argomento: Attuazione del tributo - Giurisprudenza
La pronuncia in commento conferma principi consolidati dalla giurisprudenza di legittimità in materia di diniego di autotutela, la cui contestazione viene nuovamente ancorata all’invocazione di ragioni di rilevante interesse generale alla rimozione dell’atto, originarie o sopravvenute. L’ordinanza si inserisce tuttavia in un contesto normativo ormai mutato a seguito dell’introduzione della nuova disciplina sull’autotutela, obbligatoria e facoltativa, nonché dell’inclusione del relativo rifiuto tra gli atti impugnabili, ad opera dei decreti legislativi attuativi della legge delega per la riforma fiscale.
» visualizza: il documento (Corte di Cass., ord. 1 dicembre 2023, n. 33610)PAROLE CHIAVE: autotutela tributaria - diniego - impugnabilità - interesse generale - riforma fiscale
di Roberta Vasi
1. L’ordinanza Cass. 1° dicembre 2023, n. 33610 ha ad oggetto l’impugnazione di un diniego opposto dall’Amministrazione finanziaria ad una richiesta di autotutela relativa alla parte residua di una cartella di pagamento, già oggetto di sgravio parziale. Nel caso in esame, il contribuente riceveva tale cartella esattoriale a seguito di un controllo automatizzato ex 36 bis D.P.R. n. 600/1973, di cui chiedeva lo sgravio parziale in autotutela, una volta divenuta definitiva per mancata impugnazione, adducendo di essere incorso in errori materiali nella compilazione della dichiarazione dei redditi. L’istanza veniva respinta con apposito provvedimento e la società impugnava il diniego di autotutela innanzi alla competente Commissione Tributaria Provinciale, che accoglieva il ricorso. A riforma della pronuncia di primo grado, il giudice d’appello dichiarava, per contro, inammissibile l’originario ricorso ritenendo il diniego di esercizio del potere di autotutela un atto non impugnabile. Contro tale decisione di merito, il contribuente proponeva ricorso in cassazione.
2. Il caso in esame riaccende l’attenzione su delicate questioni che attengono la doverosità e la specificità dell’esercizio del potere di autotutela, l’impugnabilità del diniego e il sindacato del giudice tributario, e lascia spazio a riflessioni sull’effettività e rafforzamento dell’istituto prospettati dalle recenti modifiche normative introdotte dalla legge di delega al governo per la riforma fiscale (legge delega 9 agosto 2023, n. 111).
Va chiarito innanzitutto che per autotutela s’intende il potere riconosciuto alle amministrazioni pubbliche di ritirare propri atti viziati o comunque giudicati inidonei a esprimere la funzione, che consente un’esclusione del sindacato del giudice sugli atti stessi e una risoluzione del conflitto con il destinatario del provvedimento mediante l’autodeterminazione, nell’intento di realizzare i principi costituzionali di legalità, imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa (a riguardo, BASILAVECCHIA, Funzione impositiva e forme di tutela, Torino, 2018, p. 465 ss.; DAL CORSO-RENDA, Il rafforzamento dell’istituto dell’autotutela nella Delega fiscale, in Corr. trib., 2023, p. 861 ss.).
In particolare, nel campo del diritto tributario, l’autotutela si pone come esercizio del potere di riesame, di annullamento d’ufficio o di revoca di atti illegittimi o infondati, ossia affetti da un vizio relativo alle modalità di esercizio del potere o nel contenuto che non risulta dunque conforme alla corretta rappresentazione della realtà.
3. Muovendo da una prospettiva storico-evolutiva, sotto il profilo normativo, si precisa che l’istituto dell’autotutela, in ambito tributario, è stato codificato con l’art. 68 del D.P.R. 27 marzo 1992, n. 287 (abrogato dall’art. 23 del D.P.R. 26 marzo 2001, n. 107) e poi disciplinato dall’art. 2 quater, comma 1, del D.L. 30 settembre 1994, n. 564, convertito, con modificazioni, dalla L. 30 novembre 1994, n. 656, e infine, in attuazione di quest’ultima disposizione, attuato con Regolamento approvato con Decreto del Ministero delle Finanze 11 febbraio 1997, n. 37. Rilevava, anche, l’art. 13 della L. 27 luglio 2000, n. 212, che, al comma 6, prevedeva un potere di attivazione delle procedure da parte del Garante del contribuente.
