Tax News - Supplemento online alla Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2612-5196
G. Giappichelli Editore

21/07/2023 - La Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sul rimborso dell’IVA indebitamente versata

argomento: IVA - Giurisprudenza

Con la sentenza 27 settembre 2022, n. 28062, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sull’annosa questione - interessata, nel corso del 2017, da rilevanti modifiche legislative - del rimborso dell’IVA erroneamente applicata. La pronuncia, riguardante un caso di applicazione dell’imposta in mancanza del presupposto di territorialità, affronta il tema da due prospettive differenti: la prima relativa al rapporto tra la richiesta di rimborso e l’emissione da parte del cedente/prestatore di note di variazione in diminuzione; la seconda riguardante il termine entro il quale avanzare la richiesta di rimborso. Le conclusioni cui è giunta la Suprema Corte suscitano una riflessione sulla possibilità di porre rimedio all’errata applicazione dell’IVA mediante l’emissione di note di variazione in diminuzione, in relazione alla quale pare che la giurisprudenza non sia ancora pervenuta ad un approdo ampiamente condiviso.

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PAROLE CHIAVE: rimborso - IVA - indebito - note di variazione - non residenti


di Matteo Clò

  1. La sentenza 27 settembre 2022, n. 28062, riguarda una controversia intercorsa tra una società estera, con partita IVA italiana, e l’amministrazione finanziaria, avente ad oggetto il rimborso dell’IVA versata dalla società estera ed addebitata ad una società tedesca, con rappresentante fiscale in Italia, sul presupposto, rilevatosi successivamente errato, che la cessione di beni riguardasse beni allocati nel territorio italiano. La società estera, appurato che la cessione non dovesse considerarsi effettuata nel territorio italiano (e che pertanto, ai sensi dell’art. 7 bis del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, essa non fosse assoggettabile ad IVA in Italia) chiedeva il rimborso dell’IVA erroneamente versata, in ragione del difetto del presupposto di territorialità dell’operazione. La richiesta di rimborso rimaneva priva di riscontro, e la società estera ricorreva al giudice tributario avverso il silenzio-rifiuto dell’Amministrazione finanziaria.

 

  1. L’assoggettamento ad IVA di un’operazione in assenza del presupposto della territorialità di cui agli artt. 7 e seguenti del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, costituisce una delle ipotesi di indebito dalle quali discende il diritto del soggetto passivo a promuovere nei confronti dell’erario istanza di rimborso.

La disciplina del rimborso dell’IVA indebitamente versata, prima della L. 20 novembre 2017, n. 167, era contenuta unicamente nel (tuttora vigente) art. 21, comma 2, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, il quale si limita genericamente a prevedere che “la domanda di restituzione, in mancanza di disposizioni specifiche, non può essere presentata dopo due anni dal pagamento, ovvero, se posteriore, dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione”.

La L. 20 novembre 2017, n. 167, ha introdotto nel D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, l’art 30 ter, ai sensi del quale “il soggetto passivo presenta la domanda di restituzione dell’imposta non dovuta, a pena di decadenza, entro il termine di due anni dalla data del versamento della medesima ovvero, se successivo, dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione” (sull’art. 30 ter, per tutti, SALVINI, IVA non dovuta: una nuova disciplina poco meditata, in Corr. trib., 2018, 21, p. 1607 ss.).

Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza sia nazionale, sia comunitaria, l’IVA erroneamente applicata non può essere detratta (di recente, per la giurisprudenza nazionale, Cass., 18 aprile 2019, n. 10974; Id., 21 gennaio 2020, n. 1249; Id., 30 giugno 2020, n. 13091; Id., 3 novembre 2020, n. 24289; Id., 21 aprile 2021, n. 10439; Id., 10 febbraio 2022, n. 4301; Id., 16 marzo 2022, n. 8589; Id., 8 novembre 2022, n. 32900; Id., 18 novembre 2022, n. 34088, e per quella europea, Corte di Giustizia UE, 8 maggio 2019, causa C-712/17; Id., 27 giugno 2018, cause C-459/17 e C-460/17; Id., 21 febbraio 2018, causa C-638/16; Id., 14 giugno 2017, causa C-38/16).

