argomento: Agevolazioni - Giurisprudenza
La Commissione tributaria regionale per il Lazio ritorna ad esaminare la disciplina dell’agevolazione c.d. “Tremonti ambientale”, passando in rassegna molte delle problematiche dibattute sul tema nel corso degli ultimi anni e riconoscendo il beneficio tributario anche a prescindere dal rispetto di taluni adempimenti procedimentali stabiliti dal legislatore a carico del contribuente. Tuttavia, pur ad ammettere una applicazione non “rigida” dell’agevolazione, in aderenza ad alcuni chiarimenti di prassi amministrativa succedutisi sull’argomento, il riconoscimento del beneficio necessita di essere comunque contemperato con le regole stabilite dal legislatore per la sua quantificazione e con quelle in tema di onere della prova a carico della parte che avanzi la pretesa creditoria nei confronti dell’Amministrazione finanziaria.
» visualizza: il documento (Comm. trib. reg. per il Lazio, Sez. IX, 26 luglio 2022, n. 3464)PAROLE CHIAVE: investimento ambientale - agevolazioni tributarie - dichiarazione - bilancio di esercizio - rimborso - onere della prova
di Francesco Garganese
La vicenda esaminata dal collegio giudicante scaturiva dall’impugnazione di un silenzio rifiuto opposto dall’Agenzia delle Entrate all’istanza di rimborso di una società, operante nel comparto energetico, relativa all’IRES corrisposta nell’arco di un quadriennio.
La richiesta di rimborso del tributo era stata motivata dalla contribuente sull’assunto di aver eseguito l’acquisizione di un impianto fotovoltaico con riferimento al quale non aveva usufruito della detassazione prevista dall’art. 6, commi 13 e ss., della L. n. 388/2000. Tale disposizione prevedeva, infatti, che la quota di reddito delle piccole e medie imprese, destinata ad investimenti ambientali, non concorresse alla formazione del reddito imponibile ai fini delle imposte sul reddito.
Mentre nel giudizio di primo grado la domanda della società contribuente veniva respinta dal Giudice tributario, sulla considerazione che non fosse stata fornita idonea prova della sussistenza dei presupposti applicativi dell’agevolazione, la stessa veniva, invece, accolta all’esito del giudizio di appello con la sentenza in commento.
Nell’ambito delle valutazioni compiute dalla Commissione tributaria Regionale per il Lazio, ciò che appare meritevole di interesse è l’approccio, non propriamente rigoroso in punto di prova, che il collegio giudicante ha inteso assumere per giungere al riconoscimento del diritto al rimborso. Difatti, con specifico riferimento al rispetto di taluni adempimenti procedimentali, funzionali alla dimostrazione dell’investimento ambientale e, quindi, alla conseguente fruizione del beneficio, la decisione in commento non sembra contraddistinguersi per rigore metodologico circa i diversi elementi probatori analizzati dal giudice tributario per riconoscere al contribuente il conseguente rimborso della maggiore imposta versata.
Per tale ragione, la sentenza in commento, oltre consentire una breve analisi della portata applicativa della agevolazione c.d. “Tremonti ambientale”, offre anche lo spunto per chiedersi se l’approccio adottato dal giudice di merito per la risoluzione della controversia possa ritenersi condivisibile ed essere riproposto in futuro anche in ragione del mutato scenario normativo in tema di onere della prova nel processo tributario conseguente all’entrata in vigore del comma 5-bis dell’art. 7 del D.Lgs. n. 546/1992 ad opera della L. 31 agosto 2022, n. 130.
Si trattava, in particolare, di una disposizione idonea a ridurre, attraverso una variazione in diminuzione, il reddito imponibile in misura pari al maggiore costo sostenuto dall’impresa per l’acquisto del bene con le caratteristiche di tutela ambientale rispetto al minor costo che la stessa impresa avrebbe sostenuto acquistando un cespite analogo sotto il profilo tecnico, ma inidoneo a garantire effetti positivi sull’ambiente; questo al netto dei benefici attesi in termini di maggiore produttività e minori costi futuri (cfr. Ag. Ent., Ris. 11 luglio 2002, n. 226).
