argomento: Sanzioni e contenzioso - Giurisprudenza
La pronuncia in commento, in relazione ad un caso di recupero ai fini IVA di un’imposta indebitamente detratta poiché afferente a operazioni ritenute soggettivamente inesistenti, torna sul tema dell’onere motivazionale gravante sul giudice tributario. La Corte, ritenendo meramente apparente e, dunque, nulla, la motivazione del giudice che abbia omesso di raffrontarsi con le risultanze istruttorie, offre spunti interessanti in tema di limiti vigenti per il sindacato, in sede di legittimità, del vizio di motivazione ex art. 360 c. 1 n. 4 c.p.c., e sul complesso ma inestricabile rapporto che deve insistere tra sindacato motivazionale e concrete risultanze del giudizio.
» visualizza: il documento (Corte di Cassazione, 8 settembre 2022, n. 26477)PAROLE CHIAVE: vizio di motivazione - motivazione apparente - fatture soggettivamente inesistenti
di Giulia Grimaldi
1. La pronuncia in commento torna a pronunciarsi sull’onere motivazionale posto in capo al giudice tributario, in un caso di recupero, ai fini IVA, di un’imposta indebitamente detratta poiché afferente a operazioni soggettivamente inesistenti.
È bene, in primo luogo, offrire una breve ricognizione della normativa vigente in materia di motivazione delle sentenze del giudice tributario, e di relativo controllo in sede di legittimità.
Come noto, l’articolo 132 c. 1 n. 4 c.p.c. dispone che la sentenza deve contenere “la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione”, ovvero, come specificato dall’art. 118 c. 1 disp. att. c.c., dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche sottese. La norma trova una sua trasposizione, per quanto concerne il giudizio tributario, nell’art. 36 c. 2 n. 4 del D. Lgs. 546/92. Tale sistema normativo rappresenta attuazione del precetto costituzionale di cui all’articolo 111, c. 6, Cost., il quale, prevedendo che “tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati”, cristallizza quel c.d. “minimo costituzionale” di motivazione, da osservare per garantire la possibilità di un effettivo controllo giurisdizionale sui provvedimenti del giudice.
Il sindacato sul rispetto dell’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali compete anche al giudice di legittimità, nei limiti dettati dall’art. 360 c. 1 c.p.c., norma che, definendo un procedimento a critica vincolata, contiene l’elenco tassativo dei motivi per i quali è possibile esperire ricorso in Cassazione.
Tale ultima disposizione è stata interessata, negli anni, da più interventi di riforma, che hanno sensibilmente modificato l’estensione del perimetro entro cui è possibile ricorrere, in sede di legittimità, per denunciare il vizio di motivazione.
Per quanto di nostro interesse, la norma è stata da ultimo modificata dall’art. 54 del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, che ha ritoccato la disciplina dei motivi di censura ricorribili in Cassazione intervenendo sull’art. 360 c. 1 n. 5 con l’eliminazione, dalla disposizione, del riferimento alla “motivazione”, e l’inserimento del motivo di ricorso per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, che sia stato oggetto di discussione tra le parti.
Con ciò si è, dunque, espunto il sindacato sulla “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione”, residuando, al di fuori dell’art. 360 c. 1 n. 5, la possibilità di far valere in Cassazione il vizio di motivazione solo ex art. 360 c. 1 n. 4, qualora, cioè, tale vizio sia ben più radicale, e, comportando la violazione del “minimo costituzionale di motivazione”, delineato dalle norme sopra riportate, si sostanzi in un’omissione della motivazione stessa, assurgendo così a error in procedendo tale da rendere nulla la sentenza impugnata.
All’esito della Riforma, si presentavano dunque – almeno apparentemente – ben distinte le due ipotesi: quella del vizio, radicale e intrinsecamente rilevabile, di motivazione omessa, che comporta la nullità della sentenza ed è ricorribile come tale ex art. 360 c. 1 n. 4, e quella del vizio di motivazione “in fatto”, che, rapportata alle risultanze processuali, risulti carente per l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, ricorribile ex art. 360 c. 1 n. 5 negli stringenti limiti individuati dalla norma (primo fra tutti, in virtù del combinato disposto con l’art. 348-ter c.p.c., il limite alla deducibilità della censura in caso di doppia conforme, cioè nel caso di rigetto dell’impugnazione, da parte del giudice d’appello, per le stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste alla base della decisione impugnata).
