argomento: Agevolazioni - Giurisprudenza
Con la sentenza 13 aprile 2023, n. 9884, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sulle agevolazioni fiscali applicabili alle associazioni sportive dilettantistiche. La sentenza, riguardante il caso di un’associazione sportiva dilettantistica che, a fronte di corrispettivi specifici, svolgeva sia attività in diretta attuazione degli scopi istituzionali, sia attività diverse, affronta due temi importanti: il primo relativo all’individuazione dei proventi a cui si applica la de-commercializzazione prevista dall’art. 148, comma 3, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917; la seconda riguardante la possibilità che, nonostante quanto disposto dall’art. 149, comma 4, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, anche le associazioni sportive dilettantistiche, qualora esercitino in via prevalente attività di tipo commerciale, perdano la qualifica fiscale di ente non commerciale. Le conclusioni cui è giunta la Suprema Corte, pur se generalmente condivisibili, meritano alcune riflessioni, anche alla luce delle novità introdotte dal D.Lgs. 28 febbraio 2021, n. 36, recante riordino delle disposizioni in materia di enti sportivi professionistici e dilettantistici.
» visualizza: il documento (Corte di Cass., sent. 13 aprile 2023, n. 9884)PAROLE CHIAVE: associazioni sportive dilettantistiche - enti non commerciali - riforma dello sport - agevolazioni fiscali
di Matteo Clò
La pronuncia in commento affronta diverse questioni riguardanti il regime fiscale applicabile alle associazioni sportive dilettantistiche. Tra queste, due sono quelle che paiono maggiormente rilevanti. La prima è relativa alla determinazione di quali attività possano essere definite come “istituzionali” e quali debbano invece considerarsi aventi carattere commerciale, con particolare riferimento all’agevolazione di cui all’art. 148, comma 3, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917.
La seconda riguarda la possibilità che, nonostante quanto disposto dall’art. 149, comma 4, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, anche le associazioni sportive dilettantistiche perdano la qualifica fiscale di ente non commerciale, nonché le conseguenze derivanti dalla perdita di tale qualifica, specie in riferimento ai proventi oggetto di de-commercializzazione ai sensi degli artt. 143 e 148, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917.
Ai sensi dell’art. 73, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, sono non commerciali gli “enti pubblici e privati diversi dalle società […] che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali”, dovendosi intere per oggetto principale dell’ente “l’attività essenziale per realizzare direttamente gli scopi primari indicati dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto”.
Per valutare se una determinata attività assume carattere principale è necessario identificare “gli scopi primari” dell’ente, cioè gli scopi il cui perseguimento è irrinunciabile; occorre poi valutare se l’attività sia necessaria per realizzarli direttamente, e cioè se la diretta realizzazione degli scopi primari dell’ente sia o non sia impedita dal mancato esercizio dell’attività considerata (così F. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. Parte speciale, Torino-Milano, 2022, p. 98).
La commercialità o meno dell’attività si determina in base alla nozione di reddito d’impresa di cui all’art. 55, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917.
Il fatto che il legislatore fiscale ritenga privi del carattere commerciale gli enti prevalentemente impegnati in un’attività che difetta dei connotati dell’imprenditorialità non significa tuttavia che gli enti non commerciali, così come quelli sportivi dilettantistici, non possano svolgere attività diverse da quella “essenziale per realizzare direttamente gli scopi primari indicati dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto”, né che gli stessi non possano svolgere attività di tipo commerciale.
Un ente, pur non avendo prevalentemente finalità imprenditoriali, può infatti essere coinvolto “nell’esecuzione di operazioni di natura commerciale, qualora questa occupazione non assurga a funzione principale”, dovendosi disporre le attività esercitate da un ente non commerciale “secondo un preciso ordine gerarchico: vi è l’incombenza principale, […] che consente di raggiungere istantaneamente lo scopo dell’organismo stesso […]; le altre attività eventualmente esercitate, che permettono di soddisfare in via indiretta il fine costitutivo dell’ent[e], in quanto sono volte a supportare l’attività immediatamente funzionale alla realizzazione dell’oggetto sociale, si collocano in una posizione subordinata” (A. M. GAFFURI, La distinzione tra attività commerciali e non commerciali degli enti no profit, ai fini delle imposte sui redditi e IVA, alla luce della nuova normativa del Codice del Terzo Settore, in Riv. trim. dir. trib., 2019, 4, p. 783 ss.).
