argomento: Sanzioni e contenzioso - Legislazione e prassi
La reintroduzione della prova testimoniale nel diritto processuale tributario italiano, disciplinata dal comma 4 dell’art. 7 d.lgs. 546/92, riformato dalla Legge 130/2022, art. 4, c. 1, lett. c), impone necessariamente una valutazione dell’ammissibilità e della portata applicativa delle dichiarazioni dei terzi rese in fase procedimentale quali prove atipiche dal mero valore indiziario. Occorre analizzare l’istituto della prova testimoniale alla luce della differente disciplina prevista per le dichiarazioni dei terzi prodotte con atto notorio o nel corso della verifica fiscale. I mezzi di prova messi a disposizione di tutte le parti processuali devono garantire l’effettività del principio costituzionale del giusto processo attraverso il rispetto della parità delle parti.
PAROLE CHIAVE: prova testimoniale - dichiarazioni dei terzi - mezzi di prova - giusto processo - parità delle armi
di Stefano Gargano
1. Tra le significative novità della tanto agognata riforma del processo tributario vi è la possibilità per il Giudice, ex art. 7, c. 4, d.lgs. 546/92, di ammettere la prova testimoniale in forma scritta ai sensi dell’art. 257 bis c.p.c., limitatamente all’ipotesi in cui la stessa, dopo un’adeguata valutazione, risulti “necessaria” ai fini della decisione.
Trattasi, in realtà, di un istituto non completamente nuovo nel diritto processuale tributario, in quanto, pur se mai disciplinato normativamente, prima dell’entrata in vigore del DPR n. 739/1981, la dottrina e la giurisprudenza degli anni Settanta già argomentavano in relazione all’ammissibilità in giudizio della prova testimoniale.
In particolare, la dottrina, in attuazione del principio del giusto processo ex art. 111 Cost., riteneva la prova testimoniale ammissibile nel corso del giudizio, pur se con dei limiti rispetto al giudizio civile (ALLORIO, Diritto processuale tributario, 1955, Utet, Torino, p. 354; La Rosa, La fase istruttoria nel processo avanti alle commissioni tributarie, in Boll. Trib., 1982, p. 1259 ss.; CANTILLO, Il processo tributario, Editoriale Scientifica, Napoli, 2014, p. 253;), benché fosse particolarmente rara la sua effettiva applicazione dinanzi al Giudice (L. TOSI, Testimonianza scritta e testimonianza orale, nel processo tributario, in Riv. dir. Trib., n. 6/2010, p. 761 ss.; F. MAFFEZZONI, La prova nel processo tributario, in Boll. Trib., 1977, 23, p. 1697 ss.).
Di contro, la giurisprudenza della Commissione Tributaria Centrale, riconoscendo l’acceso dibattito dottrinale e giurisprudenziale sul punto, riteneva che “l’ammissibilità di tali prove era tutt’altro che pacifica anche prima dell’emanazione delle norme integrative e correttive del decreto sul contenzioso, DPR 26-10-1972, n. 636 disposte con DPR 3-11-1981, n. 739, le quali, modificando l’art. 35, hanno espressamene dichiarato non ammissibile la prova testimoniale innanzi alle Commissioni tributarie” (Sentenza n. 570 del 02.05.1983).
Solamente con la modifica dell’art. 35 DPR n. 636/72 apportata dall’art. 23 DPR n. 739/81, è stato, poi, introdotto per la prima volta, in violazione della tutela del diritto di difesa del contribuente, il divieto del giuramento e della prova testimoniale, statuendone la non ammissibilità nel processo tributario, confermata successivamente anche dall’art. 7, c. 4, d.lgs. 546/1992.
Pertanto, dal 01.01.1982, data di entrata in vigore del DPR n. 739/81, sino al 16.09.2022, giorno in cui è divenuta operativa l’ammissibilità della prova testimoniale nel processo tributario con la riforma introdotta dalla L. 130/2022, la dottrina e la giurisprudenza sono state artefici di un ampio dibattito, ove le concordi teorie hanno ravvisato l’esclusione della prova testimoniale dinanzi al Giudice tributario, come violazione dei principi del giusto processo e parità delle armi, impedimento all’esercizio della difesa di parte privata ed ostacolo all’accertamento dei fatti da parte del Giudice (F. AMATUCCI, Principi e nozioni di diritto tributario, Giappichelli, Torino 2023, p. 478) con conseguente limitazione della ricostruzione della verità e del diritto alla prova (GALLO, L’istruttoria nel sistema tributario, in Rass. Trib., 1/2009, p. 25).