Da una lettura in combinato disposto delle norme richiamate si evince che i) il procedimento di autotutela in ambito tributario poteva essere attivato dall’ufficio, di propria iniziativa, “senza necessità di istanza di parte”, nonché dal contribuente mediante presentazione di apposita istanza motivata, o dal Garante del contribuente, autonomamente o su sollecitazione; ii) spettava all’ufficio che aveva emanato l’atto illegittimo o che era competente per gli accertamenti d’ufficio, ovvero, nel caso di sua grave inerzia senza giustificato motivo, in via sostitutiva, alla Direzione regionale dell’Agenzia delle entrate da cui l’ufficio stesso dipende, provvedere all’annullamento del provvedimento (art. 1 D.M. n. 37/1997); iii) l’Amministrazione finanziaria poteva procedere, in tutto o in parte, all’annullamento o alla rinuncia all’imposizione in caso di accertamento, anche in pendenza di giudizio o in caso di non impugnabilità, nelle ipotesi, individuate in modo non tassativo, in cui sussistesse illegittimità dell’atto o dell’imposizione (art. 2, comma 1, D.M. n. 37/1997); iv) l’Amministrazione finanziaria non avrebbe potuto procedere ad annullare l’atto qualora fosse intervenuta una sentenza passata in giudicato favorevole (art. 2, comma 2, D.M. n. 37/1997).
Occorre inoltre evidenziare che il legislatore, con l’introduzione del comma 1 octies, all’articolo 2 quater del D.L. n. 564/1994 a opera del D.Lgs. n. 159/2015, ha stabilito che “l’annullamento o la revoca parziali non sono impugnabili autonomamente”. In merito, la Relazione illustrativa ha precisato che detta previsione deriva dal fatto che l’autotutela parziale costituisce “una rettifica dell’originaria pretesa impositiva” e non si estrinseca, quindi, in un nuovo atto, sostitutivo del precedente annullato.
Tale precisazione è essenziale considerato che, entro i termini di decadenza del potere di accertamento, è riconosciuto all’Amministrazione finanziaria il potere di sostituire, anche a suo favore, un atto viziato con un atto rinnovato, ancorché di contenuto identico a quello sostituito, per sanare vizi originari dello stesso, senza che operino i limiti previsti per l’emissione di un avviso di accertamento integrativo (si pensi alla “sopravvenuta conoscenza di elementi nuovi”). Secondo un orientamento giurisprudenziale consolidato, l’autotutela sostitutiva deve comunque rispettare “il divieto di doppia imposizione e il diritto di difesa del contribuente, con la conseguenza che il secondo atto […] deve espressamente annullare il precedente” (per una ricostruzione dettagliata degli orientamenti giurisprudenziali in materia di autotutela sostitutiva, si veda Cass., 1° dicembre 2023, n. 33665, che ha rimesso alle Sezioni Unite la questione relativa al rapporto tra potere di autotutela sostitutiva, principio dell’unicità dell’accertamento e accertamento integrativo; per approfondimenti si veda ANTONINI-PIANTAVIGNA, Alle SS. UU. le questioni problematiche sull’autotutela sostitutiva, in Corr. trib., 2024, p. 252 ss., VANNINI, Alle Sezioni Unite l’autotutela tributaria tra sostituzione, integrazione (e modificazione) dell’atto impositivo, in Il fisco, 2024, p. 379 ss.).
4. In dottrina sono ampi i dibattiti sulla natura e specificità dell’istituto dell’autotutela tributaria, nonché sui presupposti che ne legittimano l’esercizio. I molteplici interrogativi riguardano principalmente i) la connotazione del potere di autotutela come funzione amministrativa vincolata o attività discrezionale; ii) l’obbligatorietà dell’azione dell’Amministrazione in caso di istanza di parte; iii) la sindacabilità e l’autonoma impugnabilità del diniego, sia espresso che tacito.
