argomento: IVA - Giurisprudenza
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha recentemente dichiarato incompatibile con il diritto europeo l’articolo 33, comma 28, della legge n. 183/2011, che consente ai contribuenti di ottenere il rimborso, nella misura del 60%, di quanto versato a titolo d’imposta sul valore aggiunto nel periodo tra aprile 2009 e dicembre 2010 in relazione al terremoto che ha interessato il territorio abruzzese nel 2009. I Giudici unionali giungono a queste conclusioni valorizzando i principi di neutralità fiscale dell’IVA e di effettività del diritto europeo, criteri d’ordine generale la cui applicazione sarebbe stata pregiudicata dagli effetti “distorsivi” prodotti, in concreto, dalla normativa italiana.
» visualizza: il documento (Corte di Giustizia, sentenza del 18 marzo 2024, in causa C-37/23)PAROLE CHIAVE: imposta sul valore aggiunto - principio di neutralità fiscale - principio di effettività
di Andrea Purpura
1. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è recentemente pronunziata in ordine alla compatibilità tra l’articolo 33, comma 28, della legge n. 183/2011 ed i principi che regolano il funzionamento dell’imposta sul valore aggiunto.
In particolare il giudice del rinvio ha chiesto di valutare se gli artt. 2, 206 e 273 della direttiva IVA, in combinato disposto con il principio di neutralità fiscale, oltreché i principi espressi dall’ordinanza della Corte, del 15 luglio 2015, Agenzia delle Entrate NuovaInvincibile srl, in C‑82/14, nonché nella sentenza del 17 luglio 2008, Commissione vs. Italia, in C‑132/06, ostino ad una disposizione normativa, quale, nella specie, l’articolo 33, comma 28, della legge n. 183/2011, che consente ai contribuenti di ottenere il rimborso, nella misura del 60%, di quanto versato a titolo d’imposta sul valore aggiunto nel periodo tra aprile 2009 e dicembre 2010 in relazione al terremoto che ha interessato il territorio abruzzese nel 2009.
I Giudici europei, seguendo un percorso argomentativo che sarà analizzato nel prosieguo, hanno concluso che gli articoli 2, 206 e 273 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, in combinato disposto con il principio di neutralità fiscale, devono considerarsi confliggenti con una normativa nazionale come quella italiana.
Prima di esaminare le questioni giuridiche di maggior rilievo che emergono dallo studio della sentenza, è utile delineare sinteticamente i contorni fattuali dal quale promanano la questione pregiudiziale sottoposta dal giudice del rinvio alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea e le conclusioni da quest’ultima raggiunte.
2. Ebbene, nel caso di specie un contribuente italiano - persona fisica esercente la professione di notaio - ha presentato un’istanza di rimborso di Euro 102.088 versati, a titolo d’imposta sul valore aggiunto, nel periodo compreso tra l’aprile 2009 ed il dicembre 2010.
Ad avviso del contribuente, la domanda di rimborso del tributo avrebbe trovato fondamento nell’articolo 33, comma 28, della legge n. 183/2011, ai sensi del quale “per consentire il rientro dall'emergenza derivante dal sisma che ha colpito il territorio abruzzese il 6 aprile 2009 […] l'ammontare dovuto per ciascun tributo […] al netto dei versamenti già eseguiti, è ridotto al 40 per cento”.
L’Agenzia delle Entrate concluse per l’infondatezza dell’istanza di rimborso atteso che l’art. 33, comma 28, della legge n. 183/2011, laddove si riferisce ai versamenti dell’imposta sul valore aggiunto “già eseguiti”, impedirebbe la restituzione dell’imposta sul valore aggiunto già versata.
A seguito dell’ impugnazione del diniego di rimborso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale dell’Aquila, e del rigetto del ricorso in primo grado, il contribuente propose appello dinanzi alla Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo.
A tal scopo dedusse che la situazione dei soggetti passivi che non avevano ancora versato l’IVA e che avrebbero potuto fruire, pertanto, della riduzione del pagamento da effettuare, sarebbe stata identica a quella dei soggetti passivi che, avendo effettuato tali pagamenti, avrebbero potuto richiedere il rimborso delle somme versate in eccedenza.
I giudici del secondo grado accolsero il ricorso del contribuente e dichiararono illegittimo il diniego di rimborso dell’imposta sul valore aggiunto.
L’amministrazione finanziaria propose, dunque, ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione, deducendo una violazione dell’articolo 108, paragrafo 3, TFUE e dell’articolo 11, paragrafo 1, del regolamento (CE) n. 659/1999 del Consiglio, del 22 marzo 1999, recante modalità di applicazione dell’articolo 108 TFUE.