La successiva disciplina del 1992, nel ribadire il divieto di prova testimoniale, la cui ratio era da identificare nel carattere documentale della prova in materia tributaria, nella complessità dell’attività processuale e nella tendenza dei testimoni a sostenere la tesi del contribuente, suscitava incertezze e dubbi da parte della dottrina (TESAURO, Il processo dinanzi alle Commissioni tributarie, in Fin. loc., 11/1999, p. 1469), in quanto non sempre la disciplina sostanziale richiedeva che i fatti con rilevanza tributaria fossero documentati per iscritto.
Peraltro, alcuni elementi probatori potevano essere accertati esclusivamente mediante la testimonianza e risultava del tutto pretestuosa l’asserita difficoltà per i Giudici di assumere una prova testimoniale. Tale critica era volta, non ad assurgere la prova testimoniale ad elemento probatorio principale, ma ad individuare in quest’ultima il mezzo necessario per facilitare l’individuazione della verità in ambito tributario e per assicurare e garantire anche in capo al contribuente il rispetto dei principi costituzionali quali il diritto di difesa e la parità delle armi in ambito processuale.
Infatti, il divieto della prova testimoniale, introdotto nel 1981 e confermato dal d.lgs. del 1992, si è posto in contrasto con la realtà fattuale con cui si imbattono e si sono imbattuti i difensori tributari, innanzi alle attuali Corti di Giustizia Tributaria. Troppo frequentemente, i Giudici di merito hanno fondato le proprie decisioni, in favore della parte pubblica, esclusivamente sulla base delle risultanze di dichiarazioni di terzi acquisite in sede extraprocessuale e riportate nel PVC della G.d.F., in quanto gli elementi posti a fondamento della pretesa impositiva dell’A. F. venivano considerati ritualmente probatoriamente “più forti”. Ciò, determinava un forte squilibrio tra le parti processuali, in violazione del principio di parità delle armi (artt. 3 e 111 Cost.).
Lo sbilanciamento in favore di parte pubblica ed i limitati poteri di prova cui potevano attingere i contribuenti, hanno indotto cautamente la giurisprudenza a limitare la portata applicativa del divieto della prova testimoniale, stabilendo così l’ammissibilità delle prove atipiche quali le dichiarazioni dei terzi fornite mediante atto notorio, nel rispetto del principio del giusto processo.
2. Nel tempo, però, la giurisprudenza di merito ha avuto orientamenti contrapposti in relazione all’ammissibilità ed alla valenza probatoria di tali prove atipiche. Alcune Commissioni di merito, infatti, sostenevano l’inammissibilità delle dichiarazioni dei terzi per violazione del divieto della prova testimoniale ex art. 7, c. 4 d.lgs. 546/92, equiparandole alle prove testimoniali (CTP Reggio Emilia n. 89/1999; CTP Palermo n. 421/1999; CTP Venezia n. 60/1997); altre Commissioni tributarie, invece, aderendo all’opposto filone interpretativo, ritenevano le stesse dichiarazioni quali prove utilizzabili come semplici argomenti di prova o indizi del fatto (CTP Brescia n. 227/1998; CTR Reggio Emilia n. 40/1999).
Sul fondamento di tali opposti orientamenti giurisprudenziali la CTP di Chieti, con ben due ordinanze, e la CTP di Torino, sollevavano questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, c. 4 d.lgs. 546/92 che prevedeva l’esclusione della prova testimoniale nel processo tributario.
Il Collegio della CTP di Chieti sosteneva l’incostituzionalità del divieto della prova testimoniale, in relazione agli artt. 3, 24 e 53 Cost., in quanto determinava un’ingiustificata disparità di trattamento tra le parti del processo. Altresì, la CTP di Torino considerava il divieto della prova testimoniale quale elemento lesivo del principio di uguaglianza e del diritto di difesa per l’impossibilità del contribuente di esporre in giudizio elementi probatori fondamentali per la decisione della controversia.