Tale complesso criterio di quantificazione dell’investimento “ambientale”, che consentiva di individuare poi l’ammontare del beneficio fiscale, era noto con la denominazione di “approccio incrementale” (per un chiarimento sul concetto di approccio incrementale anche in chiave europea, si rimanda a F. Farri, Note sulle modalità di calcolo “con approccio incrementale” dell’agevolazione Tremonti ambiente, in Riv. dir. trib., I, 2022, 169). Veniva infatti così identificata la tecnica comparativa tra i costi per gli investimenti tradizionali e i c.d. sovraccosti per gli investimenti con finalità di tutela dell’ambiente. L’agevolazione tributaria veniva, poi, determinata in misura differente a partire dal periodo d’imposta 2003, tenendo conto della media degli investimenti ambientali compiuti dall’impresa nei primi due anni di entrata in vigore della L. n. 388/2000, secondo quanto stabilito dal legislatore al comma 19 del medesimo art. 6 (per un chiarimento di tali profili operativi, P. Alberti, La detassazione degli investimenti ambientali e i riflessi sul fotovoltaico, in Il fisco, 2010, I, 7272).
Nonostante l’art. 6 della L. n. 388/2000 sia stato successivamente abrogato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83 proprio nella parte in cui esso disciplinava la c.d. agevolazione “Tremonti ambientale”, il tema conserva tutt’oggi una certa rilevanza a causa degli “strascichi” che una normativa, invero frammentaria, continua ad avere in sede giudiziale con riferimento alla valutazione dei presupposti applicativi del beneficio ed alle relative modalità di fruizione da parte dei contribuenti che abbiano compiuto tali investimenti tra il 1° gennaio 2001 ed il 25 giugno 2012. Tanto più che, a causa di dubbi interpretativi circa la cumulabilità di detta agevolazione tributaria con altre misure volte ad incentivare la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili (c.d. Conto energia introdotto per la prima volta dal D.M. dello Sviluppo economico del 28 luglio 2005), molte imprese avevano deliberatamente deciso di non usufruire della “Tremonti ambientale”. Solo a seguito dei chiarimenti ministeriali in merito alla parziale cumulabilità delle due misure, seppur entro il limite del 20 per cento del costo dell’investimento (cfr. art. 19 del D.M. dello Sviluppo economico del 5 luglio 2012 relativo al c.d. II Conto energia), numerosi operatori economici avevano cercato di beneficiare anche della detassazione del reddito imponibile di cui all’art. 6, comma 13 e ss. della L. n. 388/2000, presentando una dichiarazione dei redditi integrativa oppure avanzando all’Agenzia delle Entrate, esattamente come nella fattispecie esaminata dalla Commissione tributaria regionale per il Lazio, apposita istanza di rimborso dell’imposta corrisposta in eccedenza rispetto al quantum dovuto in applicazione del beneficio tributario (procedura riconosciuta come possibile anche alla luce dei chiarimenti forniti dall’Agenzia delle Entrate con Ris. 20 dicembre 2010, n. 132/E e Ris. 20 luglio 2016, n. 58/E. Sui riflessi anche amministrativi della cumulabilità della “Tremonti ambientale” e degli incentivi del Conto energia, si veda F. Farri, Tremonti ambiente e incentivi al fotovoltaico: errori del GSE e aporie fiscali, in Riv. telem. dir. trib. del 27 marzo 2018).
Proprio la verifica del presupposto soggettivo di applicazione del beneficio tributario ha costituito, nella fattispecie esaminata dalla Commissione tributaria Regionale per il Lazio, una prima questione controversa. Difatti, era stato contestato dall’Agenzia delle Entrate il mancato possesso dei requisiti soggettivi di applicazione della “Tremonti ambientale”, attesa l’esistenza di un rapporto di collegamento tra la società richiedente il beneficio ed altre imprese tale da superare nel complesso le soglie massime previste dalla disciplina delle PMI. Si tenga presente, infatti, che nei casi di imprese collegate, ai sensi dell’art. 3, comma 6, del citato D.M. 18 aprile 2005, i dati da prendere in considerazione sono quelli desunti dal bilancio consolidato di gruppo ovvero, in sua assenza, la sommatoria dei dati dell’impresa richiedente il beneficio con quelli delle altre imprese collegate alla prima.
Premesso che la sussistenza dei requisiti soggettivi di applicazione della “Tremonti ambientale” concerne valutazioni di merito che, per quanto qui di interesse, assumono scarsa rilevanza, ciò che sembra opportuno, invece, evidenziare è il metodo adottato nel caso di specie dal giudice tributario per la verifica di detti requisiti.