La dottrina maggioritaria tende a non condividere l’orientamento giurisprudenziale consolidatosi nel tempo, ed esaminato nel prosieguo, volto a qualificare l’esercizio dell’autotutela tributaria alla stregua di un’attività discrezionale finalizzata esclusivamente al perseguimento di un interesse generale alla rimozione dell’atto illegittimo o infondato. L’interesse pubblico, in ambito tributario, sarebbe infatti ravvisabile sotto diversi profili: (i) nel caso di atti ancora impugnabili o in pendenza di giudizio, corrisponderebbe all’interesse alla rimozione di un atto illegittimo o infondato, ai fini della salvaguardia degli interessi erariali, prevenendo la possibile soccombenza in un giudizio instaurato e l’insorgere di responsabilità in materia di spese giudiziali; ii) nel caso di atti definitivi, tale interesse risiederebbe nel garantire la certezza del diritto e il consolidamento degli effetti dell’atto nei rapporti tributari (si veda TUNDO, L’Amministrazione finanziaria non può trincerarsi nel silenzio in caso di istanza di autotutela, in Corr. trib., 2012, p. 1210 ss.).
La dottrina è poi concorde sulla qualifica di funzione amministrativa vincolata in quanto espressione di una finalità dell’istituto di assicurare una giusta tassazione, nel rispetto dei principi di capacità contributiva e di esercizio imparziale dell’azione amministrativa (come sottolineato in DIDONI, La tutela giurisdizionale avverso il diniego di esercizio dell’autotutela tributaria avente ad oggetto annullamento parziale di un atto impositivo, in Riv. tel. dir. trib., 5 marzo 2024, una diversa impostazione circa la natura del potere di autotutela richiederebbe una distinzione tra funzione tributaria vincolata e funzione di riesame degli atti vincolati di imposizione, e tale ultima funzione non sarebbe vincolata “ma poggerebbe su un apprezzamento – discrezionale – dell’interesse pubblico”).
Maggiormente controversa risulta invece la questione relativa all’impugnabilità del diniego, condizionata dall’indirizzo giurisprudenziale sul punto, nonché dalla delimitazione del sindacato della giurisdizione tributaria e dal necessario coordinamento con la struttura del contenzioso tributario (si veda RASI, Le modifiche in tema di impugnabilità degli atti di autotutela e loro riflessi processuali, in Tax News – Supplemento online a Riv. trim. dir. trib., 11 aprile 2024).
5. Gli interrogativi posti in ambito dottrinale sono sollecitati dalle divergenti pronunce della giurisprudenza, di merito e di legittimità, che hanno cercato di fornire risposte interpretative sull’istituto e in particolare, in assenza di un chiaro disposto normativo, sul diniego di autotutela, argomento della stessa ordinanza in commento.
Si rammenta innanzitutto il contenuto delle sentenze Cass., SS.UU., 10 agosto 2005, n. 16776 e Cass., SS.UU., 27 marzo 2007, n. 7388 con cui, facendo leva sul “carattere generale” della giurisdizione tributaria, è stata riconosciuta l’impugnativa giurisdizionale del diniego dinanzi al giudice tributario e, in virtù dell’attribuzione a quest’ultimo di tutte le controversie in materia di tributi di qualunque genere e specie, una competenza, in generale, in tutte quelle pronunce relative agli atti di esercizio dell’autotutela tributaria.
In tale contesto, la Corte di Cassazione ha inteso comunque circoscrivere il sindacato del giudice alla sola valutazione della legittimità del rifiuto di autotutela, escludendo che lo stesso possa estendersi alla fondatezza della pretesa tributaria e causare, di conseguenza, un’indebita sostituzione del giudice nell’attività amministrativa. Secondo i principi dettati dall’evoluzione giurisprudenziale, l’esercizio del potere di autotutela non può infatti risolversi in un ulteriore mezzo di tutela, a favore del contribuente, teso all’eliminazione dell’atto impositivo inoppugnabile per vizi di validità o di merito (sul punto, si vedano Cass., 30 ottobre 2015, n. 22253, Cass., 14 settembre 2021, n. 24652; per approfondimenti, GLENDI, Incertezze sui rimedi esperibili avverso il diniego parziale e tacito di autotutela, in GT – Riv. giur. trib., 2017, p. 48 ss.; BASILAVECCHIA, Il diniego di autotutela: lo stato dell’arte, in GT – Riv. giur. trib., 2022, p. 45 ss.).