Ciò con lo scopo, espressamente dichiarato nei lavori parlamentari, di implementare la ragionevole durata del processo, mirandosi a “evitare l’abuso dei ricorsi per Cassazione basati su vizi di motivazione non strettamente necessitati da precetti costituzionali”, rilevata la tendenza delle parti a strumentalizzare il vizio di motivazione contraddittoria o insufficiente.
Tuttavia, una simile rigorosa distinzione si presenta nella prassi con contorni spesso ben più sfumati, non essendo possibile, come vedremo, astrarre il controllo motivazionale dal raffronto con le risultanze istruttorie.
2. All’uopo, giova confrontare la norma, per come da ultimo modificata, con gli approdi cui è giunta la giurisprudenza di legittimità, integrando il dato testuale della novella disposizione codicistica per comprendere come, a seguito della Riforma, debba essere interpretato il concetto di “omessa motivazione”, quale vizio denunciabile in sede di legittimità.
Di rilievo centrale è l’intervento della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con sentenza n. 8053/2014, volto a far chiarezza su come dovesse rapportarsi la modifica della disciplina civilistica rispetto al giudizio tributario; in particolare, la pronuncia investiva questioni quali l’applicabilità, anche alle controversie tributarie, della modifica dell’art. 360 c. 1 c.p.c; l’ambito applicativo della neointrodotta ipotesi di censura per “omesso esame circa un fatto decisivo”; l’estensione dello spazio che residuava, all’esito della modifica, per il sindacato di legittimità sulla motivazione del provvedimento impugnato (in senso critico rispetto alle implicazioni dell’intervento delle Sezioni Unite, v. l’autorevole commento di GLENDI, Ricorso per cassazione, processo tributario e decreto crescita, in GT, 1, 2014, pp. 101 ss.; in relazione alla sentenza delle SS.UU. cfr. anche DALLA BONTA’, Le Sezioni Unite enunciano l’applicabilità del riformulato art. 360, 1° comma, n. 5, c.p.c. e del meccanismo della c.d. doppia conforme al ricorso per cassazione in materia tributaria, in Dir. prat. trib., 2014, 3, pp. 460 ss.).
Su quest’ultimo profilo, la Cassazione a Sezioni Unite, rilevando che, a seguito della Riforma, l’esame del giudice di legittimità doveva intendersi circoscritto a quei soli rilievi necessitati dal precetto costituzionale che impone il rispetto del “minimo costituzionale”, identificava il vizio di motivazione ricorribile ex art. 360 c. 1 n. 4 con quel solo vizio, radicale, di mancanza della motivazione; doveva, peraltro, a parere della Corte, trattarsi di vizio testuale, cioè emergente immediatamente e direttamente dal testo del provvedimento impugnato, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.
Tale enunciazione – che pareva prima facie aderente alla netta distinzione introdotta nella norma di legge, volta a limitare fortemente, in sede di legittimità, il sindacato sulla motivazione – veniva in realtà fortemente stemperata in un duplice senso: in primo luogo la Corte, riallacciandosi ai propri precedenti, dava una ben ampia definizione di “motivazione mancante”, ricomprendendovi, oltre all’ipotesi di scuola della mancanza grafica della stessa, anche le ipotesi di “motivazione apparente”, di “motivazione manifestamente e irriducibilmente contraddittoria”, di motivazione “perplessa o obiettivamente incomprensibile”; d’altra parte, si suggeriva, comunque, la possibilità di ricondurre le aporie motivazionali che non rientrassero nell’ambito applicativo dell’art. 360 c. 1 n. 4 a quello dei diversi motivi di cui ai n. 3 e n. 5.
Si giungeva così, in un certo senso, a “neutralizzare” la portata restrittiva della modifica legislativa, evidenziando come la motivazione dovesse, comunque, identificarsi con la “giustificazione delle conclusioni”, la cui implausibilità potesse risolversi tanto, nelle ipotesi più radicali, in motivazione apparente, quanto, nelle altre ipotesi, nell’omesso esame circa un fatto decisivo.