Anche il legislatore prevede espressamente la possibilità che gli enti non commerciali svolgano anche attività di tipo commerciale (basti pensare ai regimi forfetari previsti per gli enti non commerciali dall’art. 145, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, per gli enti del Terzo settore dagli artt. 80 e 86, D.Lgs. 3 luglio 2017, n. 117, e per gli enti sportivi dilettantistici dalla L. 16 dicembre 1991, n. 398).
Posto che è possibile per gli enti sportivi dilettantistici esercitare attività diverse da quelle “istituzionali”, occorre interrogarsi su quali attività possano considerarsi “istituzionali”, e pertanto essere escluse dall’ambito di applicazione dell’IRES, e quali invece non lo siano, con conseguente sottoposizione delle stesse a tassazione.
A tal fine, il legislatore, con generale riferimento agli enti non commerciali, non considera commerciali “le prestazioni di servizi non rientranti nell’articolo 2195 del codice civile rese in conformità alle finalità istituzionali dell’ente senza specifica organizzazione e verso pagamento di corrispettivi che non eccedono i costi di diretta imputazione”, così come le attività svolte “nei confronti degli associati o partecipanti, in conformità alle finalità istituzionali, dalle associazioni, dai consorzi e dagli altri enti non commerciali di tipo associativo” (rispettivamente, artt. 143, comma 1, e 148, comma 1, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, il qual ultimo prevede espressamente che “le somme versate dagli associati o partecipanti a titolo di quote o contributi associativi non concorrono a formare il reddito complessivo”).
Relativamente ad alcune categorie di enti non commerciali, tra i quali le associazioni sportive dilettantistiche, l’art. 148, comma 3, prevede - seppur con alcune eccezioni, e a condizione che gli stessi si conformino alle clausole di cui al successivo comma 8, inserendole nei loro atti costitutivi o statuti - “non si considerano commerciali le attività svolte in diretta attuazione degli scopi istituzionali, effettuate verso pagamento di corrispettivi specifici nei confronti degli iscritti, associati o partecipanti, di altre associazioni che svolgono la medesima attività e che per legge, regolamento, atto costitutivo o statuto fanno parte di un’unica organizzazione locale o nazionale, dei rispettivi associati o partecipanti e dei tesserati dalle rispettive organizzazioni nazionali […]”.
Tra le attività esercitate dalle associazioni sportive dilettantistiche che non sono da considerarsi commerciali vi sono pertanto, oltre alle somme versate dagli associati a titolo di quote o contributi associativi, anche:
- le entrate derivanti da attività svolte in favore degli associati (e di altri enti non commerciali di tipo associativo) in conformità alle finalità istituzionali;
- i corrispettivi specifici versati dagli associati (nonché dagli altri soggetti di cui all’art. 148, comma 3) in ragione dello svolgimento in loro favore di attività volte alla diretta attuazione degli scopi istituzionali.
Affinché tali introiti possano essere esclusi dalla determinazione della base imponibile IRES è necessario che le attività dalle quali derivano siano svolte in diretta attuazione degli scopi istituzionali. Con particolare riferimento alle associazioni sportive dilettantistiche, l’Agenzia delle entrate, nella circolare 1 luglio 2018, n. 18/E, ha ritenuto che, ai fini dell’applicabilità dell’art. 148, comma 3, l’attività svolta in diretta attuazione degli scopi istituzionali è quella che costituisce il naturale completamento degli scopi specifici che caratterizzano l’ente, dovendosi pertanto escludere dall’ambito di applicazione di tale agevolazione le attività:
- che “non si pongono direttamente come naturale completamento dell’attività sportiva, potendo le stesse, invece, essere rese anche separatamente e indipendente dall’esercizio di detta attività”;
- “estranee rispetto agli scopi tipici dell’ente sportivo dilettantistico non lucrativo così come riconosciuti dall’organismo affiliante (Federazione Sportiva Nazionale, Ente di Promozione Sportiva, Disciplina Sportiva Associata)”;
- “svolte con l’impiego di strutture e mezzi organizzati per fini di concorrenzialità sul mercato”.