Tale approccio deve essere analizzato in ragione della natura della controversia decisa dal giudice tributario che, sostanziandosi in una lite “da rimborso”, imponeva alla società contribuente di dimostrare nel relativo giudizio le ragioni fondanti il proprio diritto, coerentemente con il dettato normativo di cui all’art. 2697 c.c.
Orbene, la Commissione tributaria Regionale per il Lazio ha superato la formulata eccezione amministrativa, facendo rinvio ad un altro decisum di merito di un diverso giudice che, con riferimento ad un’altra impresa appartenente al medesimo gruppo societario della contribuente istante, aveva ritenuto sussistenti i requisiti soggettivi per la fruizione del beneficio.
Sennonché, ai fini della dimostrazione del presupposto soggettivo di applicazione della “Tremonti ambientale”, il rinvio ad un’altra sentenza tributaria compiuto dal giudice di merito appare non sufficiente, trattandosi di decisione relativa ad una differente impresa (dunque non assunta tra le medesime parte in contesa) e con riferimento alla quale non è dato di evincere se fosse o meno passata in giudicato. Ma anche in tale ultimo caso, il richiamo ad altra decisione di merito sarebbe stato non rilevante atteso il giudicato esterno, che vincola il giudice successivo, è solo quello formatosi tra le medesime parti del processo, sulla medesima materia oggetto del contendere e, soprattutto, afferente all’accertamento di circostanze c.d. stabili dell’obbligazione tributaria (tutte peculiarità non riscontrabili nel caso di specie).
Ciò induce a non condividere il criterio di verifica adottato nel caso di specie dal giudice di merito che, solo in seconde cure, dopo aver fatto decisivo ed argomentato rinvio alle risultanze dell’altro processo, ha ritenuto opportuno menzionare anche un non meglio precisato prospetto contenente i dati dei bilanci delle società del gruppo, depositato in giudizio dalla contribuente appellante, da cui si sarebbe in ogni caso evinto il rispetto dei limiti soggettivi della piccola e media impresa al momento della realizzazione dell’investimento ambientale.
Tuttavia, nella vicenda esaminata, attesa l’espressa e motivata contestazione da parte dell’Agenzia fiscale dei dati forniti dall’impresa istante con riferimento al requisito soggettivo di fruizione dell’agevolazione, sarebbe stato probabilmente più opportuno assumere un maggiore rigore probatorio nei confronti della contribuente.
Invero, dalla descrizione della fattispecie riportata nella sentenza che si annota emerge che, a fronte della dimostrazione dell’acquisizione di un impianto fotovoltaico da parte della società contribuente sulla base di documentazione amministrativa e contabile dell’impresa (atti di compravendita, fatture di acquisto, bilanci di esercizio, movimentazioni bancarie, etc.), l’Agenzia fiscale aveva contestato, quale circostanza ostativa del beneficio, la mancata rappresentazione in bilancio dell’investimento ambientale distintamente dalle altre immobilizzazioni.
Sul punto, la Commissione tributaria regionale per il Lazio ha ritenuto non cogente, attraverso il richiamo di alcuni precedenti di giurisprudenza e prassi, la rappresentazione in bilancio dell’investimento ambientale quale condizione per la fruizione dell’agevolazione. In luogo della rappresentazione in bilancio dell’investimento ambientale distinta dalle altre immobilizzazioni, pur prevista dall’art. 6, comma 16, della L. n. 388/2000, il giudice tributario ha sostanzialmente ritenuto sufficiente, per legittimare la richiesta di rimborso, la descrizione e quantificazione dell’investimento per il tramite di una relazione tecnica, priva di asseverazione, depositata nel processo.
Ebbene, se è vero che taluni adempimenti formali non sembrano essere stati disposti dal legislatore a pena di decadenza – si pensi alla prevista comunicazione al MISE (comma 17) che aveva solo la finalità di consentire al soggetto pubblico di effettuare il censimento degli investimenti ambientali effettuati dalle PMI nonché di istituire un apposito fondo di finanziamento presso il MEF – lo stesso non sembra potersi sostenere con riferimento alla previsione legislativa di indicare obbligatoriamente (“le imprese sono tenute”) l’investimento ambientale nel bilancio di esercizio dell’impresa (comma 16).