Ne risultava, comunque, un quadro in parte contraddittorio, in cui, in relazione al controllo motivazionale in sede di legittimità, si sottolineava, da una parte, la necessità di valutare il vizio di motivazione sul piano, meramente astratto, del suo dato testuale in sé considerato, senza confrontarsi con le risultanze istruttorie; dall’altra, si riconducevano però al concetto di omessa motivazione, censurabile ex art. 360 c. 1 n. 4 c.p.c., ipotesi, quali l’apparente motivazione, che tipicamente sottintendono un necessario e ineludibile confronto con quelle stesse risultanze: per averne contezza, basti considerare la nozione di motivazione apparente, delineata in giurisprudenza come motivazione che, seppur graficamente esistente, ometta di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento, o li indichi senza un’approfondita disamina logica o giuridica, non consentendo, così, nonostante dia la parvenza di una giustificazione della decisione, di comprendere realmente le ragioni soggiacenti alla stessa.
3. Ebbene, la giurisprudenza successiva è poi a più riprese intervenuta, assumendo al riguardo, in talune occasioni, una posizione più chiara e più netta. È in questo solco che si colloca la pronuncia, indicata in epigrafe, qui impugnata.
Il caso sottoposto agli Ermellini originava da un recupero, ai fini IVA, dell’imposta indebitamente detratta in quanto riconducibile – secondo la tesi dell’Agenzia delle Entrate - a operazioni ritenute soggettivamente inesistenti.
A fronte del rigetto, da parte del giudice di primo grado, del ricorso del contribuente, quest’ultimo proponeva appello, sollevando avverso la sentenza impugnata le seguenti censure: in relazione all’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c., violazione delle norme sul riparto dell’onere probatorio in giudizio, per non aver la C.T.R. fatto ricadere sull’Agenzia delle Entrate l’onere della prova in merito all’oggettiva fittizietà del fornitore e alla conoscibilità del meccanismo frodatorio da parte del contribuente, addossando invece direttamente su quest’ultimo l’onere della prova contraria; in relazione all’art. 360 c. 1 n. 4 c.p.c., nullità della sentenza per vizio di motivazione, per aver la C.T.R. acriticamente aderito alla ricostruzione dell’Agenzia, e confermato così il provvedimento impugnato, senza indicare le ragioni, addotte dall’Ufficio, ritenute idonee a fondare la pretesa, né il motivo per cui le ragioni addotte dal contribuente fossero state ritenute inidonee a costituire prova contraria; si rilevava infine (impropriamente, a parere di chi scrive), in relazione all’art. 360 c. 1 n. 5 c.p.c., l’omesso esame di un fatto decisivo, per non aver la C.T.R. valutato l’assolvimento dell’onere probatorio posto a carico dell’Ufficio in relazione alla consapevolezza del contribuente della fraudolenza dell’operazione.
La Corte di Cassazione, ritenendo assorbiti gli altri motivi di ricorso (ma cogliendo l’occasione per ribadire, seppur in via meramente incidentale, l’orientamento, ormai consolidato, secondo il quale, in tema di fatture soggettivamente inesistenti, l’onere della prova presuntiva circa la fittizietà del fornitore e la conoscibilità della frode deve essere posto in capo all’Amministrazione, e, solo qualora quest’ultima abbia assolto al proprio onere probatorio, il contribuente debba essere poi gravato della prova contraria), ha accolto la censura proposta in relazione all’art. 360 c. 1 n. 4, ritenendo nulla la sentenza impugnata per essere incorsa nel vizio di omessa motivazione, in violazione dell’art. 132 c. 1 n. 4 c.p.c. e 36 c. 2 n. 4 D. Lgs. 546/1992 - norme attuative del precetto costituzionale di cui all’art. 111, c. 6 Cost. -, per aver la stessa offerto una motivazione meramente apparente.