Dunque, da un esame degli orientamenti giurisprudenziali più significativi, si evince che, seppure l’elencazione degli atti impugnabili contenuta nell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992 sia stata suscettibile di interpretazione estensiva, riconoscendosi la facoltà di ricorrere anche in caso di diniego di autotutela su provvedimenti divenuti definitivi, è necessario che il contribuente prospetti l’esistenza di un interesse di rilevanza generale dell’Amministrazione alla rimozione dell’atto.
In tal senso, “l’esercizio del potere di autotutela, in quanto si giustifica in relazione a ragioni di rilevante interesse generale, si basa su valutazioni ampiamente discrezionali e non costituisce uno strumento di tutela dei diritti individuali del contribuente” (cfr. Cass., 7 marzo 2022, n. 7318, Cass., 20 settembre 2023 n. 26907, già citata Cass., ord., n. 33665/2023). Nell’ambito di una non chiara nozione di interesse di rilevanza generale, la Suprema Corte ha affermato che il mero interesse del privato alla rimozione dell’atto deve convergere con un interesse pubblico concreto e concorrente attraverso un bilanciamento tra l’esigenza di stabilità dei rapporti giuridici e la corretta esazione di tributi (FARCOMENI, Autotutela tributaria e interesse generale alla rimozione all’atto, in Riv. tel. dir. trib., 11 ottobre 2022).
Tale orientamento deriva da principi statuiti dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza 19 luglio 2017, n. 181, in cui è stato affermato che l’annullamento d’ufficio, come espressione di amministrazione attiva che necessita di “preliminari valutazioni comparative”, ha natura pienamente discrezionale. Ne consegue la negazione dell’esistenza di un “dovere dell’Amministrazione di pronunciarsi sull’istanza di autotutela” e, in assenza di una tale qualificazione di potere-dovere, il mero silenzio dell’Amministrazione non equivale a inadempimento e non è impugnabile (Cass., 17 febbraio 2023, n. 5176).
6. Nell’ordinanza n. 33610/2023 in commento la decisione del giudice di legittimità richiama il consolidato principio di diritto secondo cui il sindacato del giudice sul provvedimento di diniego di autotutela è vincolato all’accertamento delle sopracitate ragioni di rilevante interesse generale dell’Amministrazione finanziaria alla rimozione dell’atto, che siano “originarie o sopravvenute” (cfr. già citata Cass. n. 7318/2022).
Nel caso di specie, ai fini dell’accoglimento delle contestazioni, il contribuente allegava solo l’esistenza di errori meramente formali nella compilazione della dichiarazione, fondando su queste argomentazioni l’impugnazione del diniego, nonché la richiesta di annullamento dell’intera pretesa impositiva.
Seppur vero che l’ordinamento tributario consente l’impugnazione degli atti impositivi, anche di natura esattiva, secondo quanto statuito dai giudici di legittimità, un provvedimento di sgravio parziale della pretesa impositiva non comporta che il contribuente sia per questo legittimato a contestare in giudizio il mancato esercizio dell’autotutela con riferimento alla parte residua della pretesa tributaria definitiva che, con valutazione ampiamente discrezionale, non è stata annullata, risultando sempre necessario a tal fine dimostrare le sopracitate ragioni di rilevante interesse generale. Nella decisione del caso in esame, la Corte respingeva pertanto il ricorso, in quanto rilevava unicamente l’invocazione di un pregiudizio individuale derivante dall’emissione e dal mancato annullamento della cartella esattoriale, senza esplicitazione di alcun collegamento tra ritiro del provvedimento e tutela di un interesse generale.
7. In un contesto normativo e giurisprudenziale siffatto, che riduce l’autotutela a esercizio di un potere meramente discrezionale, si inserisce il rafforzamento dell’istituto prospettato dal D.Lgs. 30 dicembre 2023, n. 219, pubblicato il 3 gennaio ed entrato in vigore a decorrere dal 18 gennaio 2024, attuativo della delega al governo per la riforma fiscale contenuta nella legge delega n. 111/2023.