Invero, tale ultimo adempimento, diversamente da quanto opinato dal giudice tributario nel caso di specie, non assume la natura di mero adempimento formale, atteso che, in mancanza, sarebbe impossibile procedere al calcolo, secondo il metodo incrementale, dell’investimento ambientale e, conseguentemente, anche della quota di reddito sottratta ad imposizione (su cui poi quantificare il tributo oggetto di rimborso). In altri termini, atteso che l’investimento ambientale necessita dell’applicazione di una tecnica comparativa che, come detto, consente di individuare i c.d. sovraccosti, ossia quelli relativi al solo beneficio ambientale rispetto ad un investimento equivalente sul pianto tecnico ma privo di “effetti ambientali”, la necessità di isolare detti sovraccosti nello Stato patrimoniale rappresenta la soluzione tecnica per la quantificazione del beneficio tributario. Del resto, un investimento classificato tra le immobilizzazioni materiali non è relativo solo a finalità ambientali (si pensi al pannello fotovoltaico che è, in primis, funzionale all’impresa per produrre energia da destinare al ciclo produttivo), divenendo in tali casi non solo indicato, ma anzi necessario, distinguere la quota parte di esso riconducibile alla finalità strettamente ambientale (sul punto si vedano anche i chiarimenti contenuti nel documento n. 4/2001 della Fondazione Aristeia – Istituto di ricerca dei Dottori commercialisti). Proprio questo è l’aspetto che sembra essere sfuggito al collegio giudicante nella sentenza in commento, ossia la differenza tra il c.d. approccio incrementale, richiesto dal legislatore e con riferimento al quale è stato previsto l’obbligo di rappresentare chiaramente in bilancio il sovraccosto ambientale, ed il differente approccio globale, che invece considererebbe l’investimento nella sua interezza senza separare la quota parte di esso afferente al fine ambientale da quello meramente industriale. Ma, stando così le cose, sembra più corretto attribuire al dettato normativo di cui al comma 16 una valenza decisiva e non meramente “formale” ai fini del riconoscimento dell’agevolazione in parola.
Tale conclusione appare ragionevole nonostante le indicazioni fornite dalla prassi amministrativa, a detta della Commissione tributaria regionale per il Lazio, sembrerebbero far propendere per la tesi contraria.
Difatti, se da un lato l’Agenzia delle Entrate ha avuto modo in passato di sostenere che, a fronte del mancato volontario utilizzo della detassazione ambientale nell’esercizio di realizzazione dell’investimento, rientrerebbe nella facoltà del contribuente riapprovare i relativi bilanci se ne ravvisa i presupposti (cfr. Ris. n. 58/2016), dall’altro, tale interpretazione non solo non esclude l’importanza della previsione normativa di cui al citato comma 16, ma sembra circoscrivere la facoltatività all’ipotesi in cui l’investimento compiuto assuma per intero funzione ambientale tale da non richiedere lo scorporo della quota ambientale da quella meramente tecnica. Tanto è vero che, nel caso di specie, lo stesso Ufficio dell’Amministrazione finanziaria, nonostante i chiarimenti esposti dall’Agenzia delle Entrate nella Risoluzione n. 58/E/2016, aveva contestato alla contribuente la violazione dell’obbligo di rappresentare in bilancio l’investimento compiuto.
Quanto, poi, alla determinazione dell’investimento ambientale ed alla conseguente quota del beneficio fiscale, che il giudice tributario, nella sentenza in commento, ha ritenuto possibile documentare per il tramite di una relazione tecnica di parte ed a prescindere dal mancato rispetto degli obblighi procedimentali di cui sopra, va osservato che anche tale profilo impatta inevitabilmente con l’onere della prova che incombe sul contribuente ogniqualvolta egli voglia agire processualmente per il riconoscimento di un proprio credito.
A tal riguardo, va infatti richiamato il principio, più volte ribadito dalla Suprema Corte, secondo cui la “perizia stragiudiziale non ha valore di prova nemmeno rispetto ai fatti che il consulente asserisce di aver accertato, ma solo di indizio, al pari di ogni documento proveniente da un terzo” (cfr. tra le ultime, Cass. civ., Sez. III, 1 febbraio 2023, n. 2980). Di conseguenza, se è vero che la valutazione della stessa è rimessa all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, è altrettanto vero che tale indizio necessita di ulteriori elementi di riscontro per assumere valenza probatoria e tali non possono che essere, con riferimento al caso di specie, quelli relativi alla chiara rappresentazione in bilancio dell’investimento ambientale distintamente dagli altri cespiti.