Il giudice del rinvio, rilevato che non esisterebbe, ad oggi, una giurisprudenza specifica sull’applicazione dell’articolo 33, comma 28, della legge n. 183/2011 invocato dal contribuente, si è interrogato in ordine ai possibili profili di collegamento tra la questione in commento e le conclusioni formulate dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea con l’ordinanza del 15 luglio 2015, Nuova Invincibile, in C-82/2014), relativamente al vantaggio previsto dall’articolo 9, comma 17, della legge 27dicembre 2002, n. 289.
Più precisamente, ad avviso della Corte di Cassazione il vantaggio integrato dal rimborso richiesto dal contribuente ai sensi dell’art. 33, comma 28, della legge n. 183/2011, avrebbe prodotto i medesimi effetti già censurati dalla Corte europea con la sentenza del 17 luglio 2008, Commissione vs. Italia, in C‑132/06; sicché, al pari della normativa italiana all’epoca considerata - ovvero la legge n. 289/200 - anche l’art. 33, comma 28, della legge n. 183/2011 non avrebbe sgravato i soggetti passivi dell’onere fiscale rappresentato dall’IVA.
Al contrario, l’applicazione della norma avrebbe consentito ad alcuni soggetti passivi di conservare o incamerare somme pagate dal consumatore finale e dovute all’Amministrazione Finanziaria.
Circostanza dalla quale deriverebbe una violazione del principio di neutralità fiscale sul quale l’imposta sul valore aggiunto si regge.
Stante il quadro d’incertezza interpretativa, i Giudici di legittimità, sospeso il procedimento principale, hanno sottoposto alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea una questione pregiudiziale con la quale si è chiesto di valutare, come sopra anticipato, la compatibilità dell’art. 33, comma 28, della legge n. 183/2011 con il diritto unionale.
Il Collegio europeo ha concluso per l’incompatibilità della normativa italiana.
Tutto ciò premesso, tanto la questione affrontata dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea quanto le conclusioni da quest’ultima raggiunte, sembrerebbero ruotare essenzialmente attorno a due profili riguardanti il (corretto) funzionamento dell’imposta sul valore aggiunto, ovvero: il principio di neutralità fiscale e, al contempo, l’effettività delle norme europee, quale presidio dell’uniforma applicazione del tributo all’interno degli Stati Membri.
Trattasi di circostanze che, seppur connesse, meritano d’essere approfondite disgiuntamente.
Se non altro perché entrambe conducono ad argomentazioni che sembrerebbero sorreggere autonomamente le conclusioni raggiunte dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Procediamo con ordine.
3. La Corte europea - accogliendo le perplessità dei Giudici di legittimità italiani che hanno condotto al rinvio pregiudiziale - ha ravvisato una sovrapponibilità tra gli effetti della normativa italiana analizzata in occasione della sentenza del 15 luglio 2015 (Agenzia delle Entrate contro Nuova Invincibile) - ovvero l’art. 9, comma 17, della legge n. 289 del 2002 - ed il giudizio che ci occupa, riguardante gli effetti prodotti dall’art. 33, comma 28, della legge n. 183/2011 sulla riscossione dell’imposta sul valore aggiunto.
Ciò perché, sia la normativa analizzata nel 2015 sia quella considerata, ben più di recente, dai Giudici europei, produrrebbero i medesimi effetti e, in particolare, gli stessi pregiudizi sul corretto funzionamento dell’imposta sul valore aggiunto e, specificamente, in ordine alla corretta applicazione del tributo nel territorio italiano.
In concreto, sia nell’uno che nell’altro caso analizzato dai Giudici unionali, la riduzione d’imposta prevista a fronte di talune circostanze eccezionali verificatesi in Italia (e. un evento sismico), non si sarebbe tradotta in uno sgravio dei soggetti passivi dall’onere fiscale rappresentato dall’IVA, ma nella conservazione di somme pagate dal consumatore finale che il soggetto passivo di diritto avrebbe dovuto versare all’Erario italiano.
Si tratta di una circostanza di non poco momento perché da essa discenderebbero almeno due effetti.
In primo luogo, darebbe luogo ad uno scostamento tra il corretto modo d’essere dell’imposta sul valore aggiunto e l’applicazione subita, nel caso di specie, dal tributo.
In secondo luogo, si configurerebbe una compressione dei principi d’ordine generale – primo tra tutti, il principio di neutralità fiscale - che definiscono l’applicazione dell’imposta in questione negli ordinamenti nazionali.