La Corte di Cassazione pare confermare l’interpretazione fornita dall’Amministrazione finanziaria. Nella pronuncia in commento, nell’attribuire natura commerciale ad alcune delle attività svolte da un’associazione sportiva dilettantistica, essa ha infatti ritenuto rilevanti i seguenti elementi:
- “la destinazione, a favore di terzi, non associati, delle attività e dei servizi resi dalla ricorrente, tali da escludere la non commercialità dell'ente”;
- la possibilità per gli associati di avvalersi di prestazioni ulteriori rispetto a quelle prettamente sportive (nel caso concreto, riguardante un’associazione sportiva dilettantistica operante nel campo della vela, l'uso di posti barca, di punti ombra e di spogliatoi); prestazioni che configurano “una attività economica estranea agli scopi istituzionali”, peraltro “non proprio pertinente allo sviluppo dello sport della vela”;
- “il fatto che tali prestazioni si sarebbero potute fruire dagli associati anche presso altre strutture” di diversa di natura.
Decisiva pare essere stata “la circostanza che la fruizione di questi servizi sarebbe stata agevolmente fruibile e conseguibile sul mercato dagli associati anche al di fuori dell'associazione (in altre strutture di diversa natura)”, sulla base della quale la Corte di Cassazione, conformemente al giudice di appello, ha escluso “la natura servente rispetto agli scopi istituzionali dell'associazione” di alcune delle attività svolte dalla stessa.
Con generale riferimento agli enti non commerciali, l’art. 149, comma 1, TUIR prevede che “indipendentemente dalle previsioni statutarie, l’ente perde la qualifica di ente non commerciale qualora eserciti prevalentemente attività commerciale per un intero periodo d’imposta”. Il successivo comma 2 prevede una serie - non tassativa - di parametri da tenere in considerazione relativamente alla qualificazione come commerciale, o non commerciale, di un ente (prevalenza delle immobilizzazioni relative all’attività commerciale rispetto alle restanti attività, prevalenza dei ricavi derivanti da attività commerciale rispetto al valore normale delle cessioni o prestazioni afferenti alle attività istituzionali, ecc.).
Ai sensi del comma 4, “le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 non si applicano […] alle associazioni sportive dilettantistiche”.
Dal tenore dell’art. 149, comma 4, discende che “anche qualora l’associazione sportiva dovesse esercitare in via prevalente attività commerciale per un intero periodo d’imposta, questa non perderà automaticamente la qualifica di ente non commerciale” (C. BUCCICO, La fiscalità delle attività sportive dilettantistiche, in Dir. prat. trib., 2020, 4, p. 1435 ss.).