Al riguardo, la Corte riprende i propri consolidati precedenti giurisprudenziali, sulla scia degli approdi – di cui sopra si è accennato – delle Sezioni Unite secondo cui debbono ritenersi nulle, per omessa motivazione, non solo le sentenze nelle quali manchi graficamente la motivazione, ma anche quelle in cui la stessa sia meramente apparente, poiché, non consentendo di comprendere l’iter logico-giuridico seguito dal giudice per pervenire alla decisione, viene meno alla finalità sua propria, ovvero quella di “esternare un ragionamento che, partendo da determinate premesse, pervenga con un certo procedimento enunciativo, logico, e consequenziale, a spiegare il risultato”. Una motivazione, come specifica la Corte, che non indichi su quali prove il giudice ha fondato il proprio convincimento e sulla base di quali argomentazioni si è giunti alla determinazione assunta, non permette infatti di verificare se l’organo giurisdizionale ha giudicato “iuxta alligata et probata”, non consentendo un controllo giurisdizionale effettivo sulla pronuncia emanata, e non rispondendo così al requisito del “minimo costituzionale” di motivazione.
Tale nozione di motivazione apparente viene poi declinata dagli Ermellini nello specifico ambito dei giudizi di impugnazione, nei quali, si rileva, è sì consentito ricorrere alla tecnica redazionale della c.d. “motivazione per relationem”, la quale rinvii ad altro provvedimento giurisdizionale esterno al giudizio, ad atto processuale di causa o, come nel caso di specie, alla sentenza di primo grado, non essendo richiesta ai provvedimenti giurisdizionali l’originalità dei contenuti, a condizione che, pur tuttavia, la sentenza così motivata abbia comunque cura di richiamare, e confrontarsi, con le specifiche censure oggetto di impugnazione, esplicitando le ragioni per le quali si è eventualmente ritenuto di disattenderle, non appiattendosi sulla mera adesione al provvedimento che si intenda richiamare, ma dimostrando, piuttosto, di aver criticamente vagliato e fatto proprie le ragioni della decisione, che devono, sempre e comunque, essere chiaramente e univocamente attribuibili al giudice (sul punto, cfr. Corte di Cassazione, SS.UU., sentenza n. 642/2015; v. anche MARINO, Quid iuris, nel caso in cui la motivazione della sentenza riproduca testualmente gli atti di parte?, in GT, 2019, 8-9, pp. 714 ss.).
Ebbene, la Corte ha ritenuto che la pronuncia di secondo grado, nel caso di specie, non abbia fatto corretta applicazione dei principi sopra riportati, limitandosi a richiamare a sostegno della propria decisione, sotto forma di enunciazioni astratte, una serie di massime giurisprudenziali e confermando il provvedimento appellato senza operare alcun tipo di raffronto con la fattispecie concreta, e rigettando l’appello del contribuente con il quale si censurava la sentenza di primo grado, tra gli altri motivi, anche per non aver la stessa rilevato il difetto di motivazione dell’atto impositivo, senza però nulla dire né sul profilo delle ragioni per cui dovesse ritenersi assolto l’onere della prova a carico dell’Amministrazione, né su quello delle ragioni per le quali, invece, dovesse ritenersi che il contribuente non avesse offerto prova contraria. La motivazione della sentenza risulta pertanto, nel giudizio della Cassazione, omessa poiché meramente apparente, in quanto inidonea a far comprendere il percorso logico-argomentativo della decisione, e, ancor prima, non autosufficiente (nel senso che dalla sola lettura della stessa non è possibile discernere le ragioni in fatto e in diritto poste alla base della statuizione), con conseguente nullità della sentenza impugnata.
4. La pronuncia - che si inserisce, come sopra rilevato, in un solco giurisprudenziale che si va ormai consolidando - appare condivisibile.
Vero è che il tema del perimetro, tracciato dalla Riforma, del vizio di motivazione ricorribile in sede di legittimità ex art. 360 c. 1 n. 4 c.p.c. – nonché quello dei rapporti con la diversa ipotesi del ricorso per omesso esame circa un fatto rilevante, di cui all’art. 360 c. 1 n. 5 – è, tradizionalmente, assai delicato.