Diversa è - quantomeno in parte - la questione relativa all’IVA erroneamente fatturata con aliquota più elevata di quella che avrebbe dovuto essere applicata, a cui si applica l’art. 6, comma 6, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, che, pur prevedendo l’applicazione di una sanzione da € 250,00 ad € 10.000,00 a carico del cessionario/committente, permette allo stesso di detrarre l’IVA erroneamente addebitatagli a titolo di rivalsa dal cedente/prestatore. La Corte di Cassazione ritiene tuttavia che l’art. 6, comma 6, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, non si applichi ai casi in cui siano erroneamente state assoggettate ad imposta operazioni non imponibili, esenti o non soggette ad IVA (così, Cass., 19 novembre 2021, n. 35500; Id., 21 aprile 2021, n. 10439; Id., 3 novembre 2020, n. 24289). Qualora l’imposta sia erroneamente applicata in relazione ad un’operazione non rilevante ai fini IVA, alla luce dell’orientamento della Suprema Corte, l’IVA indebita non potrà dunque essere oggetto di detrazione.

Ciò posto, occorre interrogarsi in merito alle modalità con le quali le parti possano porre rimedio alla situazione creatasi in seguito all’erronea applicazione dell’imposta.

Secondo l’orientamento della Corte di Cassazione (per tutte, Cass., 30 settembre 2020, n. 20843), in conformità con quello della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Corte di Giustizia EU, 8 maggio 2019, causa C-712/17; Id., 31 gennaio 2013, causa C-642/11), l’IVA erroneamente applicata, per quanto concerne il cedente/prestatore, in quanto esposta in fattura, sarebbe in ogni caso dovuta, così come peraltro previsto sia dall’art. 203, Dir. CE 28 novembre 2006, n. 112, sia dall’art. 21, comma 7, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633).

Al fine di correggere l’errore commesso, i soggetti passivi coinvolti dovrebbero pertanto agire come segue:

- il cedente/prestatore dovrebbe versare l’IVA indebita, in quanto esposta in fattura, potendo successivamente richiederne il rimborso all’erario;

- il cessionario/committente non potrebbe detrarre l’IVA erroneamente addebitatagli, ma potrebbe agire nei confronti del cedente/prestatore per ottenere la restituzione dell’IVA di rivalsa allo stesso indebitamente corrisposta.

 

  1. Alternativa rispetto alla richiesta di rimborso ex 30 ter, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, pare essere l’emissione di note di variazione in diminuzione. In base all’art. 26, comma 3, del medesimo D.P.R., il cedente/prestatore ha diritto di portare in detrazione l’imposta corrispondente alla variazione, registrandola ai sensi dell’art. 25, entro un anno dall’effettuazione dell’operazione, qualora sia necessario rettificare inesattezze della fatturazione che abbiano dato luogo all’applicazione dell’art. 21, comma 7 (ai sensi del quale, “se il cedente o prestatore emette fattura per operazioni inesistenti, ovvero se indica nella fattura i corrispettivi delle operazioni o le imposte relative in misura superiore a quella reale, l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura”).

Attraverso lo strumento delle note di variazione in diminuzione sarebbe pertanto possibile raggiungere il medesimo risultato cui si perverrebbe attraverso l’istanza di rimborso. Non a caso, in dottrina si è parlato, con riferimento all’ipotesi in esame, di “auto-rimborso” (TESAURO, Credito di imposta e rimborso da indebito nella disciplina dell’IVA, in Boll. trib., 1979, p. 1466, ora in Scritti scelti di diritto tributario, Torino, 2022, Vol. I, p. 272 ss.; ID., Rimborso delle imposte, in Noviss. dig. it., App., 1986, p. 829), ritenendo applicabile l’art. 26, quale “meccanismo di riequilibrio”, anche qualora ricorra un’ipotesi di indebito (TABET, Contributo allo studio del rimborso d’imposta, Roma, 1985, p. 87).

L’emissione di una nota di variazione in diminuzione da parte del cedente/prestatore, da un lato, permetterebbe allo stesso di recuperare (attraverso lo strumento della detrazione) l’IVA indebitamente versata all’erario, e dall’altro, consentirebbe al cessionario/committente, registrando il documento rettificativo (in diminuzione, sul registro degli acquisiti, o in aumento, sul registro delle operazioni attive), di diminuire in misura corrispondente l’importo detraibile. In tal modo, verrebbe conservato l’equilibrio economico tra rivalsa e detrazione, e rispettato l’interesse erariale (BASILAVECCHIA, Situazioni creditorie del contribuente e attuazione del tributo, Pescara, 2000, p. 36 ss.).