La Corte Costituzionale, non reputando fondate le questioni di legittimità costituzionale, con la sentenza n. 18/2000 ha escluso che il divieto di prova testimoniale “possa collidere con il principio di parità delle armi che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, rappresenta l’espressione in campo processuale del principio di eguaglianza evocato dal rimettente”, sostenendo che “l’esclusione della prova testimoniale nel processo tributario non costituisce, di per sé, violazione del diritto di difesa, potendo quest’ultimo essere diversamente regolato dal legislatore, nella sua discrezionalità, in funzione delle peculiari caratteristiche dei singoli procedimenti”. Con tale pronuncia, tuttavia, venivano riconosciute ammissibili le prove atipiche nel processo tributario, non rientranti nella tipologia legale di mezzi di prova in quanto non previste da alcuna norma di legge, identificabili nelle dichiarazioni extraprocessuali, rese nella forma di atto notorio, da soggetti terzi rispetto alle parti in causa, assoggettate alla valutazione di attendibilità dal parte del Giudice (A. R. CIARCIA, Prove, indizi e presunzioni in Diritto processuale tributario, a cura di F. Amatucci, Giappichelli, Torino, 2020, p. 187; PISTOLESI, Il processo tributario, Giappichelli, Torino, 2001, p. 127). Nonostante la limitata valenza probatoria di tali prove atipiche, stante lo sproporzionato utilizzo dello strumento presuntivo da parte dell’Amministrazione finanziaria, le dichiarazioni dei terzi innanzi le Commissioni tributarie erano destinate ad assumere un ruolo sempre più crescente e centrale (PACE, Il valore della prova testimoniale e della prova indiziaria, in Corr. Trib., 49/2003, p. 3312).
Dunque, solamente l’effettiva e concreta possibilità per il contribuente di disporre dei medesimi mezzi di prova concessi all’Amministrazione finanziaria, poteva rappresentare la garanzia dei principi processuali costituzionalmente garantiti.
Anche la Corte europea dei Diritti dell’Uomo si è pronunciata sulla possibilità di introdurre le dichiarazioni di terzi nel processo tributario. In tale giudizio il contribuente, Esa Jussilla, sosteneva di non essere stato in grado di difendersi in modo adeguato poiché il sistema tributario finlandese non prevedeva l’udienza pubblica e la possibilità di ricorrere alla prova testimoniale che era, secondo il ricorrente, l’unico strumento che gli avrebbe permesso di superare i presupposti su cui si fondava la pretesa tributaria. La Corte ha ritenuto, con la sentenza n. 73053/01 del 23.11.2006, non necessaria l’oralità della prova testimoniale, poiché al contribuente era stata già concessa, dal Tribunale amministrativo la possibilità di allegare alle proprie difese una relazione scritta redatta da un esperto del settore, scelto dal ricorrente stesso, senza essere necessaria la testimonianza in senso stretto. Con tale pronuncia, quindi, la Corte europea ha riconosciuto la possibilità per il contribuente di integrare, a fondamento delle proprie ragioni, il ricorso con dichiarazioni scritte di terzi, ma non la possibilità di ricorrere alla prova testimoniale.
Anche la Suprema Corte di Cassazione, intervenuta sul punto con la pronuncia n. 5957/2003, uniformandosi alla teoria della Consulta, ha indicato ai Giudici di merito il principio di diritto secondo cui, in attuazione dell’art. 111 Cost., è necessario riconoscere al contribuente, al pari dell’Amministrazione finanziaria, la possibilità di introdurre nel giudizio innanzi alle Commissioni Tributarie le dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale, mediante atto notorio, sia che siano rese alla parte pubblica, sia che siano rese al contribuente e tali dichiarazioni assurgono a rango di indizi che necessitano di una valutazione congiunta unitamente ad altri elementi da parte del Giudice di merito. Il presupposto di tale principio di diritto traeva origine dal fatto che il comma 4, dell’art. 7 in oggetto, vietava esclusivamente il giuramento e la prova testimoniale, pertanto, le dichiarazioni dei terzi potevano operare esclusivamente come mero elemento dal valore indiziario, che ai fini della prova doveva essere supportato da altro materiale probatorio.