Se da un lato deve darsi conto delle perplessità, sollevate in dottrina, circa il ruolo di ingerenza che sarebbe stato impropriamente assunto dalla giurisprudenza di legittimità, nel senso di manipolare in via pretoria il disposto normativo, giungendo a riallargare forzosamente i limiti di un controllo motivazionale che il legislatore aveva scelto di delineare in termini ben più circoscritti (cfr., in particolare, MARINELLI, Il “crepuscolo” della norma di legge, in GT, 2014, 10, pp. 741 ss.), dall’altro non può farsi a meno, a parere di chi scrive, di ritenere che sia più che necessitato un controllo, da parte del giudice di legittimità, che involga l’interezza della motivazione, da contestualizzare e valutare nel quadro complessivo del giudizio e non come entità avulsa dalla concretezza delle risultanze processuali e istruttorie.
La nozione di “motivazione apparente” proposta nella pronuncia in commento, rende, del resto, ben chiaro come non si possa prescindere, ai fini del giudizio sull’esistenza – in concreto – della motivazione, da un raffronto con le risultanze del giudizio.
Se difatti, come è vero, la motivazione risponde alla funzione di garantire il “minimo costituzionale”, richiesto dall’art. 111 c. 6 Cost., solo se è idonea ad esplicitare l’iter logico-argomentativo sotteso alla decisione, quella stessa motivazione non potrà essere considerata su di un piano puramente astratto, che si limiti ad esaminarne il solo testo letterale, vagliandone l’esistenza e la logicità in modo avulso dalle risultanze processuali: ben si potrebbe, se questo fosse il caso, giungere all’assurdo secondo il quale la redazione di una motivazione preconfezionata, “standard”, in sé logica e coerente, ma incomprensibile e caduca se rapportata alle risultanze istruttorie e processuali, non dovrebbe ritenersi nulla e passibile, dunque, di integrare un vizio rilevabile ai sensi dell’art. 360 c. 1 n. 4 c.p.c. Come evidente, ciò non può essere, pena l’irrimediabile violazione del precetto costituzionale di cui all’art. 111 c. 6 Cost., espressione della necessità di un controllo effettivo sui provvedimenti giurisdizionali.
Di talché, come da taluni Autori già suggerito, il controllo sulla motivazione deve essere necessariamente, anche all’esito della Riforma, sempre scandito in due fasi: la prima, “statica”, che valuti la tenuta logica della motivazione in sé considerata; la seconda, “dinamica”, che debba poi verificarne la tenuta una volta che questa sia stata rapportata ai fatti di causa (v. MARCHESELLI, Motivazioni tributarie e un “morto che cammina”: il doppio binario sanzionatorio tributario, in CT, 2014, 37, pp. 2883 ss.).
Ciò è del resto conforme alla stessa tradizionale definizione di apparato motivazionale, da intendere come dichiarazione dal contenuto non meramente statico (l’enunciazione della decisione) ma anche dinamico, che sviluppi la descrizione del processo cognitivo attraverso cui si passa dalla situazione di inziale ignoranza dei fatti di causa a quella, finale, di assunzione di una specifica determinazione (sul punto, v. anche ALUNNI, L’obbligo di motivazione delle sentenze delle Commissioni Tributarie, in Giur. It., 2016, 1, pp. 74 ss.).
Invero, un’accorta rilettura dei limiti del controllo di legittimità sulla motivazione, che, ai fini della proposizione del motivo di ricorso ex art. 360 c. 1 n. 4 c.p.c., ritenga implicato anche il raffronto con le risultanze processuali, non necessariamente determina la violazione del precetto legislativo che ha espunto dalle ipotesi di vizio motivazionale ricorribile in Cassazione quella della motivazione insufficiente - profilo ricorribile nei ben più circoscritti limiti di cui all’art. 360 c. 1 n. 5.