Nell’intento di “potenziare l’esercizio del potere di autotutela estendendone l’applicazione agli errori manifesti nonostante la definitività dell’atto, prevedendo l’impugnabilità del diniego ovvero del silenzio nei medesimi casi […]”, il decreto abroga la disciplina previgente e attua una revisione della L. n. 212/2000 mediante l’inserimento degli artt. 10 quater e 10 quinquies, che disciplinano rispettivamente l’autotutela tributaria obbligatoria e facoltativa.
In particolare, l’art. 10 quater stabilisce che l’Amministrazione finanziaria “procede in tutto o in parte all’annullamento di atti di imposizione ovvero alla rinuncia all’imposizione, senza necessità di istanza di parte”, nelle ipotesi di manifesta illegittimità dell’atto o dell’imposizione già previste dal D.M. n. 37/1997, ovvero a) errore di persona; b) errore di calcolo; c) errore sull’individuazione del tributo; d) errore materiale del contribuente facilmente riconoscibile dall’amministrazione finanziaria; e) errore sul presupposto dell’imposta; f) mancata considerazione di pagamenti regolarmente eseguiti; g) mancanza di documentazione successivamente sanata, non oltre i termini di decadenza (vengono meno le fattispecie di doppia imposizione e sussistenza dei requisiti per deduzioni, detrazioni o regimi agevolativi precedentemente negati). Sussistente anche in pendenza di giudizio o in caso di atti definitivi, l’obbligo non ricorre “in caso di sentenza passata in giudicato favorevole all’amministrazione, nonché decorso un anno dalla definitività dell’atto viziato per mancata impugnazione” (art. 10 quater, comma 2). Fuori dei casi vincolati di “errore manifesto”, l’autotutela tributaria viene delineata come un potere facoltativo e discrezionale di annullamento, totale o parziale, che opera in ogni altra ipotesi in cui l’atto o l’imposizione possano risultare illegittimi o infondati.
A ciò si aggiunga uno degli aspetti più innovativi introdotti dalla legge delega, con il D.Lgs. del 30 dicembre 2023, n. 220, di riforma del contenzioso tributario, coincidente con la possibilità di proporre ricorso avverso il rifiuto espresso o tacito sull’istanza di autotutela nei casi di autotutela obbligatoria, nonché avverso il solo diniego esplicito nel caso di autotutela facoltativa (cfr. lettere g bis) e g ter) dell’art. 19, comma 1, D.Lgs. n. 546/1992, contenente l’elenco degli atti impugnabili; per approfondimenti, RASI, op. cit.). Se il rifiuto è espresso, il termine per l’impugnazione è di 60 giorni dal ricevimento del provvedimento. Per il diniego tacito che, secondo la tecnica processuale prevista dal comma 2 dell’art. 21 del suddetto decreto, viene affiancato al diniego di rimborso, il ricorso è proponibile trascorsi 90 giorni dalla presentazione dell’istanza e fino a quando il diritto alla restituzione non è prescritto; in mancanza di norme specifiche, la domanda “non può essere presentata dopo due anni dal pagamento ovvero, se posteriore, dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione”.
In merito al limite temporale introdotto dal comma 2 dell’art. 10 quater, si intende che l’obbligo permane se entro l’anno il contribuente ha presentato istanza e l’Amministrazione non è ancora intervenuta, posto che dopo novanta giorni dalla presentazione dell’istanza il silenzio può essere impugnato con ricorso giurisdizionale. Inoltre, il suddetto limite temporale, per cui l’obbligo di ritirare l’atto non sussiste decorso un anno dalla definitività dello stesso, non dovrebbe precludere in linea teorica l’esercizio del potere discrezionale, considerato che il decorso dell’anno fa decadere il solo “obbligo” (cfr. BASILAVECCHIA, Autotutela tributaria sugli atti impositivi tra luci, ombre e “nubi dalla giurisprudenza”, in Ipsoa Quotidiano, 3 febbraio 2024).