Ciò non significa, tuttavia, che le associazioni sportive dilettantistiche non possano mai perdere la qualifica fiscale di enti non commerciali. La Corte di Cassazione, in alcune sentenze (14 gennaio 2021, n. 526; 16 giugno 2021, n. 17026; 14 dicembre 2021, n. 39789), ha infatti ritenuto che le associazioni sportive dilettantistiche possano perdere tale qualifica qualora svolgano “attività prevalentemente economiche”. Tali decisioni sono state assunte richiamando espressamente la decisione 19 dicembre 2012, n. 9461 della Commissione UE, la quale aveva giudicato l’art. 149, comma 4, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, compatibile con il divieto di aiuti di Stato di cui all’art. 107 TFUE, in quanto l’esclusione disposta dalla norma è stata valutata attinente esclusivamente ai parametri fissati dai commi 1 e 2 dell’art. 149, senza tuttavia escludere che la perdita della qualifica di ente non commerciale possa avvenire per altra via, non sussistendo, né potendo sussistere, in ragione dell’art. 149, comma 4, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, alcun sistema di “qualifica permanente di ente non commerciale” (sul punto, A. QUATTROCCHI, Gli aiuti di Stato nel diritto tributario, Milano, 2020, p. 249 ss.; sul tema degli aiuti di Stato si vedano, tra i tanti, anche G. BOLETTO, Le imprese del Terzo settore nel sistema di imposizione dei redditi; tra sussidiarietà orizzontale e concorrenza, Milano, 2020, p. 131 ss.; R. MICELI, La disciplina degli aiuti di Stato nella evoluzione giuridica europea, in P. BORIA (a cura di), La concorrenza fiscale tra Stati, Milano, 2018, p. 173 ss.).
La Suprema Corte, nella pronuncia in commento, in continuità con quanto precedentemente affermato, ha ritenuto che “ove l’esercizio prevalente di attività commerciale si protragga per più di un periodo di imposta […], non trova applicazione nei confronti delle associazioni sportive dilettantistiche l’esenzione di cui all’art. 149, comma 4”, in quanto la disposizione in oggetto consentirebbe alle ASD di godere del regime fiscale privilegiato solamente qualora la prevalenza dell’attività commerciale non si protragga oltre un solo periodo di imposta.
Occorre tuttavia svolgere alcune brevi considerazioni relativamente: (i) alla necessità di evitare interpretazioni eccessivamente restrittive di cosa debba intendersi per “attività svolte in diretta attuazione degli scopi istituzionali”; (ii) alla possibilità di escludere dal computo di cui all’art. 149, comma 1, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, alcune delle attività svolte dalle associazioni sportive dilettantistiche che, pur non potendosi qualificare come direttamente volte a realizzare “gli scopi primari indicati dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto”, svolgono un ruolo essenziale, benché indiretto, nel perseguimento di tali scopi; (iii) alle conseguenze derivanti dalla perdita, ai fini fiscali, della qualifica di ente non commerciale da parte di associazioni sportive dilettantistiche.
Riguardo al primo punto, sono da ricomprendere nell’ambito di applicazione dell’art. 148, comma 3, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, anche i proventi derivanti da quelle attività che, seppur commerciali, sono legate all’attività sportiva da un legame di strumentalità e/o da una connessione tale da poter beneficiare della medesima de-commercializzazione prevista per le attività rese in conformità alle finalità istituzionali.
La stessa Amministrazione finanziaria ha annoverato tra “i proventi che non concorrono a formare il reddito delle associazioni sportive dilettantistiche” quelli “conseguiti nello svolgimento di attività commerciali connesse con gli scopi istituzionali” (circolare Ministero delle Finanze 8 marzo 2000, n. 43), riconoscendo la possibilità che “le prestazioni di custodia delle attrezzature e dei beni o di ricovero degli animali (ad esempio i cavalli) affidati all’associazione o società sportiva dilettantistica senza fini di lucro dai soci o dagli altri soggetti normativamente individuati dall’articolo 148, comma 3, del TUIR, possono considerarsi svolte in diretta attuazione degli scopi istituzionali della stessa associazione o società sportiva dilettantistica se siano connaturate ed essenziali all’attività principale svolta da tali enti” (circolare Agenzia delle entrate 1 luglio 2018, n. 18/E).
È corretto ritenere, come peraltro fatto dalla Corte di Cassazione nella sentenza in commento, che la possibilità di equiparare le attività strumentali a quelle “istituzionali” non debba creare fenomeni di concorrenza con altri operatori del mercato, che non beneficiando delle medesime agevolazioni fiscali previste per gli enti sportivi dilettantistici, si troverebbero ad offrire il medesimo prodotto a costi sicuramente maggiori. Pare altrettanto corretto, tuttavia, evitare di giungere ad interpretazioni eccessivamente restrittive, come quella secondo cui le attività strumentali debbano necessariamente considerarsi “essenziali” all’esercizio dell’attività sportiva, o escludere la de-commercializzazione ogni qual volta la prestazione erogata da un’associazione sportiva dilettantistica possa, anche solo ipoteticamente, essere “fruibile e conseguibile sul mercato dagli associati anche al di fuori dell'associazione”.