I Giudici di legittimità, in applicazione dei dettami della Corte Costituzionale e della CEDU, hanno più volte ribadito, richiamando i principi già espressi, il valore probatorio delle dichiarazioni testimoniali nel processo tributario, specificando in altre occasioni che le dichiarazioni rese da un terzo alla G.d.F. e trasfuse nel PVC hanno esclusivamente valore indiziario, che concorrono a formare il convincimento del giudice solo insieme ad altri elementi e che anche il contribuente può contestare la pretesa dell’Amministrazione finanziaria, introducendo nel giudizio di merito le dichiarazioni di terzi rese in sede extraprocessuale (Cass. nn. 12130/2022, 27469/2020, 25362/2007, 22519/2013, 21813/2012). Infatti, nel processo tributario erano vietate esclusivamente le dichiarazioni orali di terzi rese nel corso del giudizio, non l’utilizzabilità di dichiarazioni scritte rese da un terzo fuori dalla sede processuale (Cass.9552/2013). In tal senso, si sono pronunciate anche le Sezioni Unite, con la sentenza n. 24823/2015, ribadendo che “il potere di introdurre in giudizio dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale, con il valore probatorio di elementi indiziari, compete non solo all’Amministrazione finanziaria, che tali dichiarazioni abbia raccolto nel corso dell’indagine amministrativa, ma altresì, con il medesimo valore probatorio, al contribuente”.
Anche più di recente vi sono stati orientamenti della giurisprudenza di merito (CTP Taranto n. 391/2022; CTP Salerno n. 1554/2022; CTP Napoli n. 3091/2021; CTR Sardegna n. 39/2021) che non hanno applicano correttamente i principi di diritto menzionati. È stato attributo, infatti, valore di prova certa alle dichiarazioni dei terzi rese nel PVC redatto dalla Guardia di Finanza, anche senza il supporto di ulteriori elementi indiziari e di contro sono state giudicate inammissibili le dichiarazioni stragiudiziali rese da terzi in favore del contribuente, ponendo come impedimento il presupposto della irrilevanza probatoria di tali prove atipiche. Tali interpretazioni rappresentano, senza ombra di dubbio, un ossimoro in quanto il Giudice di merito non può dichiarare inammissibili a priori le dichiarazioni di terzi in favore del contribuente e ritenere, invece, valide le stesse dichiarazioni favorevoli all’Amministrazione finanziaria. Tale conclusione sarebbe del tutto contraria ai principi costituzionalmente garantiti di parità delle armi e del giusto processo e lesiva del diritto di difesa.
3. Era quindi forte l’esigenza, prima dell’entrata in vigore del nuovo art. 7 del d.lgs. n. 546/1992, in conformità alle pronunce ed indicazioni della giurisprudenza europea, ai principi comunitari ed all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo, di regolamentare ed introdurre la prova testimoniale nel processo tributario, ai fini dell’effettiva attuazione dei principi di giusto processo e parità delle armi, sanciti normativamente ma mai concretamente attuati. Alla luce di ciò, la Legge 130/2022, art. 4, c. 1, lett. c), entrata in vigore il 16.09.2022, ha modificato l’art. 7, c. 4, d.lgs. 546/92 statuendo che “Non è ammesso il giuramento. La corte di giustizia tributaria, ove lo ritenga necessario ai fini della decisione e anche senza l'accordo delle parti, può ammettere la prova testimoniale, assunta con le forme di cui all'articolo 257-bis del codice di procedura civile. Nei casi in cui la pretesa tributaria sia fondata su verbali o altri atti facenti fede fino a querela di falso, la prova è ammessa soltanto su circostanze di fatto diverse da quelle attestate dal pubblico ufficiale”.
Si deve rilevare in proposito che l’introduzione della prova testimoniale nel processo tributario segna un punto di svolta verso l’ampliamento dei mezzi di prova a disposizione delle parti, volto a ridurre lo squilibrio processuale tra Amministrazione finanziaria e contribuente. Occorre considerare, altresì, che il novellato articolo 7, c. 4, d.lgs. 546/92, per garantire effettivamente la parità tra A. F. e contribuente, necessita di ulteriori interventi normativi in quanto, la novella nell’ammettere “la prova testimoniale, assunta con le forme di cui all’articolo 257-bis del codice di procedura civile”, ne limita, in maniera rilevante, l’applicazione ai soli casi in cui questa sia ritenuta effettivamente necessaria dal Giudice ai fini della decisione.