Le conclusioni raggiunte dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea sembrerebbero essere fondate.
In tal senso deporrebbero, anzitutto, le indicazioni interpretative espresse, nel tempo, dalla medesima Corte di in ordine agli obblighi gravanti sugli Stati Membri in sede di riscossione dell’imposta sul valore aggiunto; doveri che devono essere presi in considerazione attraverso due lenti d’ingrandimento: il principio di neutralità e, come si dirà nel paragrafo successivo, il principio di effettività.
3.1. Ebbene, con riferimento al primo punto, la Corte europea ha più volte ribadito che grava su ciascuno Stato membro l’obbligo di adottare tutte le misure legislative e amministrative al fine di garantire che l’IVA sia interamente riscossa nel suo territorio (a titolo esemplificativo si rinvia a CGUE, sentenza del 17 luglio 2008, in C-132/06, CGUE, Commissione delle Comunità europee contro Repubblica italiana; CGUE, sentenza del 29 marzo 2012, in C-500/10, Belvedere costruzioni; CGUE, sentenza del 7 aprile 2016, in C-546/14, Degano Trasporti S.a.s., con commento di TRAVERSA E, I condoni fiscali degli Stati Membri e la loro compatibilità con il diritto dell’Unione Europea, in Dir. Prat. Trib. Int., 2010, p. 235 e ss.; CGUE, sentenza del 26 febbraio 2013, in C-617/10, Åklagaren).
I predetti obblighi costituiscono attuazione del, ben più ampio, principio di neutralità fiscale, canone d’ordine generale in base al quale gli operatori economici che effettuano le stesse operazioni non devono essere trattati diversamente in materia di riscossione dell’IVA (ex multis, CGUE, sentenza del 18 ottobre 2007, in C-97/06, Navicon SA, nonché CGUE, sentenza del 16 settembre 2004, in C-382/02, Cimber AIR A/S) e non devono essere effettivamente incisi dal tributo (MARRAZZO C., Costruzione artificiosa ai fini IVA e obbligo di cooperazione europea, Rass. Trib., 2016, p. 817 e ss.).
Da ciò discende che le norme interne, in ossequio ai principi europei in parola, devono garantire la corretta attuazione dell’imposta sul valore aggiunto e dunque sia la uniforme applicazione del tributo all’interno dell’Unione (per tutte, CGUE, sentenza del 7 dicembre 2006, in C-240/05, Eurodental, CGUE, sentenza del 10 aprile 2008, in C-309/06, Marks & Spencer), sia l’assenza di distorsioni, anche in termini di disparità di trattamento, dalle quali possano scaturire effetti nocivi sulla concorrenza nel mercato unico europeo (sulla duplice accezione di “neutralità fiscale”, intesa come “parità di trattamento” e “neutralità concorrenziale”, si vd. MONTANARI F, Le operazioni esenti nel sistema dell’IVA, Torino, 2013, p. 97).
In questo scenario, se è vero, per una parte, che l’imposta sul valore aggiunto può essere soggetta a modulazioni per rispondere ad esigenze, anche straordinarie, d’ordine economico e sociale (da ultimo, RUSSO F., La flessibilità delle aliquote IVA quale strumento di attuazione del Green Deal europeo, Tax News del 24 gennaio 2023), è altrettanto vero che alla predetta “mitigazione” non possa corrispondere - salve ipotesi eccezionali entro il cui perimetro non rientrerebbe il caso che ci occupa - un ridimensionamento del principio di neutralità fiscale da parte degli Stati Membri.
Ciò perché si tratta, appunto, d’un canone che sovraintende precisamente al corretto funzionamento del tributo e concorre a garantire la stabilità della concorrenza interna al mercato comune (CGUE, sentenza del 9 Dicembre 2021, in C-154/20, Kemwater ProChemie, nonché CUGE, sentenza del 25 maggio 2023, in C-114/2, Dyrektor Izby Administracji Skarbowej w WarszawieI).
Applicando queste coordinate d’ordine generale al caso di specie, emerge chiaramente la ragione della collisione tra l’art. 33, comma 28, della legge n. 183/2011 e la normativa europea.
Nella specie, l’art. 33, comma 28, della legge n. 183 del 2011 non avrebbe definito i presupposti per il conseguimento di un legittimo, perché normativamente giustificato, “risparmio d’imposta”.