In altri termini, a differenza di quanto opinato dalla Commissione tributaria Regionale per il Lazio, la relazione tecnica di parte, a prescindere o meno dalla relativa asseverazione, che al massimo potrebbe influire sul grado di convincimento del relativo contenuto, non sembra essere sufficiente per quantificare il beneficio tributario se dell’investimento ambientale non vi sia idonea traccia contabile nel bilancio di esercizio. Al massimo, il contenuto della relazione di parte avrebbe potuto utilmente illustrare le modalità di quantificazione della variazione in diminuzione da apportare al reddito di impresa a condizione, però, che le formalità prodromiche, previste non a caso dal legislatore, fossero state puntualmente rispettate.
Del resto, qualora venisse consentito al contribuente di quantificare il beneficio ed il conseguente credito oggetto di rimborso in altro modo, ad esempio per il tramite di una perizia di parte, come nel caso esaminato nella sentenza che si annota, senza che lo stesso trovi a monte adeguato riscontro contabile, si rischierebbe di accertare nel processo una rappresentazione della situazione patrimoniale dell’impresa incoerente con il bilancio di esercizio.
In particolare, trattandosi di una richiesta postuma di fruizione dell’agevolazione per il tramite di un’apposita istanza di rimborso, e stante l’espressa e motivata contestazione in sede processuale dei presupposti di riconoscimento del beneficio, la verifica di questi ultimi avrebbe imposto maggiore rigore nell’esame delle prove allegate dalla società appellante, coerentemente con quello che è il riparto dell’onere della prova a carico del contribuente nelle c.d. “liti da rimborso” in aderenza al dettato normativo di cui all’art. 2697 c.c.
Medesimo rigore probatorio a carico della parte privata sarebbe, peraltro, stato necessario anche nella diversa ipotesi di giudizio di impugnazione di un atto amministrativo con cui l’ente impositore avesse formalmente opposto il proprio diniego alla fruizione dell’agevolazione avanzata dal contribuente, in coerenza con quello che tradizionalmente era un orientamento condiviso in dottrina (si veda F. Tesauro, L’onere della prova nel processo tributario, in Riv. dir. fin., 1986, 88) e, ancor più, nella giurisprudenza di legittimità (tra le ultime Cass. civ., Sez. V, 9 marzo 2021, n. 6425 e Cass. civ., Sez. V, 30 settembre 2021, n. 26666).
Viene, però, da chiedersi se, nell’ambito di controversie similari a quella oggetto di esame nella sentenza in commento, lo stesso rigore probatorio debba essere preteso anche in futuro dal giudice tributario a carico del contribuente. Il dubbio sorge in ragione della novella apportata dalla L. n. 130/2022 che, inserendo il nuovo comma 5-bis all’art. 7 del D.Lgs. n. 546/1992, ha espressamente disciplinato il riparto dell’onere della prova nel processo tributario.
Sebbene tale novella non rilevi per la fattispecie esaminata dalla Commissione tributaria Regionale per il Lazio, essendo la controversia stata decisa prima dell’entrata in vigore della L. n. 130/2022, la relativa disciplina merita comunque un breve esame in chiave prospettica.
Se, infatti, prima dell’introduzione del comma 5-bis era condivisa nella giurisprudenza della Suprema Corte la regola per cui, coerentemente al dettato normativo dell’art. 2697 c.c., incombesse al contribuente l’onere della prova tanto nelle liti concernenti il disconoscimento delle agevolazioni tributarie quanto in quelle relative al rimborso dei tributi (sul punto, per una ricostruzione, si veda A. Pace, Le agevolazioni fiscali. Profili procedimentali e processuali, Torino, 2012, 187 ss.), lo scenario è mutato dopo all’entrata in vigore della L. n. 130/2022.
Non vi è dubbio, infatti, che laddove il nuovo comma 5-bis dell’art. 7 del D.Lgs. n. 546/1992 dispone che “L’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato”, il legislatore abbia voluto riferirsi a tutte le tipologie di contestazioni amministrative (cfr. G. Melis, Su di un trittico di questioni di carattere generale relative al nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992: profili temporali, rapporto con l’art. 2697 c.c. ed estensione del principio di vicinanza alla prova, in Riv. tel. dir. trib. del 19 marzo 2023), ossia quelle che scaturiscono, ad esempio, dalla omessa dichiarazione di un componente positivo di reddito, dalla illegittima deduzione di un costo ovvero, per quanto qui di interesse, dalla indebita fruizione di una agevolazione tributaria (fattispecie che implica pur sempre, per il tramite di un atto amministrativo, la contestazione della violazione di una norma tributaria e la liquidazione della maggiore imposta dovuta).