Dunque, la disciplina prevede che l’assunzione della deposizione deve essere preceduta dal giudizio di ammissione di tale mezzo di prova con cui il Giudice è chiamato ad una valutazione discrezionale di utilità ed indispensabilità della prova testimoniale che, nella pratica, sembra inopportuno e troppo vago. Difatti, con tale limite, sembra esserci un onere eccessivamente gravoso in capo alla parte che intende avvalersi della prova testimoniale in quanto la relativa istanza, ai fini della dimostrazione del requisito della necessità e dell’ammissione da parte dei Giudici della Corte di Giustizia Tributaria, deve essere particolarmente dettagliata e adeguatamente motivata.
La valutazione del requisito della necessità, invero, sembra rappresentare, in attesa dei primi orientamenti giurisprudenziali sul punto, un requisito troppo restrittivo all’applicazione della prova testimoniale in ambito tributario in quanto di difficile attuazione, sia da parte dei difensori, che dei Giudici. Ciò imporrebbe in capo alle Corti di Giustizia un ulteriore problematico apprezzamento dei fatti di causa che, tra l’altro, potrebbe causare una maggiore lungaggine dei processi in ambito tributario, connotati invece dalla tempestività di trattazione. Parte della dottrina (G. Melis, “Giustizia tributaria: obiettivi centrati, ma restano problemi ancora aperti”, in Guida al Diritto - Il Sole - 24 Ore n. 35 del 24 settembre 2022), al riguardo individua quale requisito limitativo più congruo, in luogo della necessità, quello della rilevanza (P. FORMICA e C. GUARNACCIA, Commento alla normativa in il fisco, n. 41/2022, p. 3913), inteso come utilità, per una semplificazione dimostrativa in capo al difensore e di analisi da parte del Giudice, al fine di garantire all’istituto una maggiore portata applicativa e per non vanificare l’importante intervento normativo.
Sotto questo aspetto, in ottica di semplificazione, potrebbe sostituirsi la preventiva valutazione della necessità della prova testimoniale con un più semplice successivo apprezzamento, da parte delle Corte di Giustizia Tributaria, della testimonianza precedentemente depositata agli atti, al fine di non compromettere la celerità dei processi tributari. Verrebbe meno, in tal modo, l’istanza predisposta dai difensori ed il momento di ammissione da parte del Giudice ex art. 695 cpc che, inevitabilmente, determina la fissazione di ulteriori termini ed udienze. La modalità di ammissione della prova, prevista ai sensi dell’art. 257 bis cpc, dà luogo infatti, inevitabilmente, al dilatamento dei tempi processuali in quanto, con l’ordinanza di ammissione della testimonianza, il Giudice dovrà indicare un termine per notificare al teste il modulo predisposto e l’ulteriore termine entro cui il testimone sarà tenuto a rispondere ai quesiti postigli. Compilato il modello, il teste dovrà far autenticare dal segretario comunale o dal cancelliere di un ufficio giudiziario le sue sottoscrizioni poste a conclusione di ogni risposta e provvedere all’invio dello stesso in busta chiusa e sigillata alla cancelleria della Corte.
Ma uno dei maggiori limiti alla prova testimoniale del ricorrente, ancor più stringente rispetto al requisito della necessità, riguarda la confutazione delle dichiarazioni acquisite dai verbalizzanti in fase procedimentale. È infatti stato previsto dal secondo periodo del comma 4, art. 7 d.lgs. 546/92 che, nella parte in cui la norma vieta la testimonianza nel caso in cui la pretesa fiscale sia fondata su verbali o altri atti facenti fede fino a querela di falso, restringendone significativamente l’ambito di applicazione, la prova testimoniale è ammessa solo su circostanze di fatto diverse da quelle attestate dal Pubblico ufficiale. Ne deriva che, in presenza di un PVC contenente dichiarazioni di terzi, il contribuente non potrebbe confutare tali risultanze con la prova testimoniale, bensì solo con querela di falso; il limite alla testimonianza opererebbe in particolare per la contestazione della veridicità del contenuto della dichiarazione. Non sarebbe ammissibile, pertanto, la prova testimoniale utilizzata dal contribuente per confutare il contenuto della dichiarazione del terzo resa mediante atto pubblico. Seguendo un’interpretazione estensiva della norma, il contribuente, che intende opporsi alle risultanze ed ai fatti storici su cui si fonda la dichiarazione contenuta nel PVC, dovrebbe preliminarmente proporre querela di falso e solo successivamente chiedere al Giudice di ammettere la prova testimoniale in relazione a quella precisa fattispecie. Invero, lo specifico limite previsto dal comma 4 citato, contrariamente all’obiettivo del Legislatore di rendere effettiva la parità delle armi in ambito processuale tra parte pubblica e privata, fa sì che la dichiarazione del terzo resa in sede extraprocessuale alla G.d.F. non assurga più a rango di mero indizio, bensì quale elemento di prova la cui veridicità è difficilmente confutabile dal contribuente, determinando una posizione di privilegio per l’A. F. e vanificando del tutto la possibilità di addivenire definitivamente alla parità processuale delle parti in ambito tributario. Dunque, il verbale della Guardia di Finanza, su cui si fonda la pretesa fiscale, può essere confutato unicamente mediante querela di falso e non può essere oggetto di articolata prova testimoniale (F. AMATUCCI, Principi e nozioni di diritto tributario, Giappichelli, Torino, 2023, p. 480).