Qualora sia decorso il termine di un anno dall’effettuazione dell’operazione, al cedente/prestatore non rimarrà che presentare istanza di rimborso ex art. 30 ter.

La Corte di Cassazione è conforme nel ritenere, pur con riferimento ad ipotesi diverse da quelle erronea applicazione dell’IVA ad operazioni fuori campo, che la mancata attivazione della procedura di variazione prevista dall’art. 26 faccia venir meno solo il diritto (del cedente/prestatore) di recuperare il credito mediante detrazione, non precludendo la possibilità di ottenere il rimborso della maggiore imposta indebitamente versata (Cass., 7 giugno 2017, n. 14239; Id., 11 maggio 2012, n. 7330; Id., 21 giugno 2006, n. 9437; Id., 6 febbraio 2004, n. 2274).

Diversa l’opinione dell’Agenzia delle entrate, la quale, in diverse risposte ad interpello (13 giugno 2019, n. 190; 15 dicembre 2020, nn. 592 e 593; 5 ottobre 2021, n. 663; 4 novembre 2021, n. 762), ha ritenuto che l’art. 26, comma 3, prevalga sull’art. 30 ter, considerando l’emissione di note di variazione come strumento generale (e prioritario) per porre rimedio agli errori compiuti in sede di fatturazione, e l’art. 30 ter come norma eccezionale e residuale, applicabile solo qualora il contribuente, per motivi a lui non imputabili, non abbia tempestivamente potuto emettere una nota di variazione in diminuzione.

Sembra dunque che sia la dottrina, sia la giurisprudenza, sia l’Amministrazione finanziaria (seppur con un orientamento per certi versi non condivisibile) siano concordi nel ritenere lo strumento delle note di variazione in diminuzione idoneo a risolvere casi di indebita applicazione dell’IVA.

La possibilità di ricorrere a tale istituto rischia tuttavia di scontrarsi con il principio, di cui al consolidato orientamento della giurisprudenza nazionale ed europea, secondo il quale l’IVA indebitamente corrisposta sarebbe indetraibile.

Occorre dunque chiedersi:

- se l’indetraibilità operi solo per il cessionario/committente, il quale, nel caso riceva dal cedente/prestatore una fattura in cui vi è un errato addebito dell’IVA non possa esercitare il relativo diritto di detrazione, dovendo attendere, per recuperare quanto indebitamente versato, che il cedente/prestatore provveda a restituirgli quanto dovuto, o se invece si estenda anche al cedente/prestatore, nel caso in cui egli, avvedutosi dell’errore, abbia emesso una nota di variazione in diminuzione;

- se, in seguito all’emissione della nota di variazione da parte del cedente/prestatore, e della registrazione della variazione da parte del cessionario/committente, in riferimento alla posizione di quest’ultimo, abbia ancora senso il divieto di detrazione dell’imposta erroneamente addebitata in via rivalsa.

In relazione al primo interrogativo, la soluzione preferibile pare essere la prima, dovendosi tenere distinto il divieto di detrazione di derivazione giurisprudenziale – che sembra riguardare la sola IVA addebitata a titolo di rivalsa, e che pare pertanto riguardare il solo cessionario/committente, e non anche il cedente/prestatore che abbia fatto eventualmente ricorso alle note di variazione in diminuzione di cui all’art. 26, comma 3 – dagli effetti derivanti dall’emissione delle note stesse.

Riguardo al secondo quesito, occorre considerare che, in seguito all’emissione da parte del cedente/prestatore di una nota di variazione in diminuzione, il cessionario/committente, dovrà registrare la relativa variazione, divenendo debitore nei confronti dell’erario dell’imposta (o titolare del minor credito d’imposta) corrispondente alla variazione operata dal cedente/cessionario. Attraverso la registrazione della variazione da parte del cessionario/committente, la detrazione dell’IVA indebitamente addebitatagli in via di rivalsa verrà pertanto “neutralizzata”.