Al contrario, stante la ricostruzione di fatto offerta dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la norma italiana sarebbe fortemente distorsiva ed avrebbe creato le condizioni acché i soggetti interessati dalla norma conseguissero una sorta di “stoccaggio d’imposta” che si sarebbe tradotto, in concreto, in un (maggior) capitale di cui il contribuente avrebbe potuto deliberatamente (ed illegittimamente) servirsi.
E’ proprio qui che risiederebbe l’evidente snaturamento del tributo, il quale, stante la sua natura “a cascata” e “plurifasica”, avrebbe richiesto che il soggetto passivo di diritto (ovvero il prestatore del servizio o chi abbia ceduto il bene) raccogliesse l’IVA scaturente dalla prestazione effettuata e la versasse all’Erario.
Circostanza che, nel caso di specie, non ha trovato verificazione alcuna.
4. Tenuto conto del percorso argomentativo della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, gli effetti prodotti dall’art. 33, comma 28, della legge n. 183 del 2011 sembrerebbero altresì pregiudicare l’operatività del principio di effettività del diritto dell’unione europea.
E’ possibile giungere a queste conclusioni alla luce della dimensione, almeno triplice, che il predetto principio assume.
Quest’ultimo si atteggia, infatti, quale garanzia della corretta applicazione delle norme europee all’interno degli Stati Membri (in tal senso, sia consentito rinviare a PURPURA A, Il principio di leale collaborazione e di effettività quali presidi del rimborso dell’eccedenza iva, in Dir. Prat. Trib. Int., 2024, p. 286) e come canone che, in attuazione del principio di leale collaborazione tra Unione Europea e Stati Membri, è preordinato alla piena integrazione giuridica europea (DEL FEDERICO L., Poteri ed obblighi del Giudice Tributario. Il diritto all’effettivita` delle norme armonizzatrici in materia tributaria, Atti di Convegno–Consiglio di Presidenza della giustizia Tributaria, del 26-27 ottobre 2012).
Il principio di effettività si afferma, inoltre, come criterio d’ordine generale volto a valorizzare la funzione naturalmente “nomofilattica” della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (BORIA P., La funzione della Corte di Giustizia rispetto alla formazione dell’ordinamento tributario comunitario, Studi Tributari Europei, 2021, p. 2), quale soggetto che, valutando il rapporto delle norme e dei principi europei con le disposizioni (anche tributarie) nazionali, si adopera per realizzare la più efficace integrazione possibile tra gli ordinamenti giuridici (D’ANGELO G., Integrazione europea e interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2013).
Le diverse declinazioni che il principio di effettività può assumere conducono ad una prima conclusione: ogniqualvolta la Corte di Giustizia dell’Unione Europea sia chiamata a valutare la compatibilità tra le norme europee e quelle vigenti negli Stati Membri, dovrà considerare in almeno due profili, ovvero: l’assenza di conflittualità tra le norme statali ed i principi di matrice europea nonché l’idoneità della normativa interna a garantire l’applicazione delle norme europee.
Si tratta di una verifica che riguarda la piena, e dunque effettiva, applicazione del diritto europeo all’interno degli Stati Membri.
Un sindacato, quello sull’effettività del diritto europeo, che può ritenersi soddisfatto non tanto laddove sia riscontrabile un “annientamento” degli interessi nazionali in forza della radicale prevalenza del diritto europeo su quello domestico; ma (soltanto) nell’eventualità in cui sia correttamente attuato quel contemperamento degli interessi che, come già osservato tempo addietro dalla medesima Corte europea (CGUE, sentenza del 13 dicembre 1979, in C-44/79, Hauer, par. 15), sia in grado di assicurare la tutela dei diritti affermati nelle costituzioni degli Stati Membri, senza rinunciare al principio di supremazia del diritto europeo (FORNIELES GIL A., Il principio di proporzionalità, in DI PIETRO A., TASSANI T. (a cura di), I principi europei del diritto tributario, Padova, 2014, pp. 160-186).
Garantire l’effettività del diritto europeo negli Stati Membri rappresenta, pertanto, un esercizio complesso che impone (e, potremmo dire, presuppone) l’affermazione del primato dell’ordinamento unionale rispetto agli ordinamenti nazionali, e quindi la diretta applicabilità del diritto europeo (DEL FEDERICO L., GIORGI S., Il multilateralismo nelle convenzioni internazionali in materia fiscale: la prospettiva europea e l’esperienza italiana, Prat. Trib. Int., 2015, p. 808); senza che da ciò discenda, però, una recessione del nucleo di diritti “incomprimibili” individuati, a livello costituzionale, dagli Stati Membri.