Il comma 4 dell’art. 7 d.lgs. 546/92 è, pertanto, fortemente contraddittorio nell’ammettere la prova testimoniale, limitandone, però, l’ambito di applicazione ad ipotesi sostanzialmente residuali.
Questo considerevole limite unitamente alle lungaggini procedimentali, e quindi del presunto limitato utilizzo dell’istituto della prova testimoniale nel corso del processo, a parere di chi scrive deve far ritenere ancora ammissibili, nei giudizi innanzi le Corti di Giustizia Tributaria, le dichiarazioni di terzi rese mediante atto notorio, in virtù, peraltro, della rilevante evoluzione giurisprudenziale maturata in tale ambito, in quanto ancora unico strumento volto a garantire, seppur limitatamente, tutela al contribuente.
Il consolidato orientamento giurisprudenziale esaminato, in tema di efficacia delle dichiarazioni di terzi, non può, di certo, essere vanificato dall’introduzione della prova testimoniale nel diritto processuale tributario. In ogni caso, entrambi i mezzi di prova devono, e di fatto possono, coesistere e risultare di pari efficacia in quanto la recente riforma con l’introduzione della prova testimoniale ha quale obiettivo quello di ampliare i mezzi istruttori esperibili sia dall’Amministrazione finanziaria, che dal contribuente, al fine di rendere più agevole l’accertamento della verità dei fatti innanzi al Giudice tributario.
A tal riguardo la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 22302 del 15.07.2022 ha affermato che le dichiarazioni del terzo non possono assurgere a rango di prove esclusive, né essere idonee di per sé a fondare il convincimento del Giudice. Va comunque evidenziato che “al contribuente, oltre che all’amministrazione finanziaria, è riconosciuta - in attuazione del principio del giusto processo di cui all’art. 6 CEDU, a garanzia della parità delle armi e dell’attuazione del diritto di difesa - la possibilità di introdurre, nel giudizio dinanzi alle commissioni tributarie, dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale aventi, anche per il contribuente, il valore probatorio proprio degli elementi indiziari” (Cass. 30209/2021). Tale giurisprudenza trae spunto dal consolidato orientamento secondo cui “il divieto di prova testimoniale previsto dal d.lgs. 546 del 1992, art. 7 si riferisce alla prova testimoniale da assumere con le garanzie del contraddittorio e non implica, pertanto, l’impossibilità di utilizzare, ai fini della decisione, le dichiarazioni che gli organi dell’amministrazione finanziaria sono autorizzati a richiedere anche ai privati nella fase amministrativa di accertamento e che, proprio perché assunte in sede extraprocessuale, rilevano quali elementi indiziari che possono concorrere a formare, unicamente ad altri elementi, il convincimento del giudice. Il potere di introdurre dichiarazioni di terzi rese in sede extraprocessuale opera, con il medesimo valore probatorio, anche per la parte contribuente … La valenza indiziaria riconosciuta alle dichiarazioni di terzi anche in favore della parte contribuente costituisce, infatti, concreta attuazione dei principi del giusto processo ex art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), ratificata e resa esecutiva dalla L. 4 agosto 1955, n. 848 … e garantisce il principio di parità delle armi processuali, nonché l’effettività del diritto di difesa” (Cass. 9903/2020). La giurisprudenza di Cassazione citata, ha confermato, quindi, che le dichiarazioni extraprocessuali di terzi, rese nella forma di atto notorio, in applicazione della sentenza della Corte Costituzionale n. 18/2000, non rientrano nell’istituto della prova testimoniale e, pertanto, sono ammissibili nel processo tributario e rappresentano elementi indiziari che acquistano valenza probatoria se integrate con ulteriori elementi di prova.