Di conseguenza, nell’ambito delle controversie aventi ad oggetto l’impugnazione dell’atto amministrativo con cui l’amministrazione disconosce una agevolazione tributaria, l’onere della prova incombe oggi sull’ente impositore il quale non può più semplicemente limitarsi ad argomentare sulla mancata documentazione in fase istruttoria da parte del contribuente dei presupposti applicativi del beneficio, ma deve dimostrare – in maniera evidentemente più complessa rispetto al passato – quelle circostanze di fatto che lo legittimano ad elevare la contestazione. In difetto, il giudice deve annullare l’atto impositivo “se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni”.
Ovviamente, pur esistendo uno specifico onere probatorio a carico dell’ente impositore nelle controversie scaturenti dalla impugnazione di un atto amministrativo, quand’anche relativo alla revoca di una agevolazione tributaria, il contribuente è comunque tenuto a controdedurre i rilievi amministrativi, spettando poi al giudice il compito di ponderare tutte le tesi controverse al fine di fondare la propria decisione.
Conclusioni, invece, differenti devono essere rassegnate relativamente alle controversie incardinate per la restituzione dei tributi, con riferimento alle quali il legislatore della L. n. 130/2022 ha espressamente onerato il contribuente di “fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati”. Sul punto, la novella di cui alla L. n. 130/2022 non ha mutato le regole del riparto dell’onere della prova rispetto a quanto era già prospettabile in passato in ragione del semplice richiamo dell’art. 2697 c.c.; quello che oggi costituisce un profilo di novità è, invece, l’espressa affermazione nel processo tributario di una regola speciale che assorbe il dettato codicistico, facendo perdere di rilievo alla tradizionale distinzione tra fatti costitutivi ovvero modificativi ed estintivi della pretesa tributaria (C. Glendi, L’istruttoria del processo tributario riformato. Una rivoluzione copernicana, in Quotidiano Ipsoa del 24 settembre 2022).
Il riparto dell’onere della prova, così come attualmente disciplinato nel processo tributario dal comma 5-bis, sembra poter trovare, invece, una deroga nei soli casi in cui la parte onerata non sia oggettivamente in grado di potervi adempiere. Solo in tale rare ipotesi (si pensi all’impossibilità dell’amministrazione di acquisire la prova dell’evasione perché la fattispecie oggetto di istruttoria si è verificata all’estero), pare ragionevole ritenere che l’onere della prova, a prescindere dal riparto oggi normativamente disciplinato, incomba sulla parte che può ragionevolmente adempiervi in applicazione del principio di vicinanza della prova (sul punto, S. Muleo, Riflessioni sull’onere della prova nel processo tributario, in Riv. trim. dir. trib.,2021, 603; Id., Le “nuove” regole sulla prova nel processo tributario, in Giust. Insieme del 20 settembre 2022).
Proprio per tali ragioni, la risposta al quesito iniziale non può che essere affermativa. Difatti, dopo l’entrata in vigore della L. n. 130/2022, il giudice tributario deve assumere un approccio ancor più rigoroso rispetto al passato nella valutazione delle argomentazioni fornite dal contribuente per dimostrare il proprio diritto al rimborso dei tributi; così come, al contrario, imporlo con lo stesso rigore sull’ente impositore nelle differenti tipologie di controversie che scaturiscono dalla impugnazione dell’atto impositivo.
Per tale via, rapportando le argomentazioni innanzi esposte alla fattispecie del rimborso della maggiore imposta sul reddito corrisposta senza fruire della “Tremonti ambientale”, non sembra che il contribuente possa prescindere dal dimostrare l’ammontare del tributo oggetto di restituzione partendo dall’applicazione del metodo incrementale per l’individuazione dell’investimento ambientale che necessita, proprio per questo, della chiara e distinta esposizione in bilancio della quota dell’investimento ambientale.
Ciò appare tanto più necessario, anche a regola di logica, ogniqualvolta il credito per il quale si agisca in giudizio per la restituzione non emerga ictu oculi dai dati della dichiarazione (si pensi al caso di scuola del pagamento eccedente il dichiarato), bensì presupponga a monte una attività di riliquidazione del tributo di cui l’Amministrazione finanziaria deve essere messa a conoscenza per poter eventualmente effettuare i dovuti controlli.