Circa i limiti all’autotutela derivanti dalla presenza di una sentenza passata in giudicato, invece, l’abrogato art. 2, comma 2, del D.M. n. 37/1997, vietava l’annullamento solamente “per motivi sui quali sia intervenuta sentenza passata in giudicato”, lasciando così intendere che l’autotutela fosse possibile per motivi diversi da quelli coperti dal giudicato. Con la nuova normativa sembrerebbe che nulla sia cambiato rispetto al regime previgente, considerato che la relazione illustrativa al D.Lgs. n. 219/2023 afferma che “non è ostativo all’autotutela né un giudicato meramente processuale, né un giudicato sostanziale basato su motivi diversi da quelli che giustificano l’autotutela”.
Inoltre, per quanto concerne l’autotutela sospensiva, pur in assenza di una specifica norma a fronte dell’abrogazione dell’articolo 2 quater del D.L. n. 564/1994, è plausibile ritenere che nel potere di annullamento in autotutela sia compreso il potere di sospendere gli effetti dell’atto, in attesa del completamento dell’istruttoria.
8. Dunque, alla luce della disciplina normativa previgente e del deludente contesto giurisprudenziale, che sembravano non cogliere la specificità dell’autotutela relegandola all’esercizio di un potere di natura discrezionale, la regolamentazione prevista dai decreti legislativi di riforma esaminati intende dare maggiore portata applicativa all’istituto, spesso interpretato in maniera restrittiva (DAL CORSO-RENDA, op. cit., p. 868). Sulla scia delle previsioni della C.M. n. 198/1998, mai davvero applicata (“è tuttavia indubbio che l’ufficio stesso non possiede un potere discrezionale di decidere a suo piacimento se correggere o meno i propri errori”), si esclude invero la preclusione da definitività e si attribuisce rilevanza anche al silenzio (MELIS, Una visione d’insieme delle modifiche allo Statuto dei diritti del contribuente: i principi del procedimento tributario, in Il fisco, 2024, p. 227 ss.).
La volontà di conferire all’istituto una tale “dignità rafforzata” è avvalorata dalla collocazione della nuova normativa all’interno dello Statuto dei diritti del contribuente, vale a dire nell’ambito dei principi generali dell’ordinamento (DAL CORSO-RENDA, op. cit., p. 868, INGRAO, I nuovi sviluppi della normativa sull’autotutela, in Riv. tel. dir. trib., 29 ottobre 2023).
Seppur tale “definizione statutaria” confermerebbe la necessità di riconoscere all’autotutela tributaria una propria specialità, in virtù della natura del rapporto tributario e della regolamentazione positiva dell’istituto, persistono tuttavia incertezze sull’effettiva espansione dell’ambito applicativo dell’autotutela a seguito della riforma.
Nonostante siano stati definiti casi di autotutela obbligatoria sulla scia della pronuncia della Corte Costituzionale, non è da escludere infatti che la distinzione fra autotutela obbligatoria e facoltativa, codificata con la riforma, possa comportare una frammentazione dell’istituto.
Basti considerare che, nello stesso catalogo di “errori manifesti”, i casi di cui alle lettere e) e g) richiedono qualche riflessione maggiore, trattandosi di ipotesi “abbastanza aperte” che potrebbero comportare interpretazioni estensive (cfr. BASILAVECCHIA, op. cit.; VOZZA, L’inclusione tra gli atti impugnabili del rifiuto di autotutela obbligatoria, in Il fisco, 2024, p. 1125 ss.).
Permangono poi notevoli perplessità in merito all’impugnabilità del silenzio rifiuto nei casi di autotutela obbligatoria, data la scelta di consentire la proposizione del ricorso contro il silenzio in un termine che, coincidente con quello di prescrizione, appare incoerente rispetto al limite annuale previsto in relazione all’obbligo dell’Amministrazione.
Pertanto, l’assenza di una chiara e netta definizione dei limiti del sindacato giurisdizionale sul diniego, sia espresso che tacito, opposto dall’Amministrazione, potrebbe lasciare ampio margine di discrezionalità agli orientamenti giurisprudenziali, considerato che i giudici tributari dovranno confrontarsi con le difficoltà interpretative sollevate dalla nuova normativa, anche con riguardo all’efficacia delle sentenze di annullamento del diniego di autotutela obbligatoria.