Anche la più recente giurisprudenza di legittimità, successiva all’entrata in vigore della recente riforma, con l’ordinanza n. 35314 del 30.11.2022, ritiene che le dichiarazioni di terzi “valgono come indizio ammissibile ed utilizzabile tanto dall’Amministrazione quanto dal contribuente nel rispetto del principio di parità delle armi di cui all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, espressione del principio di uguaglianza ai fini dell’art. 3 Cost. (Cass. n. 31588 del 2021)”.
Tale ordinanza ribadisce, anche in materia tributaria, l’attuazione dei principi del giusto processo e parità delle armi, garantiti costituzionalmente dall’art. 111 Cost, in ambito sovranazionale dall’art. 6 CEDU e art. 47 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e riconosciuti dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo. Ciò al fine di favorire il bilanciamento degli interessi delle parti del processo, in quanto la parte contribuente, generalmente, è posta in una situazione di svantaggio rispetto all’A. f., la quale può assumere in sede extraprocessuale informazioni e prove testimoniali mediante l’utilizzo della polizia tributaria ex art. 51 DPR 633/72 ed art. 32 DPR 600/73.
Infatti, se è vero che le dichiarazioni di terzi acquisite in fase istruttoria possono essere utilizzate dal fisco e poi valutate dal Giudice di merito, allo stesso modo, il contribuente può fornire dichiarazioni di terzi in suo favore, che devono altresì essere apprezzate dal Giudice, insieme ad altri elementi indiziari convergenti. Le dichiarazioni di terzi, depositate dall’Amministrazione e dal contribuente, si pongono, quindi, su uno stato di parità assoluta, potendo certamente concorrere a formare il libero convincimento del Giudice, unitamente alle altre risultanze probatorie.
È pacifico, quindi, ritenere che il valore probatorio delle prove atipiche, quali dichiarazioni di terzi, è quello proprio degli indizi (DI SALVO, La motivazione degli accertamenti parziali: le prove atipiche, in Riv. giur. trib., 11/2006, p. 1004), che configurano una fattispecie la cui veridicità ha un alto grado di attendibilità.
L’ammissibilità della prova testimoniale, prevista dalla L. 130/2022, limitata eccessivamente dai requisiti di necessità e dai verbali ed atti facenti fede fino a querela di falso, rischia di porsi in contrasto con gli attuali orientamenti giurisprudenziali di legittimità in tema di dichiarazioni di terzi. Infatti, è necessario che i Giudici di merito, in applicazione dei dettami della Suprema Corte, ritengano sempre, ed in ogni modo, ammissibili nel processo innanzi alle Corti di Giustizia Tributaria le dichiarazioni di terzi rese mediante atto notorio, valutabili come elementi indiziari nel complesso del materiale probatorio allegato dalla parte.
Dalle prime pronunce di merito, successive alla riforma, non sembra essere mutato l’orientamento giurisprudenziale sul punto. Infatti, la CGT II° del Piemonte, con la sentenza n. 1002 del 03.11.2022, ha riconosciuto “che, al pari dell’A. f., anche il contribuente possa introdurre nel giudizio innanzi le Commissioni tributarie le dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale per far valere le proprie ragioni e tali dichiarazioni devono assurgere a rango di indizi” per non pregiudicare la difesa del contribuente ed il principio di uguaglianza delle parti.
In conclusione, il tentativo del Legislatore di dare attuazione al principio di parità delle armi in ambito processuale, mediante l’introduzione della prova testimoniale, è certamente apprezzabile, ma la riforma nel suo complesso non può ritenersi pienamente soddisfacente. I gravosi limiti alla prova testimoniale non pongono fine all’atavica criticità della disparità delle parti nel processo tributario, motivo per cui occorre un ulteriore intervento normativo sul punto, quantomeno per abolire il vincolo previsto dal secondo periodo del comma 4, art. 7 d.lgs. 546/92.