Occorrerà dunque valutare caso per caso se, con l’effettuazione in favore degli associati di una determinata prestazione l’associazione sportiva dilettantistica trascenda o meno i limiti della “organizzazione di attività sportive dilettantistiche”. È evidente che una simile valutazione dovrà tenere in considerazione sia elementi di tipo qualitativo, come la tipologia di prestazione erogata (in relazione all’attività sportiva esercitata), sia aspetti di tipo quantitativo, come, ad esempio, il raffronto tra i proventi derivanti dall’attività connessa a quella sportiva e quelli derivanti da quella sportiva in senso stretto.
Relativamente al secondo punto, assumono rilevanza le novità apportate dal D.Lgs. 28 febbraio 2021, n. 36, attuativo dell’art. 5 della L. delega 8 agosto 2019, n. 86, e recante riordino delle disposizioni in materia di enti sportivi professionistici e dilettantistici, nonché di lavoro sportivo (sulla c.d. riforma dello sport, si veda M. PITTALIS, L’attuazione della legge delega 8 agosto 2019, n. 86 in tema di ordinamento sportivo, professioni sportive e semplificazione, in Corr. giur., 2021, 6, p. 737 ss.).
Il D.Lgs. 28 febbraio 2021, n. 36 ha abrogato l’art. 90, comma 18, L. 27 dicembre 2002, n. 289, nella misura in cui prevedeva che l’atto costitutivo o lo statuto delle associazioni sportive dilettantistiche dovesse contenere il riferimento “all’organizzazione di attività sportive dilettantistiche, compresa l’attività didattica”, e non che tale attività dovesse essere prevalente rispetto alle altre eventualmente esercitate.
Ai sensi dell’art. 7, comma 1, lett. b), D.Lgs. 28 febbraio 2021, n. 36, le associazioni sportive dilettantistiche devono ora prevedere all’interno del loro atto costitutivo o del loro statuto “l’oggetto sociale con specifico riferimento all’esercizio stabile e principale dell’organizzazione e gestione di attività sportive dilettantistiche, ivi comprese la formazione, la didattica, la preparazione e l’assistenza all’attività sportiva dilettantistica”.
Il successivo art. 9 prevede che “le associazioni e le società sportive dilettantistiche possono esercitare attività diverse da quelle principali di cui all’art. 7, comma 1, lettera b), a condizione che l’atto costitutivo o lo statuto lo consentano e che abbiano carattere secondario e strumentale rispetto alle attività istituzionali” (i criteri secondo i quali un’attività potrà essere definita secondaria e strumentale, nonché i limiti entro i quali sarà possibile esercitare tali attività, saranno definiti con decreto ministeriale, analogamente a quanto avvenuto relativamente alle attività secondarie e strumentali svolte dagli enti del Terzo settore di cui al D.Lgs. 3 luglio 2017, n. 117).
Fanno eccezione, secondo quando previsto dal comma 1 bis dell’art. 9, “i proventi derivanti da rapporti di sponsorizzazione, promo pubblicitari, cessione di diritti e indennità legate alla formazione degli atleti nonché dalla gestione di impianti e strutture sportive”, i quali “sono esclusi dal computo dei criteri e dei limiti” di cui al precedente comma 1.
Tale eccezione - che non trova corrispondenza alcuna nel D.Lgs. 3 luglio 2017, n. 117, in materia di enti del Terzo settore - è certamente idonea a definire quali attività le associazioni sportive dilettantistiche possano svolgere, ed in che misura, al fine di mantenere la qualifica di enti sportivi dilettantistici. Occorre chiedersi se la stessa eccezione possa spiegare effetti anche in ambito fiscale.
