di reddito di lavoro dipendente è diversa e più ampia di quella propria di retribuzione stricto sensu per la quale sola si chiede uno stretto vincolo di sinallagmaticità tra erogante e percipiente, mentre la prima può provenire anche da soggetti diversi dal datore di lavoro.

A questo argomento si aggiunge l’osservazione che, nell’impostazione adottata dal legislatore nella definizione di reddito di lavoro dipendente, la previsione di specifiche ipotesi di esclusione ha senso solo se quei redditi rientrano nella definizione generale per cui dall’inserimento dei redditi dei croupiers tra le ipotesi  escluse (anche se solo in parte) non può che discendere la conferma che le mance, nella loro generalità, siano da considerare reddito tassabile.

Proprio il disposto dell’art. 51, co. 2, lett. i),  a norma del quale non concorre alla formazione della base imponibile del reddito di lavoro dipendente il 25% delle mance percepite dai croupiers, offrirebbe al contrario  una conferma della qualificazione di reddito di lavoro dipendente delle mance tout court. L’inserimento nel secondo comma dell’art. 51 TUIR della citata percentuale, infatti, vista l’impostazione del regime di tassazione dei redditi di lavoro dipendente, si sarebbe resa necessaria proprio per espungere la citata quota (il 25%) dal novero dei redditi tassabili: in mancanza,  il reddito dei croupiers sarebbe stato integralmente tassabile (aspetto che, seppure con tutti i limiti che derivano dall’atto in cui è contenuto, emerge dalla relazione illustrativa al decreto legislativo n. 314/1997) .

Va peraltro rammentato che, fino all’entrata in vigore delle modifiche apportate dal D.leg.vo n. 314/1997, le mance dei croupiers erano considerate tassabili, ma sulla base di  una diversa qualificazione: esse erano assimilate ai redditi di lavoro dipendente. La L. n. 381 del 1990 (intitolata: Regolamentazione dell'imposizione diretta sulle mance percepite dagli impiegati tecnici delle case da gioco,  pubblicata nella G.U. del 18 dicembre 1990, n. 294) aveva aggiunto alla elencazione dei redditi di lavoro dipendente assimilati, allora contenuta nell’art. 47 del TUIR,  la  lettera l) che aveva espressamente assimilato ai redditi di lavoro dipendente “le mance percepite dagli impiegati tecnici delle case da gioco (croupiers) direttamente o per effetto del riparto eseguito a cura di appositi  organismi costituiti all'interno dell'impresa, in relazione allo svolgimento dell'attività di lavoro subordinato".

L’esigenza di una disciplina espressa era nata da un imponente contenzioso generato dalla circostanza che le mance dei croupiers, a dispetto delle mance di altri operatori, come camerieri, responsabili di sala, ecc., sono facilmente individuabili grazie al sistema di raccolta e distribuzione che, come veniva osservato nella relazione illustrativa alla proposta di legge, “non lasciava molto spazio ad omissioni o sotterfugi”. E proprio la necessità  di giungere ad una soluzione certa, non sottoposta all’alea di pronunce giurisprudenziali che negli anni avevano offerto conclusioni tutt’altro che univoche, aveva consigliato di procedere ad una regolamentazione espressa.

Con la riforma del 1997, è stata confermata l’esigenza di una loro espressa tassazione, ma, anziché qualificarle come, redditi assimilati, sono state collocate nella lett. i) del co. 2 dell’art. 48 (ora art. 51) del TUIR escludendole, seppure solo in parte, dalla tassazione.

Come l’Amministrazione finanziaria, a suo tempo,  si preoccupò immediatamente di precisare quella delle mance dei croupiers è l’unica ipotesi “in cui le mance sono assoggettate a tassazione per un importo ridotto” (così nella Cir. n. 326/1997, cit.),  rammentando che la disposizione normativa conferma espressamente che “costituiscono redditi di lavoro dipendente tutte le somme e i valori che il dipendente percepisce nel periodo di imposta, a qualunque titolo anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro e, quindi, tutti quelli che siano in qualunque modo riconducibili al rapporto di lavoro, anche se non provenienti direttamente dal datore di lavoro”; nella circolare esplicativa veniva offerta, altresì,  una elencazione puramente esplicativa delle somme astrattamente tassabili nella quale si rinvengono, se erogate in connessione di un rapporto di lavoro: “le mance, nella integrale misura corrisposta, salvo che per i croupiers, per i quali è stata mantenuta la riduzione della base imponibile del 25%”.

  1. Questa ricostruzione che, come si è già segnalato, non trova riscontro nella dottrina prevalente, è stata pienamente condivisa dalla Suprema Corte che ha anche escluso ogni possibilità di estendere la previsione della tassazione  ridotta delle mance dei croupier ad altre tipologie di lavoratori. D’altro canto, e a prescindere dalla sua condivisione, essa impone qualche ulteriore riflessione sotto un profilo squisitamente pratico – applicativo. E’ stato, infatti, osservato che una simile soluzione solleva una serie di criticità:  non è chiaro come possa avvenire la tassazione di tali somme “fisiologicamente”, essendo piuttosto difficile pensare che il datore di lavoro (o i clienti) possano esplicare in tal caso il ruolo di sostituti d’imposta (tra gli altri,  TESAURO, Ancora sulle mance, cit., p. 1306,  e MASTROIACOVO, op. cit., p. 383). Inoltre, la circostanza che esse vengano di solito erogate in contanti fa sì che sfuggano più facilmente ai controlli (si v. CARFAGNINI e CAPOGROSSI, Incluse nel reddito imponibile le mance corrisposte dai clienti al lavoratore dipendente, in Corr. Trib. 2021,  1073).

Dando uno sguardo veloce a ciò che accade fuori dal territorio nazionale, ciò che emerge è che in molti paesi proprio la mancanza di una espressa regolamentazione normativa ha fatto sì che le mance esulino dalla base imponibile dei lavoratori e non rilevino neanche ai fini contributivi (così ad esempio in Germania, in Polonia e in Spagna).  Diversamente da quanto accade negli USA dove le mance, rappresentando una quota anche molto importante dei compensi per molte categorie di lavoratori con retribuzioni molto basse, devono essere oggetto di un rendiconto dettagliato e ogni anno denunciate al fisco. Le mance non vanno confuse, inoltre, con il costo del servizio spesso previsto nel conto finale (soprattutto nei ristoranti dei paesi anglosassoni, come in Gran Bretagna): in questo caso le somme corrisposte dal cliente vanno all’imprenditore e non al singolo lavoratore ed il primo non ha nessun obbligo di riversarle in tutto o in parte al secondo.

In conclusione, se si vuole valorizzare il dato normativo e non ridurre le conclusioni della Suprema Corte ad un mero esercizio teorico, un intervento del legislatore che espliciti gli aspetti applicativi appare certamente la via preferibile, risultando poco praticabile quella dei controlli.