Pare pertanto che il divieto di portare in detrazione l’IVA indebita, nel caso in cui si sia fatto ricorso alle note di variazione in diminuzione di cui all’art. 26, comma 3, non riguardi nemmeno il cessionario/committente, il quale potrà semmai esercitare tale diritto solo formalmente.

 

  1. Nella sentenza in commento, la Corte di Cassazione si è espressa relativamente alla possibilità per il cedente/prestatore, avvedutosi del difetto di territorialità dell’operazione e del conseguente errore di fatturazione, di emettere una nota di variazione in diminuzione al fine di poter detrarre l’IVA indebitamente versata all’erario (nota di variazione che tuttavia nel caso in esame non era stata emessa dalla società estera). La Suprema Corte, da un lato, ha ritenuto che la fattispecie oggetto della controversia non rientrasse nell’ambito di applicazione dell’art. 26, e dall’altro, ha affermato che, nell’ipotesi di cui all’art. 26, comma 3, non troverebbe applicazione, il diritto del cedente/prestatore di portare in detrazione l’imposta corrispondente alla variazione, registrandola ai sensi del precedente art. 25.

Relativamente alla prima affermazione, è certamente corretto distinguere l’istituto delle note di variazione in diminuzione, previsto dall’art. 26, comma 3, da quello del rimborso dell’IVA indebitamente versata, ora regolato dall’art. 30 ter. Pare inoltre condivisibile quanto statuito dalla Corte di Cassazione, nella misura in cui ciò comporti l’irrilevanza dell’emissione di note di variazione in diminuzione ai fini della richiesta di rimborso.

La Corte di Cassazione, seppur indirettamente, sembra infatti aver riconosciuto, anche relativamente alle ipotesi di errata fatturazione di operazioni escluse dall’ambito di applicazione dell’IVA, la possibilità per il cedente/prestatore di richiedere il rimborso dell’imposta indebitamente versata all’erario indipendentemente dal ricorso allo strumento delle note di variazione in diminuzione. Con ciò rigettando la tesi espressa dall’Agenzia delle entrate secondo la quale il rimborso ex art. 30 ter rappresenterebbe uno strumento eccezionale e residuale rispetto al generale e prioritario rimedio costituito dalle norme di variazione in diminuzione di cui all’art. 26, comma 3.

Tale conclusione pare coerente con il fatto che - come si evince dal disposto dell’art. 26, commi 2 e 3 - l’emissione di note di variazione in diminuzione costituisce una facoltà, e non un obbligo, per il soggetto passivo.

Se la prima affermazione della Suprema Corte può quindi trovare giustificazione, lo stesso non può dirsi per la seconda.

Negare al cedente/prestatore, nel caso abbia emesso note di variazione ex art. 26, comma 3, la possibilità di detrarre l’imposta corrispondente alla variazione, significa porsi in contrasto, non solo con quanto affermato in precedenti pronunce giurisprudenziali, ma con il disposto dello stesso art. 26.

Il comma 2 dell’art. 26 prevede infatti la possibilità per il cedente/prestatore “di portare in detrazione ai sensi dell’art. 19 l’imposta corrispondente alla variazione, registrandola a norma dell’articolo 25”. Il successivo comma 3 non fa altro che estendere l’applicazione dell’art. 26, comma 2 ai casi di “sopravvenuto accordo fra le parti” e di “rettifica di inesattezze della fatturazione”. Non sembra dunque si possa dubitare che la variazione in diminuzione operata ai sensi dell’art. 26, comma 3, sia del tutto analoga – ad eccezione del termine entro il quale deve essere operata – a quella di cui all’art. 26, comma 2.

Non pare, inoltre, esserci motivo per distinguere tra l’IVA indebitamente versata in seguito alle ipotesi espressamente previste dall’art. 21, comma 7 (che peraltro richiama fattispecie alquanto differenti tra loro, come l’emissione di fatture relative ad operazioni inesistenti, e l’indicazione “nella fattura [d]i corrispettivi delle operazioni o [del]le imposte relative in misura superiore a quella reale”), dai casi di operazioni fuori campo IVA, in relazione alle quali sia stata erroneamente applicata l’imposta. Ciò anche alla luce del generico riferimento, contenuto nell’art. 26, comma 3, ai casi “di rettifica di inesattezze della fatturazione” che comportino l’obbligo per il cedente/prestatore di versare la maggior imposta indicata in fattura.