In particolare, potrebbe ipotizzarsi, in ragione del principio di specialità che regola la materia sportiva (principio espressamente riconosciuto dalla stessa L. delega 8 agosto 2019, n. 86), un parallelismo interpretativo tra l’art. 149, comma 4, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, e l’art. 9, comma 1 bis, D.Lgs. 28 febbraio 2021, n. 36. In altri termini, si potrebbe ritenere che all’esclusione dei “proventi derivanti da rapporti di sponsorizzazione, promo pubblicitari, cessione di diritti e indennità legate alla formazione degli atleti nonché dalla gestione di impianti e strutture sportive” dal computo di cui all’art. 9, comma 1, D.Lgs. 28 febbraio 2021, n. 36, possa corrispondere l’esclusione degli stessi anche dal calcolo riguardante la qualificazione come enti commerciali, o non commerciali, delle associazioni sportive dilettantistiche.
Pur essendo diverse le finalità cui le due disposizioni si ispirano (la prima attiene ai requisiti che un ente deve possedere per essere qualificato come sportivo dilettantistico, mentre la seconda riguarda la determinazione della natura commerciale o non commerciale dell’ente ai fini fiscali), l’esclusione dei proventi di cui all’art. 9, comma 1 bis, D.Lgs. 28 febbraio 2021, n. 36, dal calcolo di cui all’art. 149, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, parrebbe coerente con la natura delle attività da cui tali proventi derivano, le quali sono strettamente (se non, in alcuni casi, addirittura inscindibilmente) connesse all’oggetto sociale degli enti sportivi dilettantistici, ossia alla “organizzazione e gestione di attività sportive dilettantistiche”. Da ciò deriva, evidentemente, la scelta del legislatore di escludere tali attività dal computo relativo al rapporto tra attività principale ed attività secondarie e strumentali degli enti sportivi dilettantistici; scelta che, per esigenze di sistema, potrebbe essere estesa anche al computo relativo alla prevalenza delle attività commerciali rispetto a quelle non commerciali ai fini delle imposte sui redditi.
L’ipotesi prospettata potrebbe tuttavia scontrarsi con l’interpretazione dell’art. 107 TFUE fornita dalla Corte di Giustizia, secondo la quale, ai fini del divieto di aiuti di Stato, “l’eventuale svolgimento di attività non economiche non esclude la qualificazione come imprese non esclude la qualificazione come imprese di quei soggetti che svolgono attività specificatamente destinate al mercato”, sussistendo “destinazione al mercato ogniqualvolta l’offerta di un determinato bene o servizio si ponga in un contesto di concorrenza, in cui una pluralità di soggetti svolgano un’analoga attività” (A. QUATTROCCHI, op. cit., p. 84).
A ciò si aggiunga che l’art. 9, comma 1 bis, D.Lgs. 28 febbraio 2021, n. 36, si riferisce sia a proventi derivanti da attività economiche (annoverabili tra quelle previste dall’art. 55, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917), quali quelli derivanti da rapporti di sponsorizzazione e di promozione pubblicitaria e dalla gestione di impianti e strutture sportive, sia a introiti provenienti da attività prive di carattere economico, come le indennità legate alla formazione degli atleti.
L’eterogeneità delle attività indicate nell’art. 9, comma 1 bis, nonché l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza unionale, incentrata sulla finalità di evitare fenomeni distorsivi della libera concorrenza, rendono alquanto difficile attribuire all’art. 9, comma 1 bis, efficacia anche relativamente all’ambito fiscale.
Ultima questione riguarda le conseguenze derivanti dalla perdita da parte di un’associazione sportiva dilettantistica della natura di ente non commerciale, in ragione della realizzazione, per oltre un periodo d’imposta, di proventi commerciali in misura maggiore rispetto a quelli derivanti da attività “istituzionali”.