Può ritenersi infatti che, qualora l’aporia motivazionale sia rilevata all’esito del raffronto con il quadro istruttorio e processuale, questa ben possa assurgere, se consistente in uno scostamento così radicale da intaccare la stessa logicità della motivazione, rendendone incomprensibile il percorso logico-argomentativo, a fattispecie di motivazione omessa; il difetto motivazionale potrà essere invece considerato come espressione di mera insufficienza, o non condivisibilità della motivazione – ipotesi rilevabili ex art. 360, c. 1, n. 5 – qualora la stessa, nonostante l’incongruenza rilevata, sia in sé intatta, comprensibile e logicamente compiuta, ma presenti, nel nesso che lega le premesse agli esiti della decisione, una linea di frattura, un “tassello mancante”, rappresentato da quel fatto decisivo che, se valutato, avrebbe potuto condurre ad un esito diverso (per una ricostruzione in parte diversa, che assimila le nozioni di motivazione omessa e di motivazione insufficiente, e dunque la struttura del relativo controllo, v. FABBRIZZI, La Corte di Cassazione ed il prisma del vizio logico della motivazione, in Giur. It., 2021, 5, pp. 1102 ss.)
Ciò posto, è bene rilevare come la pronuncia in commento, sebbene riproponga la suddetta struttura bifasica del controllo motivazionale, accogliendo la discussa nozione di motivazione come entità da raffrontare con le risultanze istruttorie, non sollevi, nel caso di specie, le criticità sopra esaminate.
La Corte, difatti, svolge sì il controllo in fase non solo statica ma anche dinamica, rapportandosi con il dato delle risultanze processuali; tuttavia, già lo svolgimento del controllo statico (sulla motivazione in sé per sé considerata) porta in realtà al riscontro di un vizio convertibile in violazione di legge, con la conseguente nullità della sentenza per omessa motivazione: tale è l’apoditticità della motivazione considerata, che la stessa viene ritenuta addirittura “non autosufficiente”, non idonea, cioè, a disvelare l’iter logico-giuridico sotteso alla decisione neppure se astrattamente ed intrinsecamente considerata.
Neppur si poneva, dunque, nel caso di specie, l’esigenza di rapportare la motivazione alle risultanze istruttorie, potendosi rilevare la mancanza della stessa già in fase di giudizio statico; con esclusione dunque del ricorrere, nella decisione in commento, di problematiche relative al rispetto dei limiti del sindacato esperibile ex art. 360 c. 1, n. 4 c.p.c. per come legislativamente riformulato, delle sfumature tra motivazione omessa e motivazione insufficiente, nonché della demarcazione dell’ambito applicativo dell’art. 360 c. 1 n. 4 rispetto a quello dell’art. 360 c. 1 n. 5.
Si reputa comunque utile e opportuno il fatto che la Corte abbia qui colto l’occasione per riportare l’attenzione sulla necessarietà di un sindacato sulla motivazione dinamico, che vigili sul rispetto, da parte del giudice tributario, dell’onere motivazionale, valutando anche se egli abbia debitamente considerato, nell’assumere la propria decisione, il quadro complessivo delle risultanze istruttorie e delle allegazioni delle parti, rapportandosi con lo stesso. Si consideri, peraltro, che la pronuncia considerata interviene in un caso di disconoscimento di costi sostenuti per operazioni ritenute soggettivamente inesistenti, ambito in cui, notoriamente, si è soliti riscontrare un prolificare di sentenze tributarie di merito del tutto apodittiche, le quali, non avendo cura di rapportarsi seriamente alle allegazioni processuali, poggiano sull’enunciazione meramente astratta di massime giurisprudenziali, sì da trascurare sistematicamente l’indagine sull’assolvimento dell’onere probatorio gravante sull’Amministrazione e da precludere così un effettivo controllo giurisdizionale.
Un’ultima considerazione: la sensibilità qui mostrata dalla Corte di Cassazione, laddove essa concepisce un controllo rigoroso sulla motivazione, che ne rapporti il testo, in chiave dinamica, al sostrato processuale dei fatti di causa per come ricostruiti in giudizio, pare, invero, rispondente anche alle più recenti scelte legislative. Ci si riferisce all’introduzione, avvenuta con la Riforma del Processo Tributario, dell’art. 7 c. 5-bis D. Lgs. 546/1992, il quale, disponendo nella sua seconda parte che: “Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l'atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l'irrogazione delle sanzioni”, riporta l’attenzione sulla necessarietà di uno strutturato controllo motivazionale attento al raffronto con i fatti di causa e le risultanze istruttorie, corroborando, a parere a chi scrive, la ricostruzione secondo cui non si possa, ragionevolmente, concepire un controllo motivazionale meramente astratto e avulso dal dato sostanziale.