Inoltre, non può non rilevarsi come l’applicazione dell’art. 26, comma 3, permetta di raggiungere risultati non dissimili da quelli a cui si perverrebbe mediante il rimborso dell’imposta indebitamente versata. Ciò senza che dall’applicazione di tale meccanismo derivi un minor gettito per l’erario.

Non paiono pertanto esserci ostacoli al riconoscimento della generale possibilità per il cedente/prestatore di rimediare all’indebita applicazione dell’IVA, qualora non sia decorso il termine di un anno dall’effettuazione dell’operazione previsto dall’art. 26, comma 3.

D’altronde, non pare che la possibilità di utilizzare lo strumento di cui all’art. 26, comma 3, al fine di porre rimedio a situazioni di indebita applicazione dell’IVA ad operazioni fuori campo per carenza del requisito di territorialità, sia mai stata esclusa in giurisprudenza (si vedano, a mero titolo esemplificativo, Cass., 15 settembre 2017, nn. 21414 21416, nelle quali tale possibilità non sembra, seppur indirettamente, essere stata esclusa).

Nella sentenza in commento, la Suprema Corte ha inoltre confermato l’orientamento secondo il quale, in tema di rimborso IVA, nel caso in cui il contribuente abbia erroneamente versato l’imposta non dovuta per carenza del presupposto della territorialità, il termine entro il quale va avanzata la richiesta di rimborso è quello biennale, previsto dall’art. 21, comma 2, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, che decorre dal momento in cui è stato effettuato il versamento, in quanto l’errore in cui il contribuente è incorso legittima l’immediato esercizio del diritto al rimborso, non standovi preclusione alcuna (così anche Cass., 11 giugno 2019, n. 15638; Id., 8 luglio 2016, n. 13980; Id., 8 giugno 2011, n. 12447; pur se riferibili ad altre fattispecie di indebito IVA, anche Cass., 30 settembre 2016, n. 19478; Id., 27 gennaio 2014, n. 1577).

Non pare che il principio ribadito nella sentenza in commento possa subire deroghe nel caso di “incertezza soggettiva sul diritto al rimborso”, che, secondo la Corte, rappresenterebbe “questione di mero fatto, non incidente sulla possibilità giuridica di ripetere l’indebito e, quindi, sulla decorrenza del termine” di decadenza di cui agli artt. 21, comma 2, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (Cass., 11 giugno 2019, n. 15638).

Tale conclusione, da un lato, appare coerente con la finalità prevista dall’apposizione di un termine biennale di decadenza all’esercizio da parte del contribuente del diritto alla restituzione di quanto indebitamente versato (posto a presidio del principio della certezza del diritto e delle situazioni giuridiche), dall’altro, rischia, specie in ipotesi in cui vi sia incertezza circa la rilevanza o meno di una data operazione ai fini IVA, di penalizzare eccessivamente il contribuente, il quale si troverebbe a dover scegliere se non assoggettare una determinata operazione ad IVA, esponendosi ad eventuali contestazioni da parte del Fisco, o se assoggettare la stessa ad IVA, correndo il rischio, qualora emerga l’insussistenza del presupposto impositivo, di trovarsi impossibilitato ad ottenere il rimborso di quanto indebitamente pagato perché trascorso il termine biennale di cui all’art. 21, comma 2, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546.

A tal proposito, si rileva come il legislatore, con l’introduzione nel D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, dell’art. 30 ter, abbia parzialmente temperato la rigidità del precedente sistema, prevedendo che, nel caso “di applicazione di un’imposta non dovuta ad una cessione di beni o ad una prestazione di servizi, accertata in via definitiva dall’Amministrazione finanziaria”, l’istanza di rimborso possa “essere presentata dal cedente o prestatore entro il termine di due anni dall’avvenuta restituzione al cessionario o committente dell’importo pagato a titolo di rivalsa”; regola applicabile a tutti i casi di indebito versamento dell’IVA, tra i quali quelli derivanti dall’errata sottoposizione ad imposta di operazioni escluse dal suo ambito d’applicazione.