Sul punto, la Corte di Cassazione ha affermato che “in conseguenza della perdita della qualifica di ente non commerciale, le modalità di determinazione del reddito per l’intero periodo di imposta è quella propria degli enti non commerciali”, con il risultato che “ogni entrata viene attratta nella categoria del reddito di impresa”, dovendosi considerare come ricavi sia i proventi derivanti dalle quote associative, sia i corrispettivi versati dagli associati a fronte dell’esercizio delle attività sportive dilettantistiche (Cass., 16 giugno 2021, n. 17026).
Non paiono esserci dubbi riguardo al fatto che, qualora un ente perda la qualifica di ente non commerciale, in ragione del principio di attrazione di cui all’art. 81, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, tutte le attività esercitate dallo stesso debbano considerarsi al pari di attività d’impresa, con conseguente rilevanza dei proventi derivanti dalle stesse ai fini dell’IRES.
Tuttavia, la particolare disciplina prevista per gli enti sportivi dilettantistici induce a riflettere sulla possibilità che, anche nel caso in cui un’associazione sportiva dilettantistica perda la qualifica fiscale di ente non commerciale, possa comunque continuare a godere dell’agevolazione prevista dall’art. 148, comma 3, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, così come peraltro avviene per le società sportive dilettantistiche, le quali, pur essendo società di capitali, e come tali enti commerciali ai fini delle imposte sui redditi, possono godere delle medesime agevolazioni previste per le associazioni sportive dilettantistiche.
Non si vede perché un’associazione sportiva dilettantistica che abbia natura di ente commerciale ai fini IRES, in ragione dell’esercizio prevalente di attività commerciale per più di un periodo d’imposta, non possa usufruire della medesima agevolazione fiscale prevista per una società sportiva dilettantistica che sia in possesso della stessa qualifica fiscale e che svolga la medesima attività.
Onde evitare ingiustificate differenze di trattamento, potrebbe dunque ritenersi che, nel caso in cui un’associazione sportiva dilettantistica perda la qualifica di ente non commerciale ai fini delle imposte sui redditi, possano comunque ritenersi escluse dal computo della base imponibile IRES i proventi di cui all’art. 148, comma 3, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917.
Perplessità ancora maggiori riguardano “le somme versate dagli associati o partecipanti a titolo di quote o contributi associativi”, le quali sembrano poter rappresentare entrate “istituzionali” solo in relazione agli enti non commerciali di tipo associativo di cui all’art. 143 (non ponendosi estendere tale agevolazione alle società sportive dilettantistiche, in riferimento alle quali non esistono associati, ma solo soci, che sono coloro che detengono partecipazioni societarie, e tesserati, i quali, pur svolgendo un’attività sportiva dilettantistica a contatto con la società, sono soggetti estranei alla stessa).
Anche relativamente alla possibilità che l’art. 148, comma 3, continui ad applicarsi in riferimento agli enti sportivi dilettantistici che abbiano perso, ai fini fiscali, la qualifica di ente non commerciale valgono le considerazioni brevemente svolte finora con riferimento al divieto di aiuti di Stato di cui all’art. 107 TFUE, alla luce delle quali appare opportuno porsi il seguente interrogativo: se, secondo quanto affermato dalla Corte di Cassazione, dall’art. 149, comma 4, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, non può discendere una “qualifica permanente di ente non commerciale”, può l’art. 148, comma 3, del medesimo D.P.R. comportare la qualifica permanente di non commercialità di una determinata attività?
Evidentemente la risposta a tale domanda merita una riflessione più approfondita, che non può essere svolta in questa sede. Pare dunque opportuno limitarsi a rilevare, come peraltro anticipato, che riguardo alla prospettata possibilità non assume rilevanza solamente il divieto di aiuti di Stato di cui all’art. 107 TFUE, ma anche il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. ed il conseguente divieto di discriminazione.
In ogni caso, qualora l’associazione sportiva dilettantistica abbia optato per il regime di cui alla L. 16 dicembre 1991, n. 398, potrà avvalersene anche relativamente alla rideterminazione dei proventi da “istituzionali” a commerciali conseguente alla perdita della qualifica di ente non commerciale ai fini tributari.