Ragionando in questi termini, nell’eventualità in cui il legislatore nazionale ometta di dare attuazione ai principi europei o, in ogni caso, la Corte di Giustizia dell’Unione ravvisi una conflittualità tra la normativa statale e quella di matrice unionale, si configurerebbe una lesione di quello standard uniforme di tutela, definito per tutti gli Stati dell’Unione (MICELI R., Novità sui termini di tutela del rimborso dei tributi incompatibili. Riflessioni su una recente pronuncia della Corte di Giustizia, Tax News del 29 settembre 2021), che proprio il principio di effettività intende salvaguardare (CGUE, sentenza del 14 dicembre 1995, in C-430/93 e C-431/93, Van Schijndel; CGUE, sentenza del 10 luglio 1997, in C-261/95, Palmisani).
Alla luce di queste considerazioni, l’art. 33, comma 28, della legge n. 183 del 2011 non potrebbe che considerarsi contrario anche al principio di effettività.
Se non altro perché dall’applicazione della normativa italiana sarebbero scaturiti almeno due effetti.
In primo luogo, uno snaturamento del meccanismo di funzionamento normale, e corretto, dell’imposta sul valore aggiunto.
In secondo luogo, la produzione di effetti contrari ai principi europei che regolano il corretto modo d’essere del tributo e che dovrebbero trovare applicazione, ai fini IVA, su tutte le attività economiche, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di dette attività, purché queste siano, in linea di principio, a loro volta soggette all’imposta in questione (CGUE, sentenza del 7 marzo 2024, in C-341/2022, Feudi di San Gregorio Aziende Agricole SpA).
5. Un’ultima considerazione.
Il caso in questione sembrerebbe rappresentare un’ulteriore testimonianza di come la valutazione circa la coerenza tra le norme nazionali in materia d’imposta sul valore aggiunto e i principi unionali, nella specie quelli di neutralità fiscale ed effettività del diritto dell’unione europea, non possa essere condotta soltanto attraverso una valutazione giuridica “stricto sensu” delle norme prese di volta in volta in considerazione.
In altre parole, non si tratta di ricorrere soltanto ad interpretazioni restrittive, estensive, teleologiche o letterali delle norme nazionali, così da valutarne la coerenza con i principi europei.
Al contrario, la valutazione di coerenza tra la norma nazionale ed i canoni generali di matrice unionale passerebbe anche da una valutazione concreta degli effetti economici - prima ancora che giuridici - prodotti dalla normativa applicabile all’interno degli Stati in una triplice prospettiva: sul mercato nazionale, sul mercato unico e sulla coerenza ex se delle norme nazionali rispetto al corretto modo d’essere del tributo.
La questione giurisprudenziale analizzata sembrerebbe essere un esempio perfetto dei profili appena evidenziati.
Se non altro perché i Giudici della Corte hanno (ad una prima analisi, correttamente) concluso per la incompatibilità della normativa italiana con i principi europei in ragione di una valutazione economica, prima ancora che giuridica, degli effetti distorsivi prodotti dalla legge italiana.
In tal senso, la centralità, ed anche la necessità, di una valutazione siffatta potrebbe spiegarsi alla luce delle caratteristiche proprie dell’imposta sul valore aggiunto, con particolare riguardo agli effetti – stabilizzanti o profondamente alteranti – che il tributo può produrre sulla solidità complessiva del sistema tributario nazionale e, trattandosi dell’IVA, soprattutto europeo.
Così ragionando, l’opportunità di una valutazione economica - concorrente e non alternativa a quella giuridica - degli effetti delle norme tributarie che riguardano l’imposta sul valore aggiunto si tradurrebbe in un vero e proprio criterio di valutazione connaturato alle caratteristiche proprie del tributo, il quale, fondandosi sulla traslazione dell’onere tributario al di fuori del perimetro dei soggetti passivi individuati dalla norma tributaria (SALVINI L., Rivalsa, detrazione e capacità contributiva nell’imposta sul valore aggiunto, in Riv. dir. trib., 1993, p. 1319), sembrerebbe imporre un’analisi del corretto modo d’essere dell’imposta che guardi in una direzione duplice: verso gli effetti giuridici prodotti dalle norme applicabili ai rapporti (negoziali) immediatamente rilevanti ai fini dell’IVA, e verso gli effetti, anche economici, scaturenti sulla collettività e, più specificamente, sulla solidità del mercato unico.
Stabilità al quale concorre, come detto,anche l’IVA purché l’applicazione del tributo avvenga, com’è chiaro che sia, in modo coerente con i principi che la governano.